Vietnam, Cambogia, Laos, sono varie le strade che portano al «Gulag»

Litterae Communionis

Anno V – Ottobre 1978

Intervista a Piero Gheddo

Numerose testimonianze giungono in occidente dalle migliaia di profughi, sfuggiti ai campi di rieducazione o all’eliminazione fisica.  La stampa, anche di sinistra, apre gli occhi e prende le distanze. Ma non basta

a cura di Giuseppe Folloni

Nel Vietnam «liberato» gli uomini non trovano libertà. In Cambogia è ancor peggio. Basterebbe a testimoniarlo la realtà dei profughi, ormai numerosissimi. Ne abbiamo scelta, fra le molte, una recente e assai significativa, raccolta da Piero Gheddo per Famiglia Cristiana (11/6/78).

Allo stesso Gheddo abbiamo chiesto un ragguaglio sulla situazione attuale del Sud est asiatico. Essa ci pare debba far riconoscere, ormai con schiacciante evidenza, che tutte le esperienze di egemonia politica, che si fondino sull’assoluta supremazia del potere e dell’ideologia, hanno una caratteristica comune che finisce per imporsi alle stesse diversità di storia: l’oppressione del popolo.

D. Qual è stato il primo impatto con il regime comunista?

R. «Come molti altri miei compatrioti ero un oppositore del regime di Thieu e dell’intervento americano in Vietnam. Nel 1965 avevo firmato un documento di protesta contro gli americani e Thieu, e per questo ero stato destituito dal mio posto di docente dell’Università statale di Saigon. Poi ho lavorato da privato come avvocato e rettore dell’Università privata buddista. Non ero favorevole ai comunisti, ma nemmeno pregiudizialmente contrario. Alla fine della guerra, con i comunisti al potere, sono stato invitato a collaborare col regime. Mi hanno incaricato della sezione di storia antica del nuovo “Istituto di Scienze Sociali del Vietnam del Sud” fondato dal Governo rivoluzionario».

D. Non è stato in campo di rieducazione?

R. «No, ero conosciuto come un oppositore di Thieu. Ho dovuto però fare alcuni periodi di rieducazione restando a casa mia. Partecipavo a corsi sul marxismo-leninismo, che oggi è l’ideologia ufficiale di Stato, obbligatoria per tutti. I primi dubbi sulla bontà del nuovo regime mi sono venuti dal lavoro che volevano da me: la mia ricerca storica doveva essere in funzione della propaganda.

Ad esempio, nel 1976 la cam­pagna nazionale era sull’unificazione del Paese; nella mia sezione di studi, come in tutte le altre sezioni, dovevamo trovare argomenti storici, sociologici, economici, per la campagna di propaganda. Voci contrarie non erano ammesse.  Non solo, ma partecipando a riunioni segrete del partito, venivo a conoscere molte cose che il popolo non conosceva, ad esempio che tutto veniva giudicato in base all’utilità del partito e non della gente; oppure, anche, che c’era (e credo che ancora ci sia) una resistenza attiva armata nella stessa Saigon, che faceva numerose vittime fra i quadri del partito.

Ricordo che nel primo anno dalla fine della guerra (cioè fino all’aprile 1976), nella sola Saigon erano stati assassinati, in genere di notte, circa trecento dirigenti comunisti: uno al giorno!».

D. Aveva una vita tranquilla?

R. «Avevo molti privilegi, essendo utile al partito: godevo di molta più libertà di quanta ne godano i vietnamiti comuni; è per questo che mia moglie ha potuto organizzare la nostra fuga. Il mio stipendio era altissimo in confronto a quello della gente comune, potevo comperare cibi e medicine al mercato nero: in Vietnam c’è oggi una corruzione superiore a quella sotto Thieu, si compera tutto, si paga tutto sottobanco.

Il riso che danno con la tessera è assolutamente insufficiente a mantenere una persona in vita: in media, all’inizio erano sedici chili al mese, poi sono scesi a dieci, poi a otto, poi a sei, ultimamente erano tre o quattro per adulto. Il mercato nero è fiorentissimo. Noi abbiamo pagato la stessa polizia locale per poter fuggire. Se non si paga si viene presi, e allora c’è il campo di rieducazione duro».

D. Perché è fuggito se godeva di molti privilegi?

R. «Perché mi era diventato intollerabile vedere la prepotenza del partito e la miseria, l’impotenza del popolo, che crescono ogni giorno. Poi, quasi ogni notte, spariva una persona attorno a me, che conoscevo, senza lasciare traccia e nessuno può protestare o chiedere informazioni. Sono persone sospette di nutrire sentimenti contrari al regime. Ogni giorno, alla sera, c’è la sessione pubblica d’istruzione politica.

Bisogna mostrarsi entusiasti, partecipare attivamente. Se uno dice una parola di dubbio o contro, è spacciato. Ma anche se uno tace diventa sospetto. E’ il terrore. Il comunismo ha lo scopo di creare questo terrore, anche nelle scuole, per dominare la gente, perché tutti obbediscano prontamente, ciecamente, senza nessuna discussione o dubbio».

Gheddo: «La logica dell’egemonia»

Il conflitto in atto tra Vietnam e Cambogia è per i più sconcertante. Credo che occorra capire come in questo avvenimento giochino la storia passata di questi popoli, la rivoluzione cambogiana, la guerra del Vietnam contro gli Stati Uniti e il gioco esterno delle alleanze. È possibile cogliere, nel combinarsi di questi elementi, le ragioni di quanto sta avvenendo?

Se guardiamo la cosa dal punto di vista dei rapporti internazionali, nel Sud-est asiatico si è venuto a creare negli ultimi anni un vuoto di potenza: mentre prima c’era il «bastione» americano, l’occidente, contro il quale erano schierati i paesi comunisti, oggi l’occidente si è ritirato (la stessa SEATO è in dissolvimento).

Ora, di fronte a questo vuoto le potenze della zona si sono precipitate per occupare lo spazio rimasto libero: l’Unione Sovietica e la Cina. Il contrasto già esistente tra queste potenze si è acuito: e questa è una radice del conflitto nel Sud-est asiatico. Nazionalisti e comunisti vietnamiti, fin dalle lotte contro il colonialismo francese, avevano in mente una federazione indocinese (Vietnam, Laos e Cambogia: come è provato da molti documenti), in cui avrebbero predominato i vietnamiti.

Per il Laos è stato abbastanza facile accettare questa prospettiva (era da tempo occupato dai vietnamiti buona parte del suo territorio); per la Cambogia no. Causa antiche rivalità, che risalgono al secolo scorso, e per ragioni più recenti, i cambogiani hanno sempre rifiutato — pur accettando le armi — che i vietnamiti venissero a combattere per loro in Cambogia.

Per cautelarsi dall’ingerenza vietnamita i cambogiani si sono poi appoggiati alla Cina antisovietica, visto che la Russia sosteneva il Vietnam. Il partito comunista era la forza armata più ingente: quando ha avuto la possibilità di prendere altri spazi, lo ha fatto. Le forze popolari non comuniste in tutta l’Indocina erano più numerose di quelle comuniste, ma non violente, disarmate, divise fra loro.

Esiste una resistenza interna?

Armata: nel Laos; assai sporadica in Vietnam e Cambogia. Ha dichiarato il capo della resistenza cambogiana: «Siamo costretti a combattere con le sole poche armi che riusciamo a sottrarre ai khmer rossi, perché nessuno ci ha aiutato in nessun modo.

Credo che queste forme di resistenza siano destinate a scomparire: come già in Vietnam è diminuita moltissimo, e anche in Cambogia. Neppure in Laos si può pensare a una qualche possibilità di successo. Così stanti le cose, per la sua stessa debolezza, questa resistenza finisce per avere una funzione negativa: scaramucce o attentati mantengono uno stato di tensione (nella sola Saigon vengono uccisi dai cinque ai dieci funzionari comunisti ogni mese: ma sono attentati che servono solo a giustificare la «mano dura» del p.c).

Dal punto di vista dell’equilibrio della «regione» Sud-est asiatico, a suo parere, siamo oggi in una fase di consolidamento di un modello di costruzione del socialismo «interno» ai singoli paesi, per cui al di là del conflitto, ogni singolo paese penserà a se stesso?

Vietnam e Laos hanno un modello unico. Anche in Laos infatti si segue un modello in fondo staliniano di vecchia maniera nell’organizzazione del paese, con alcune particolarità proprie del socialismo vietnamita; in Cambogia abbiamo proprio un socialismo cinese, più legato alla terra, con una forma più decentrata di gestione del potere, e pure con maggiore rigidezza rispetto alle opposizioni.

In Vietnam, infatti, il partito comunista ha maggior «esperienza» (è stato fondato nel 1928); ha chiuso la fase dell’eliminazione fisica degli oppositori, come avvenne al tempo della riforma agraria del 1958/59 e adotta ora il sistema dei campi di rieducazione. (Riviste francesi di sinistra, quindi poco sospettabili di esagerare le cifre parlano di ottocentomila detenuti).

Per controllare questi detenuti è evidente che si rende necessario un apparato imponente di uomini e mezzi. In Cambogia il p.c. ha poco più di quindici anni, non possiede simile forza organizzativa e procede alla eliminazione diretta di chiunque manifesti opposizione, o semplice scontento.

Così fu anche il sistema cinese fino al ’52 circa. (Oggi il sistema cinese è meno evoluto, ma anche meno oppressivo di quello sovietico. Si hanno addirittura testimonianze di una certa libertà religiosa, nei villaggi i cristiani possono riunirsi nelle case, come le persone di altra professione religiosa. Cosa assolutamente inesistente nell’Indocina).

Qualcuno ha parlato di congiura del silenzio a proposito delle notizie sugli avvenimenti del Vietnam e della Cambogia…

Finita la guerra, nell’aprile del 1975, per almeno sette o otto mesi non se ne fece più parola. Ha riiniziato la stampa cattolica a riaccendere una certa attenzione. Nel gennaio 1978 le cose sono cambiate quando c’è stato lo scoppio aperto del conflitto con la Cambogia. Da allora la stampa, anche di sinistra, ha «aperto gli occhi» ed è incominciata una certa retromarcia, nel senso che si è iniziato a denunciare che «non era tutto oro quello che luccicava».

Persino i bollettini della Associazione Italia-Vietnam, certo, non condannano il Vietnam, ma mostrano segni di una cautela nel giudicare, cautela da considerarsi impensabile anche solo un anno fa. L’Unità oggi attacca esplicitamente la Cambogia.

Gli organismi internazionali per la difesa dei diritti dell’uomo hanno iniziato ad interessarsi di questi problemi?  

Amnesty International, come è nel suo proprio orientamento e programma, non intende effettuare azioni politiche generali, ma intervenire su singoli casi di violazione dei diritti dell’uomo e, quindi, liberare dei perseguitati. Mi risulta che ha tentato di mettersi più volte in contatto con i governi laotiano, cambogiano e vietnamita, senza peraltro aver mai ricevuto risposta. Quindi, attualmente, non è in condizione di intervenire concretamente.

E realtà come il Tribunale Russel?

Non ho contatti diretti, non saprei dunque esprimere una valutazione. Se ci fosse la possibilità di incontri a livello internazionale potrei portare la testimonianza diretta di molti profughi. Due sono venuti recentemente da Parigi per chiedermi interventi di questo tipo. Per la Chiesa, o meglio per i missionari, che cosa è possibile fare oggi, come ci si sta tentando di muovere?

I missionari esteri sono stati ormai da tempo espulsi. Rimane la possibile funzione di sensibilizzare l’opinione pubblica in una azione di pressione sui governi, per arrivare ad un rispetto dei diritti dell’uomo. Il Vietnam è del resto molto sensibile all’opinione pubblica internazionale, perché ha bisogno anche dell’occidente per il suo decollo.