La pena di morte

pena_morteRubrica Vivaio (271) su Avvenire
del 7 novembre 1989

Rubrica Vivaio (272) su Avvenire

del 9 novembre 1989

di Vittorio Messori

Sarà bene precisare subito, a scanso di equivoci, quanto chiariremo meglio in seguito: quel che tentiamo con il discorso iniziato domenica non è di certo una sorta di “elogio del boia” alla de Maistre, con magari uno schierarsi a favore della reintroduzione della pena di morte nei 99 Paesi del mondo che l’hanno cancellata. ne siamo ben lontani.

Quel che ci interessa è mostrare che anche qui, come in moltissimi altri campi, abbiamo dimenticato quel saper distinguere (distinguer frequenter!) che, così giustamente, preoccupava i pre moderni. nel caso in questione, molto spesso non si sa più distinguere tra legittimità del patibolo e sua opportunità; tra un diritto della società di mandare a morte un suo membro ed esercizio di quel diritto.

Ma soprattutto – lo dicevamo domenica – ciò che deve preoccupare un credente è l’atteggiamento della Chiesa: la quale sempre, nel suo Magistero più alto, ha affermato la legittimità della pena di morte decretata dalle autorità riconosciute e ne ha concesso alla società il diritto.

Dopo il concilio, questo è contestato a diversi livelli. Prendiamo (un esempio tra i moltissimi possibili), il Dizionario di Antropologia pastorale, frutto del lavoro dell’associazione dei moralisti cattolici di lingua tedesca, uscito in Germania e in Austria nel 1975 con non solo tutti gli imprimatur ma anche grazie a un finanziamento dell’episcopato. E’ stato edito da noi, nel 1980, dalle Devoniane. In quest’opera che non esprime la voce di un privato teologo ma una posizione “cattolica” comune, si legge: «Il cristiano non ha il minimo motivo di invocare la pena di morte o di dichiararsi favorevole ad essa».

Il documento di una commissione teologica dell’episcopato francese dichiarava nel 1979 ogni esecuzione capitale come «incompatibile con il Vangelo». In modo altrettanto sicuro si esprimevano, negli Stati Uniti e nel Canada, quei Church-intellectuals, quegli “intellettuali clericali” che – nell’anonimato – elaborano i documenti che poi gli episcopati approveranno (naturalmente secondo quelle implacabili “leggi dei gruppi” che rendono così perplessi sulla reale portata di quelle approvazioni vescovili).

Nel 1973, Leandro Rossi, direttore del Dizionario di Teologia Morale edito dalle Edizioni Paoline (anche, qui, con ogni approvazione ecclesiastica) inizia così la voce “Pena di morte”: «E’, questo, uno dei classici temi ove le posizioni si sono capovolte nell’era contemporanea, anche se non universalmente e definitivamente.

Il processo di umanizzazione ebbe origine, purtroppo, non nell’ambiente del cristianesimo ma laico e vide i cattolici rimorchiati a fatica da quanti si mostravano più coerenti con l’indirizzo umanizzante del Vangelo. Siamo in uno di quei casi, insomma, nei quali non è la Chiesa che ha donato al mondo, bensì quella che ha ricevuto da questi».

Queste posizioni sono appaganti per chi le esprime, ma sembrano però non vedere tutte le devastanti conseguenze: non in un periodo solo, ma per tutta la sua intera storia dagli inizi sino ad oggi, la Chiesa – nel suo Magistero solenne dei Papi e dei Concili, ma anche nei Padri, nei grandi teologi che erano anche santi come Tommaso d’Aquino, nei suoi uomini più prestigiosi e autorevoli, senza eccezione – la Chiesa, dunque ha dichiarato legittima quell’esecuzione capitale che sarebbe invece, per le posizioni di oggi, un delitto, un crimine, un tradimento del Vangelo

Come è stato osservato: «Se davvero è così, come difendere la Chiesa dalla colpa di complicità con i capi di governo, responsabili di innumerevoli assassinî quanti appunto sarebbero state le esecuzioni capitali di tutti gli individui uccisi in nome di una falsa “giustizia”?».

Al di là, del piano dottrinale, per scendere alla prassi: «Come attenuare (sempre nell’ipotesi che ogni pena di morte sia assolutamente ingiusta, criminosa) le responsabilità dei Papi che per oltre un millennio, nei loro Stati, non hanno agito diversamente da tutti i magistrati civili delle altre nazioni?». Insomma, un’ombra oscura si proietta su tutto quanto l’insegnamento cattolico: «Come prendere più sul serio una morale che oggi biasima come gravemente illecito, come un tradimento della missione stessa del cristo, quanto fino a ieri aveva ritenuto non solo legittimo ma in qualche caso doveroso?».

Sembra che anche su questo tema certa teologia – o anche certi episcopati, ammesso che il loro pensiero sia davvero espresso dai documenti che gli “esperti” preparano per loro – sembra che non vedano, o peggio, non si curino delle conseguenze che, sulla fede della gente, hanno le loro variazioni dottrinali.

Ma sembra anche che qui si verifichi quel fenomeno paradossale e contraddittorio che contrassegna certa teologia odierna: la quale protesta di volere basarsi solo sulla Scrittura ma al contempo l’aggira, la rimuove, l’ignora (o la tratta un po’ infastidita) quando non risponde al suo “spirito” che dice essere lo “spirito dei tempi” se non quello di Cristo stesso.

In effetti, non vale la pena spendere troppe parole per dimostrare come, nell’Antico testamento, la pena di morte sia non solo permessa da Dio ma da Lui comandata. tanto che la legislazione elaborata dai maestri d’Israele in base alla Legge prescriveva l’esecuzione capitale per ben 35 reati: dall’adulterio alla profanazione del sabato, dalla bestemmia all’idolatria sino alla ribellione (anche solo a parole) contro i genitori. Basti ricordare, tra i molti brani possibili, il versetto del Genesi (9,6) in cui Jahvé dice a Noè: «Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo».

Si veda poi il capitolo 35 di Numeri dove è ribadito, per i casi specificati, non il diritto ma il dovere della pena di morte, precisando: «queste vi servano come norme di diritto, di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete» (Num 35,29). Per la Legge d’Israele, l’uccisione di certi colpevoli non appare solo come un adeguamento alla mentalità del tempo, ma è motivata da Dio stesso in base a principi religiosi prima ancora che di opportunità sociale. Ed è chiaro che il “Non uccidere!” del decalogo vuol dire: “Non assassinare, non uccidere ingiustamente” e non riguarda la pena legale di morte.

Tutto questo (che è forse duro: ma è pur sempre, per il credente, parola di Dio, quella Parola alla quale si dice di volere essere fedeli) è messo sbrigativamente da parte dalle nuove posizioni che dicevamo. Oppure si cerca di risolvere il problema dicendo che il Nuovo testamento supera l’Antico, che lo spirito evangelico abroga la legislazione di sangue mosaica. Ma, anche in questo modo, non si prende sul serio la parola, in questo caso quella di Gesù che dichiara di «non essere venuto per abrogare la legge ma per completarla», che «non passerà neppure uno jota della Legge».

In effetti, egli non contraddice Pilato, ricordandogli solo da dove gli viene questa autorità (che dunque gli riconosce) quando il Governatore dice: «Non sai che io ho il potere di metterti in libertà o di metterti in croce?» (Gv 19, 10). Né contraddice, secondo Luca, il “buon ladrone”, facendogli anzi la promessa più grande quando questi dice che «giustamente» egli e il suo compare «sono stati condannati a quella pena». «Noi riceviamo il giusto per le nostre azioni».

Come è stato notato : «in Atti, 5, 1-11, appare che dalla pena di morte non aborrì la comunità cristiana primitiva, poiché i coniugi Anania e Saffira, rei di frode e di menzogna ai danni dei fratelli nella fede, comparsi davanti a San Pietro ne furono colpiti».

Ma è soprattutto Paolo che dà lo Jus gladii ai principi e li chiama ministri di Dio per castigare i malvagi, se necessario mandandoli a morte. E quel 13° capitolo della lettera ai Romani – un tempo famoso, ora spesso taciuto con qualche imbarazzo – soprattutto dove si dice «Vuoi non avere da temere l’autorità? fa il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma, se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male» (Rom. 13, 3 s.).

Di queste chiare parole paoline, non sembra lecito liberarsi con argomenti sconcertanti – e dettati chiaramente dal desiderio di liberarsi di una parola scritturale contraria alla propria tesi – come quelli usati dal già citato Dizionario di Antropologia Pastorale: «Paolo, in Rom. 13, ha sicuramente pensato alla prassi della decapitazione dei grandi criminali in uso nell’impero romano.

Tuttavia, ciò che gli premeva raccomandare – facendo tale allusione – era solo l’obbedienza verso la legittima autorità statale…». Escamotage sorprendente, forse un po’ penoso: in effetti, non venne in mente, per duemila anni, a nessuno dei grandi teologi e a nessuno dei pastori e dei Concili che, anche basandosi su Rom. 13, non negarono legittimità alla pena di morte inflitta dalle autorità costituite con regolare processo.

Non dimenticando che questo riconoscimento ecclesiale non era di certo fatto a cuor leggero, tanto che il diritto canonico colpiva di irregolarità (di divieto, cioè di accedere agli Ordini Sacri) il carnefice, i suoi aiutanti e persino il giudice che, pur rispettando la legge, avesse pronunciato una sentenza di morte. ma questo orrore del sangue non poteva far dimenticare non soltanto le prescrizioni bibliche ma anche altre considerazioni oggi dimenticate e che vorremmo esporre la prossima volta, giovedì.

* * *

Come ci pare di avere dimostrato martedì (e non ci voleva molto sforzo, i testi essendo chiarissimi e notissimi) la pratica della pena di morte da parte della società è imposta da Dio stesso nella Legge dell’Antico testamento ed è ammessa da Gesù e dagli apostoli nel Nuovo Testamento. Come scrive lo stesso Catechismo Olandese, «non si può sostenere che il Cristo abbia abolito esplicitamente la guerra o la pena di morte». Anche se lo stesso Catechismo cade nel solito equivoco di dimenticare che la morale evangelica è rivolta innanzitutto al singolo. Io ho il dovere di porgere l’altra guancia. Noi, in quanto società, solo a certe condizioni.

Non si riesce comunque a capire su cosa si basino quei “teologi” e quei “biblisti” che giudicano qui la Chiesa «infedele alla Scrittura». Quale Scrittura? Forse, the Wish-Bible, la “Bibbia del desiderio”, la Bibbia così come l’avrebbero scritta loro oggi. C’è, piuttosto, da registrare una differenza importante : per la legge data a Noè e a Mosé, la condanna a morte dei rei di certi delitti era un obbligo, una necessaria obbedienza alla volontà di Dio.

Invece per il Nuovo Testamento (così come l’ha inteso la grande Tradizione, sin dai Padri della Chiesa) l’esecuzione capitale è fuori discussione legittima, ma non è detto che essa sia sempre opportuna. L’opportunità dipende da un giudizio variabile a seconda dei tempi. Una cosa è il diritto riconosciuto all’autorità che, per dirla con Paolo, “non invano porta la spada”; altra cosa è l’esercizio di quel diritto.

Per quel che vale il mio giudizio, nella società e nella cultura dell’Occidente secolarizzato, reintrodurre il patibolo là dove è stato abolito non sarebbe opportuno; meglio è non esercitare quello che pure resta un diritto della società. E vedremo perché.

Non sto qui, comunque, ad attardarmi sulle statistiche che secondo alcuni confermerebbero e secondo altri negherebbero l’efficacia della minaccia di morte nel prevenire il crimine. In fondo, si tratta di un problema secondario rispetto a quello che – soprattutto per un cristiano – quello primario: «Se Dio solo dà la vita, è lecito all’uomo toglierla ad altri uomini? esiste un diritto alla vita di tutti, anche dell’assassino, diritto che mai possa essere violato?».

In verità, coloro che danno a queste domande delle risposte nel senso sfavorevole alla pena di morte, ammettono però il diritto della società di rinchiudere in prigione i colpevoli dei reati. Ora: Dio ha creato l’uomo libero, come possono gli uomini togliere questa libertà ad altri uomini? Esiste un diritto alla libertà (“innato, inviolabile, imprescrittibile”, dicono i giuristi) che qualunque giudice infrange nel momento in cui condanna un suo simile anche soltanto a un’ora di reclusione coatta.

Ma la vita, si dice, è valore superiore alla libertà. Se ne è così sicuri? Gli spiriti più nobili e più sensibili lo negano. Come Dante. Non dice nulla il verso famoso: «Libertà vo cercando, come è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta»? Ma non si esce dalle contraddizioni (e non si riesce a capire perché tutte le culture tradizionali – e, dunque religiose – non abbiano sentito come innaturale e quindi impraticabile la condanna capitale) se non in una prospettiva che vada al di là di quella orizzontale. Una prospettiva, cioè, religiosa. E cristiana in particolare.

Romano Amerio

Quella prospettiva cioè, che distingue tra vita biologica, terrena e vita eterna. Che è convinto che solo il diritto inalienabile dell’uomo sia salvare non il corpo, ma l’anima. Che distingue tra vita come fine e come mezzo.

Pur rifuggendo dalle lunghe citazioni, questa volta è il caso di riprodurne una, visto che ogni parola è qui meditata alla luce di una visione cattolica che sembra oggi persa totalmente di vista. la citazione è di quel singolare, solitario laico cattolico che è lo svizzero Romano Amerio. Leggiamo, dunque:

«L’opposizione alla pena capitale deriva oggi spesso dal concetto dell’inviolabilità della persona in quanto soggetto protagonista della vita mondana, prendendosi l’esistenza mortale come un fine in sé che non può essere tolto senza violare il destino dell’uomo. Ma questo modo di rigettare la pena di morte, benché si guardi da molti come religioso, è in realtà irreligioso. Dimentica, infatti, che per la religione la vita non ha ragione di fine ma di mezzo al fine morale della vita che trapassa tutto l’ordine dei subordinati valori mondani».

«Perciò» continua lo studioso di Lugano «togliere la vita non equivale punto togliere all’uomo il fine trascendente per cui è nato e che ne costituisce la dignità. in quel rifiuto della pena di morte vi è un sofisma implicito: che cioè l’uomo , e in concreto lo Stato, abbia il potere, uccidendo il delinquente, di troncargli il destino, di sottrargli il fine ultimo, di togliergli la possibilità di adempiere al suo officio d’uomo. Il contrario è vero».

«In effetti», prosegue Amerio «al condannato a morte si può troncare l’esistenza terrena, non però togliergli il suo fine. Sono le società che negano la vita futura a pongono come massima il diritto alla felicità nel mondo di qua che devono rifuggire dalla pena di morte come da un’ingiustizia che spegne nell’uomo la facoltà di felicitarsi. ed è un paradosso vero che , verissimo, che gli impugnatori della pena di morte stanno in realtà per lo stato totalitario , giacché gli attribuiscono un potere molto maggiore che non abbia, anzi un potere supremo. quello di troncare il destino di un uomo. mentre, nella prospettiva religiosa, la morte irrogata da uomini a uomini non può pregiudicare né al destino morale né alla dignità umana».

Lo stesso autore, tra molte altre testimonianze sconcertanti della perdita della consapevolezza di che sia davvero il “sistema cattolico”, cita l’Osservatore romano che il 22.1.1977, scriveva, tra l’altro, a firma di un autorevole collaboratore: «La comunità deve concedere la possibilità di purificarsi, di espiare la colpa, di riscattarsi dal male, mentre l’estremo supplizio non la concede».

C’è da capire Amerio che commenta: «Così dicendo, proprio il giornale vaticano nega a gran verità che la pena capitale medesima è una espiazione. nega il valore espiatorio della morte che nella natura mortale è sommo, come sommo (nella relatività dei beni di sotto) è il bene della vita al cui sacrificio consente chi espia. D’altronde, l’espiazione del cristo innocente per i peccati dell’uomo non è connessa con una condanna a morte?»

E, dunque, «l’aspetto più irreligioso della dottrina che respinge la pena capitale risulta nel rifiuto del suo valore espiatorio, il quale nella veduta religiosa è invece massimo». In effetti, la Tradizione ha sempre visto un candidato sicuro al paradiso nel delinquente che, riconciliato con Dio, liberamente accettava il supplizio come espiazione della sua colpa. Tommaso d’Aquino insegna che: «La morte inflitta per i delitti leva tutta la pena dovuta per i delitti nell’altra vita. La morte naturale, invece, non la leva». Molti, reclamavano l’esecuzione capitale come loro diritto. Dunque il suppliziato pentito, morto munito dei sacramenti, è un “santo”: in effetti, il popolo si disputava le sue reliquie.

Non sono, questi, che colpi di sonda “religiosi” in una materia che, oggi, anche credenti sembrano affrontare con la tipica superficialità illuministica. Altre cose si potrebbero e si dovrebbero aggiungere, a completamento delle ragioni della Chiesa. l’idea (che è biblica, paolina anch’essa) della società non come aggregato di individui ma come corpo, come organismo vivente che ha dunque il diritto-dovere di troncare da sé membra che giudica infette, il concetto della legittima difesa che non riguarda solo l’individuo, come per noi individualisti, ma anche il corpo sociale; concetto della riparazione dell’ordine della giustizia e della morale infranto.

Legittima, dunque, la pena capitale, per la Chiesa, nella prospettiva di fede che è sua. ma per giustificare il nostro rifiuto della opportunità, oggi, del patibolo, la sintesi migliore è ancora quella di Amerio: «E’ che la pena di morte diventa barbara in una società irreligiosa che, chiusa nell’orizzonte terrestre, non ha diritto di privare l’uomo di un bene che per lui è tutto il bene». Un “no” al patibolo, dunque, motivato però non dalla religione ma dalla irreligione contemporanea.