Protezione o punizione: regole per i dhimmi

dhimmiOasis Rivista semestrale della Fondazione Oasis n.12 dicembre 2010

Per analizzare il regime di dhimmitudine non basta riferirsi al Corano: soltanto un numero esiguo di versetti sono stati classificati come “legislativi”; il resto è frutto di elaborazioni, analogie e deduzioni. E di interessi molto pratici.

Mohamed Haddad

(Professore di Islamologia e Religioni comparate, titolare della Cattedra UNESCO per lo Studio comparato delle religioni e fondatore e direttore del Master in Studi comparati i delle religioni all’Università Manouba di Tunisi. È autore di numerosi saggi e articoli scientifici  sul pensiero riformista islamico)

In un’ottica moderna, per diritto si intende l’insieme delle regole che codificano un ambito di relazioni sociali. In questa accezione il diritto si differenzia dalla morale o dalla religione. Nell’Islam classico, così come nella maggior parte delle civiltà antiche e medievali, il diritto designava un’area più vasta. Per lo più le origini del diritto sono state religiose, politiche o economiche.

Nel caso dell’Islam l’origine religiosa era quella più esplicita ma l’ambito religioso, quello politico e quello economico erano strettamente interconnessi. Si riteneva che il diritto fosse al tempo stesso “naturale” (in quanto espressione della natura umana che è opera di Dio) e universale (secondo il principio del monoteismo: un unico e solo Dio per tutta l’umanità) e incarnasse la volontà di Dio così come si trova espressa nel Corano.

Tuttavia tale volontà si manifesta in modo sommario: soltanto un numero esiguo di versetti coranici sono stati classificati come legislativi da parte dei teologi musulmani. La maggior parte di ciò che oggi viene chiamato Diritto musulmano è frutto, secondo quegli stessi teologi, dell’elaborazione umana, fondata su analogie e deduzioni. Si tratta quindi di un Diritto giudicato divino quanto alla fonte che lo legittima, ma umano, per non dire positivo, quanto ai meccanismi che lo producono e lo codificano.

Con il termine “diritto” si può tradurre il termine arabo haqq (come per esempio nell’espressione huqùq al-insàn che significa: diritti dell’uomo). Ma può tradurre anche il termine shari’a (per esempio, tatbìq al-shari’a significa: applicare il diritto musulmano). Inoltre esso potrebbe tradurre il termine qànùn (mukhtassfì-l-qànùn: specialista in diritto). Di queste espressioni è ben possibile rintracciare le premesse nella cultura dell’Islam classico, e tuttavia esse appartengono soprattutto alla modernità.

La parola Diritto esprime in realtà ciò che gli antichi chiamavano fiqh e questo termine stava a indicare l’interpretazione, l’ermeneutica dei testi sacri in relazione a determinate situazioni. È così che i musulmani dell’età classica avevano immaginato il Diritto. Il problema della codificazione si è posto solo nell’età moderna, soprattutto nel XIX secolo, in risposta a una nuova concezione dei rapporti tra lo Stato e la società.

La storia di ciò che si chiama Diritto musulmano inizia con un periodo dai tratti oscuri, tuttora difficili da delineare con i metodi della storia e delle scienze umane. Durante il secolo e mezzo seguente all’avvento dell’Islam i suoi principi si sono mescolati con gli usi e i costumi delle società islamizzate. Ci sono stati tanti Diritti musulmani quante erano le società che abbracciavano la nuova religione. Diversi Diritti regionali si sono instaurati, prima di iniziare a fondersi tra loro attorno al II secolo dell’era musulmana (IX e X secolo dell’era cristiana), quando si potè parlare di scuole giuridiche.

Si tratta a questo punto di capire quale trattamento riservasse quel Diritto ai nonmusulmani che vivevano nelle società musulmane. Per rispondere a questa domanda non basta, come abbiamo già segnalato, riferirsi al testo coranico.

Due principi sembrano essersi stabiliti nella fase dell’elaborazione definitiva dell’Islam: il primo consiste nel permesso accordato agli ebrei e ai cristiani, in quanto facenti parte dei “popoli del Libro”, di conservare i loro riti e le loro credenze e di vivere sotto la protezione dei musulmani, ma anche sotto la loro autorità; il secondo consiste nella proibizione, per gli idolatri arabi, di mantenere i loro usi tradizionali: dovevano convertirsi all’Islam.

Se ricollocati nel loro contesto storico, questi due principi non hanno nulla di sconvolgente, anche se oggi sembra il contrario, poiché il principio di uguaglianza e quello di cittadinanza erano inesistenti e perfino impensabili ovunque, all’epoca. Inoltre, l’applicazione di entrambi i principi ha subito notevoli variazioni a seconda dei tempi, delle circostanze e a volte anche dell’umore dei governatori.

Le alte cariche dello Stato sono state accessibili, di quando in quando, ai non-musulmani tanto da suscitare l’irritazione dei musulmani, secondo quanto ci riferiscono poesie e testi in prosa. D’altro canto, le crisi economiche e le guerre talvolta scatenavano cacce alle streghe delle quali erano vittime i gruppi sociali più deboli, come le minoranze religiose, ma non solo.

Ecco come Màwardì (972-1058), autore di quel testo sulle norme di governo (1) che rappresenta il più celebre trattato di Diritto fondamentale e amministrativo, espone la situazione. Ovviamente occorre tenere presente che la pratica è stata sempre più elastica, sia in direzione restrittiva che in direzione di una maggiore permissività. Il valore del trattato sta nel suo essere l’espressione dell’ideale che il Diritto musulmano intendeva raggiungere.

L’invenzione dell’imposta fondiaria

La questione finanziaria è stata la chiave di volta della riflessione sullo status dei non musulmani nelle società musulmane. I non musulmani sono soggetti a una tassazione speciale in cambio della protezione. Per indicare questa tassa vengono utilizzati due termini :jizya e kharàj. Ricordiamo che anche i musulmani devono pagare una tassa chiamata zakàt. Màwardì riconosce che, mentre la jizya è citata nel Corano, il kharàj è un’invenzione che risale a dopo la morte del Profeta dell’Islam, e più precisamente al regno del secondo Califfo Urnar Ibn al-Khattàb (634-644).

La jizya è un’imposta sulle persone fisiche, mentre il kharàj è un’imposta fondiaria, Tutti gli uomini non musulmani che vivono sotto la protezione e l’autorità dell’Islam devono versare la jizya una volta all’anno. In cambio godono della libertà di praticare il loro culto. Chi si sottomette a questa tassa avrà diritto alla protezione, sarà un dhimmì (un protetto).

I dhimmì del primo periodo dell’Islam erano ebrei e cristiani. Secondo Màwardì un idolatra, un ateo (dahrì) o un apostata (murtadd) non possono accedere a questo status. Egli riferisce che le opinioni dei giureconsulti divergevano a proposito degli “associazionisti” (mushrìk). Abù Hanifa pensava che i mazdei persiani potessero godere dello status di dhimmì, ma non così gli “associazionisti” arabi.

Solo gli uomini liberi sono soggetti a questa imposta. Gli schiavi, le donne e i bambini ne sono esentati, mentre le donne musulmane pagano la zakàt. Spetta al governatore di fissare annualmente l’ammontare della jizya. Si tratta di un particolare importante: l’ammontare della zakàt, infatti, che varia a seconda della natura dei beni, è fissata dai giureconsulti.

Affidare ai governatori l’incarico di fissare l’ammontare della tassazione sui non musulmani equivale a indicizzarla in rapporto alla situazione economica e finanziaria dello Stato e in base alle scelte politiche relative alle minoranze. La legittimità e la connotazione della jizya sono di natura religiosa, ma la gestione è secolare.

Peraltro chi è sottoposto a questa tassazione ha il dovere di non manifestare pubblicamente le sue opinioni sulla religione musulmana, di non intrattenere una relazione, legittima o illegittima, con una donna musulmana, di non avere rapporti con gli stranieri in guerra con l’Islam, di non tentare di convertire un musulmano alla sua religione, ecc. Altre disposizioni vengono considerate auspicabili (mustahabb) ma non costituiscono obblighi: indossare un abito che li contraddistingua, non costruire abitazioni più alte di quelle dei musulmani, mostrarsi discreti nella pratica del proprio culto, ecc.

È chiaro che la jizya, se implica effettivamente il senso della protezione – fatto non trascurabile in un contesto di violenza endemica – esprime allo stesso tempo il segno della supremazia dell’Islam sulle religioni rivali. È questo il senso che va dato alle disposizioni restrittive che segnalano una condizione di sottomissione. Se un dhimmì si convertisse all’Islam si vedrebbe immediatamente esentato della jizya e delle altre condizioni di protezione.

Il kharàj è un’imposta fondiaria. Si applica principalmente ai non musulmani ma – questo è il paradosso! – non soltanto ad essi. Infatti, quando l’Islam si è esteso a vastissimi territori, ai musulmani si sono presentate due possibilità. La prima era quella di cacciare gli indigeni, una scelta praticamente impossibile in quanto foriera di carestie e di esodi di terribili proporzioni.

La seconda consisteva nel permettere loro di mantenere le proprietà, assoggettandoli a un’imposta fondiaria. Il kharàj originariamente era un’imposta che riguardava proprietari che non erano musulmani: se alcuni di questi si convertivano all’Islam, venivano esentati dalla jizya ma non dal kharàj, dato che si trattava in questo caso di un’imposta sulla proprietà e non sulla persona fisica. Inoltre, le proprietà strappate con la violenza, diventando così proprietà di musulmani, restavano sottoposte al regime del kharàj.

La teoria della “dhimmitudine”, esposta da Màwardì, ha subito poche modifiche nel corso dei secoli. In compenso essa non ha mai smesso di ampliarsi per contenere ogni sorta di culto non musulmano nel mondo islamizzato. All’inizio questa nozione era riservata agli ebrei e ai cristiani. Ahi al-dhimma si è sostituito al termine coranico ahi al-kitàb (popoli del Libro). In un secondo tempo essa ha inglobato i mazdei, adepti di Zoroastro, quando i musulmani si sono impadroniti dell’antico Impero persiano.

L’ampliamento dei due concetti di Kitàb (Rivelazione, Sacre scritture) e di dhimma (protezione sociale dei non musulmani) continuerà a verificarsi parallelamente al procedere dell’espansione musulmana, confermando per ciò stesso il carattere pragmatico del Diritto musulmano. La scelta dell’integrazione e dell’accettazione della pluralità religiosa erano le uniche soluzioni ragionevoli, dato che il numero dei non musulmani era notevole e dunque era decisivo il loro contributo al gettito fiscale.

Le conversioni forzate e le deportazioni avrebbero provocato disordini ingestibili. I governatori hanno ben compreso la situazione e i giureconsulti hanno fornito la giustificazione religiosa a una decisione di buon senso, spingendosi fino a inventarsi alcuni detti attribuendoli al Profeta dell’Islam. Pur insistendo sulla superiorità religiosa dell’Islam e sulla necessità di sottoporre i non musulmani a restrizioni che sottolineano la loro condizione di dipendenza, questi giureconsulti hanno ammesso, di fatto e di diritto, la pluralità religiosa nelle società musulmane.

L’ampliamento è continuato con l’espansione dell’Islam in India, iniziata verso la fine del XII secolo. Pur con qualche esitazione, i giureconsulti musulmani hanno finito con l’accordare alla religione induista il titolo di religione rivelata e agli indù lo status di protetti. L’Impero dei Mogol ha cercato di unificarsi e di amministrarsi sulla base del Diritto musulmano ma tenendo conto del fatto che i musulmani, politicamente dominanti, erano tuttavia numericamente inferiori.

I giureconsulti hanno consentito di assimilare gli indù ai popoli del Libro pur considerando pagana la loro religione. Contro ogni evidenza, i giureconsulti musulmani hanno scelto di accostare gli indù agli ebrei e ai cristiani anziché farlo agli arabi della penisola arabica del VII secolo. Hanno dovuto adeguarsi a una realtà nuova e ha vinto il senso pratico. Così in India, al tempo della sua islamizzazione, è stato instaurato il regime della jizya: una sorta di modus vivendi ha permesso, bene o male, la coabitazione tra indù e musulmani.

Religione e stato, entità complementari

Possiamo a questo punto affrontare la domanda di partenza: esiste il concetto di minoranza nel Diritto musulmano classico? Abbiamo visto che la questione della pluralità religiosa si è imposta fin dall’inizio della civiltà musulmana e che la categoria di non musulmano ammesso a vivere e a praticare la sua religione nelle società musulmane si è ampliata costantemente.

I giureconsulti si sono attribuiti il privilegio di dettare le norme della zakàt che è stata considerata come un’imposta musulmana “di purificazione” (è questo il significato del termine zakàt). Hanno lasciato ai sovrani la gestione delle imposte riservate ai non musulmani e con ciò trasferendo il problema della presenza dei non musulmani nelle società musulmane dalla sfera religiosa a quella secolare. Senza dimenticare, tuttavia, che religione e Stato sono considerati, nel Diritto musulmano classico, entità complementari.

I giureconsulti consideravano le tasse stabilite per i non musulmani come una sorta di punizione per coloro che non volevano convertirsi all’Islam e un marchio di inferiorità assegnato ai loro culti rispetto al culto islamico. I sovrani tendevano invece a considerarle una manna per le finanze pubbliche e per le loro stesse fortune, il che spiega perché il problema sia stato posto fondamentalmente all’interno di una logica finanziaria. Il Diritto musulmano classico è stato molto pragmatico nel trattare i non musulmani. Pur affermando la superiorità dell’Islam, raramente ha messo in discussione il principio della presenza dei non musulmani nelle società musulmane.

Le popolazioni che vivevano sotto l’autorità dell’Islam si sono peraltro largamente islamizzate nel corso dei secoli. L’imposta più importante divenne quindi l’imposta fondiaria, il kharàj. E questa si applicava tanto ai non musulmani quanto ai musulmani. Così la jizya ha perso peso dal punto di vista finanziario per restare fondamentalmente quale segno di discrimine tra due categorie di persone che coabitavano nella società. È grazie a questa scappatoia che il mondo musulmano è riuscito a conservare le sue “minoranze” religiose, non considerandole cioè come minoranze.

In effetti il concetto di minoranza, nel suo significato moderno, non poteva esistere tra le categorie del Diritto classico, in quanto esso non poneva il problema in termini quantitativi. Coloro che si presentavano come minoranza potevano essere non musulmani, ma potevano anche essere musulmani, come nel caso dell’India o dei paesi di conquista più recente. In entrambi i casi, né il principio della superiorità dell’Islam né quello della pluralità religiosa venivano messi in discussione.

In sostanza, possiamo riassumere in tre criteri determinanti la linea di gestione dei rapporti tra musulmani e non musulmani: segnalazione della superiorità dell’Islam, delega al sovrano della gestione delle relazioni con i non musulmani, legittimazione religiosa di tutte le soluzioni in grado di gestire al meglio e nel modo più pragmatico la città e in particolare la relativa finanza pubblica.

È chiaro che sarebbe anacronistico – e pericoloso – parlare oggi di “minoranze religiose” nel Diritto musulmano classico. Oltre che proiettare un concetto moderno su un contesto diverso, il rischio consisterebbe soprattutto nel sottrarre a quel Diritto il suo carattere pragmatico, irrigidendolo in un complesso di regole immutabili.

Occorre tenere costantemente presente il fatto che le disposizioni del Diritto musulmano classico sono state elaborate al di fuori del principio di cittadinanza, che è un principio moderno legato all’emergere degli Stati-nazione. Ciò che maggiormente va preso in considerazione non consiste nel dettaglio delle disposizioni, fatta salva l’accuratezza della ricostruzione storica che pure deve tener conto delle complicazioni più sopra segnalate.

L’elemento più importante che emerge è che il principio della pluralità religiosa nella vita sociale è stato largamente ammesso nel corso dei secoli, tranne che in alcuni periodi di fanatismo imperante.

Note

1) AI-Ahkàm al-Sultdnlyya di cui esistono molte edizioni arabe. Traduzione in francese: Émile Fagnan, Les statuts governamentaux, Jourdan, Algeri 1915.