Controindicazioni di una legge che non fermerà l’eutanasia

eutanasiaIl Foglio 22 marzo 2011

di Adriano Pessina

Direttore del Centro di Ateneo  di Bioetica dell’Università Cattolica

Al direttore – Un recente appello firmato da autorevoli personalità del mondo cattolico ha messo bene in luce i motivi per cui si ritiene urgente, oggi, varare la legge sulle “direttive anticipate di trattamento”.

Personalmente condivido i principi ispiratori di quell’appello, e le preoccupazioni che lo animano. Per questo motivo ritengo utile contribuire alla riflessione con qualche ulteriore annotazione.Va precisato che la legge che andrà in discussione ha un titolo molto ampio, che rende ragione di un fatto: al suo interno si collocano articoli che riguardano l’eutanasia, il suicidio assistito, le cure palliative, il fine vita, gli stati vegetativi, l’alleanza terapeutica, nonché, ovviamente, il consenso informato. Ciò che, secondo gli estensori della legge, dovrebbe attraversare questi argomenti è appunto il tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento che un soggetto in grado di intendere e volere può redigere per esprimere dei desiderata rispetto a una situazione in cui non potrà dare il proprio consenso informato a prassi di cura e di assistenza.

Se guardiamo ai motivi che oggi vengono addotti dai sostenitori di questa legge, essi sono riconducibili all’impegno a favore della vita e della salute del cittadino, alla preoccupazione di vietare sia l’eutanasia, sia il suicidio assistito e di ripristinare la cosiddetta alleanza terapeutica. Sono motivi assolutamente condivisibili.

Alcuni oppositori di questa legge, che in certi casi coincidono con coloro che per primi hanno caldeggiato, sotto un governo di diverso orientamento politico, l’introduzione del cosiddetto testamento biologico, lamentano le restrizioni poste all’esercizio della volontà del cittadino, chiedono che l’ultima parola non sia lasciata al medico, ma al paziente stesso, contestano l’articolo connesso all’impossibilità di rifiutare in anticipo alimentazione e idratazione e, in alcuni, più rari casi, si spingono a difendere esplicitamente anche l’introduzione dell’eutanasia e del suicidio assistito.

Ora, partendo da una piena e incondizionata adesione ai principi ispiratori di questa legge, resta però da chiedersi se davvero si ottenga l’effetto sperato introducendo un riconoscimento giuridico delle direttive anticipate, che già ora potevano essere “prese in considerazione” dai medici (secondo quanto prescritto dal Codice deontologico e dalla cosiddetta Convenzione di Oviedo). A nessuno sfugge che in fondo questa legge consente ciò che già è consentito e vieta quanto è già vietato, lasciando l’ultima parola al medico. Perché allora una legge?

Ora, si dice, questa scelta è dovuta al fatto che con il caso Englaro si è creato un vuoto legislativo di fronte alla cosiddetta magistratura creativa che ha abusato in termini interpretativi delle pretese volontà espresse da Eluana e perciò bisogna chiarire i limiti entro cui la volontà pregressa di un cittadino può essere accolta dal medico e riconosciuta dalla società.

Qui, a mio avviso, si colloca però una questione decisiva, che potrebbe capovolgere il disegno della legge stessa. Finora le dichiarazioni non avevano alcun riconoscimento giuridico e perciò l’ultima parola era lasciata al medico, il quale peraltro doveva evitare sia l’accanimento terapeutico, sia ogni forma di eutanasia. Se ci si fosse limitati a chiarire le fattispecie in cui si incorreva in un reato qualora si fosse prestato ascolto a dichiarazioni, spontanee e libere, che di fatto potevano contenere indicazioni atte a indurre comportamenti che potevano essere concausa della morte del paziente, si sarebbe ottenuto l’effetto di rafforzare la tutela della vita umana senza però dare eccessiva consistenza alla volontà pregressa del cittadino, facendo valere un atteggiamento fiduciario nei confronti della medicina e del medico.

Ma facendo una legge che, come questa, riferendosi alla Costituzione e al principio del consenso informato conferma in modo autorevole il peso della volontà pregressa del cittadino, si apre facilmente una strada che può portare a stabilire almeno due situazioni non previste, ma prevedibili.

La prima è che, in nome di questo riconoscimento della volontà del cittadino, presente in questa legge, si tenti, ricorrendo ad ulteriore sede giuridica, di togliere i vincoli attualmente presenti e si aprano le porte sia all’eutanasia, sia al suicidio assistito. Non si può dimenticare, infatti, che questa legge non esclude affatto la legittimità del rifiuto di ciò che si può annoverare sotto la voce delle cure, per cui un cittadino, in previsione di trovarsi in uno stato vegetativo, potrebbe rifiutare preventivamente di ricevere degli antibiotici, o di poter usufruire di ossigeno e eventuale respiratore. La legge prevede soltanto che non vengano sospese alimentazione e idratazione. Chi si oppone ai principi ispiratori di questa legge troverebbe in questa impostazione, mi sembra, una breccia per poter dire che se il cittadino ha il diritto di rifiutare delle terapie, a maggior ragione può rifiutare ciò che non rientra nelle terapie.

In seconda battuta, si potrebbe sostenere che, una volta poste delle limitazioni alle scelte del cittadino, non avrebbe senso lasciare l’ultima parola al medico: se, infatti, ciò che si può chiedere è conforme alle legge, non determina alcun reato, risponde al principio per cui ogni trattamento medico richiede il consenso informato, allora non si capisce perché il medico possa poi decidere di seguire o no delle indicazioni scritte e certificate. Detto in altro modo, si potrebbe chiedere di trasformare le “dichiarazioni” in “direttive anticipate”, vincolanti l’operato del medico. Del resto non si capirebbe perché istituire un registro nazionale di pure dichiarazioni che in ogni caso verrebbero valutate dal medico nelle varie situazioni.

Queste brecce presenti nella legge sono dovute al fatto che, sull’onda del caso Eluana, se ne è di fatto seguita la logica. A mio avviso, soltanto indebolendo il valore giuridico delle dichiarazioni anticipate e rafforzando i criteri che permettano di riconoscere e vietare i casi di suicidio assistito e di eutanasia si potrebbe evitare ogni futuro abuso interpretativo delle dichiarazioni stesse, che pure moralmente hanno un loro specifico valore. Se si riconoscono giuridicamente le dichiarazioni anticipate si ottiene lo stesso risultato? Personalmente penso di no.

Chi, come lo scrivente, condivide i principi ispiratori di questa legge, ritiene che il nodo teorico che rende difficilmente praticabile l’auspicata alleanza terapeutica stia proprio nella questione del peso giuridico da attribuire a una volontà non attuale e al venir meno di un quadro generale di fiducia nella medicina e nell’assistenza, minata da un’enfasi irrealistica posta sul principio dell’autonomia e della libertà, che rischia di trovare indiretta conferma in questa legge.

Il dibattito su come scrivere una legge che favorisca l’assistenza e impedisca l’eutanasia è un campo in cui sono legittime diverse interpretazioni e certamente non lo si può trasformare in una prova generale di “consenso”, più o meno informato. Soprattutto è necessario non confondere mai le questioni di fine vita con quelle che riguardano le persone, giovani e meno giovani, che si trovano nelle condizioni di stato vegetativo o di minima coscienza: per loro la vita è un fatto e un fine, e non una fine.

Ciò che sicuramente oggi ci è richiesto è quello di valorizzare le buone pratiche mediche e assistenziali che permettono di guardare con fiducia al gesto di affidarsi ad altri quando non saremo più in grado di essere noi il punto di riferimento per noi stessi e per coloro che ci amano. Perché, legge sì legge no, chi non vorrà fissare su un registro pubblico i suoi desideri merita di trovare lo sguardo attento e competente di un medico capace di comprendere il significato della proporzionalità dei trattamenti e della generosa perseveranza terapeutica.

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Post tratto da: Notizie PRO-LIFE (veritaevita.blogspot.com) del 29 marzo 2011

Chi decide della vita e della morte?

Giacomo Rocchi

Da “Il diritto di non soffrire”, di Umberto Veronesi«Ma i cittadini italiani vogliono veramente affidare ai medici la decisione su come desiderano morire? Tramite la Fondazione Veronesi, all’inizio del 2007 volli affidare la risposta a un sondaggio (…) mi sembra fondamentale rispondere alla domanda più importante, che il legislatore non può far finta di ignorare: a chi spetta la decisione? Agli intervistati è stato sottoposto un quesito molto dettagliato: “Se una persona è affetta da una malattia o lesione cerebrale irreversibile che le impedisce di esprimere la sua volontà e la costringe alla dipendenza da macchine, a chi dovrebbe aspettare la decisione di non somministrare o eventualmente sospendere i trattamenti che la tengono artificialmente in vita?”.

Ecco le risposte: solo il 5% degli intervistati ha detto che la decisione spetta al medico che ha in cura il paziente (in ospedale, in reparto di rianimazione, a casa), mentre il 50% ha risposto che la decisione spetta al paziente che ha espresso la proprio volontà in merito quando ancora era in piena lucidità mentale. Questa risposta è stata data dalla metà di coloro che si erano posti il problema e dal 40% di coloro che non se l’erano mai posto. Questa risposta mi sembra assolutamente illuminante e nettamente prevalente rispetto alle altre, che comunque riporto: il 20% ha risposto che la decisione spetta a un familiare (coniuge/genitore/figli o altri parenti), il 20% che la decisione non spetta a nessuno perché “la vita è un dono e bisogna fare di tutto per tutelarla”, un altro 5% affida la decisione “a una commissione etica di esperti”, e un residuo 1% “a un giudice/magistrato”».

Dalla prolusione del cardinal Bagnasco:

«una legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita è necessaria e urgente. Si tratta infatti di porre limiti e vincoli precisi a quella “giurisprudenza creativa” che sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno. Non si tratta di mettere in campo provvedimenti intrusivi che oggi ancora non ci sono, ma di regolare piuttosto intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua. Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso di abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela? Per rispettare la quale è necessario adottare regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani – nel contesto di una società materialista e individualista – risultare scomoda sotto il profilo delle risorse richieste»

Umberto Veronesi e il card. Bagnasco sembrano concordare sulla domanda di fondo che sta dietro al progetto di legge sulle DAT: chi deve decidere, quando una persona è “indifesa”, della sua vita e della sua morte?

Veronesi esprime con la consueta franchezza la sua opinione. Il presidente della CEI, da parte sua, mostra di credere che il contenuto del progetto di legge sia limitativo: «regolare intrusioni già sperimentate… da certa giurisprudenza creativa».

Cosa viene limitato (anzi: “regolato”)? “La possibilità di interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua”.

E le altre decisioni?

Sulla possibilità di interrompere la respirazione artificiale (non è un sostegno vitale?), sulla possibilità di non erogare terapie di tutti i tipi …?

Leggiamo bene cosa dice il card. Bagnasco. Egli non afferma: «le persone devono essere curate sempre, a meno che non si tratti di soggetti morenti per i quali ci si deve astenere dall’accanimento terapeutico». Piuttosto afferma: «le scelte che riguardano la vita e la morte non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno… per esse devono essere adottate regole di garanzia».

Quali sono queste regole? Bagnasco non ne fa cenno; e allora leggiamole nel progetto di legge:

– se il paziente è minorenne i genitori possono decidere di non curarlo, fino alla morte

– se il paziente è interdetto il tutore può decidere di non curarlo, fino alla morte

– se un paziente è incapace e in stato di “fine vita” i medici possono decidere di non curarlo ritenendo le terapie “sproporzionate” o “non tecnicamente adeguate”, fino alla morte

– se il paziente è incosciente i medici possono decidere di sospendere anche nutrizione e idratazione se le ritengono “non più efficaci”;

-le dichiarazioni anticipate possono impedire ai medici terapie salvavita.

Se questa è la garanzia …