Le religioni in Italia (2018)

CESNUR Centro studi nuove religioni (2018)

sotto la direzione di

Massimo IntrovignePierLuigi Zoccatelli

IL PLURALISMO RELIGIOSO IN UN CONTESTO POSTMODERNO

Tentare l’avventura di una rassegna di carattere enciclopedico delle religioni – e delle vie spirituali che, benché non religiose, rientrano tuttavia in una fenomenologia degli accostamenti contemporanei al sacro – presenti in Italia, nell’attuale contesto postmoderno, costituisce insieme una sfida affascinante e un rischio.

Il contesto, infatti, è di continua mutazione del quadro religioso, il che rende impossibile – nonostante ogni cura – una trattazione esaustiva. Alcuni dati cambiano con frequenza, letteralmente, quotidiana. Mentre siamo fin da ora grati a chi volesse segnalarci omissioni e integrazioni, siamo intenzionati a dare conto delle modifiche tramite il sito Internet del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, che ha ideato e promosso questa iniziativa (www.cesnur.org).

Questo lavoro non è un mero aggiornamento delle nostre precedenti edizioni dell’Enciclopedia delle religioni in Italia – pubblicate rispettivamente nel 2001, nel 2006 e nel 2013 –, su cui pure in buona parte si basa: vuole essere piuttosto uno strumento nuovo, che sia include molto nuovo materiale, sia lo dispone in modo parzialmente diverso. Invitiamo a indirizzare al CESNUR ogni segnalazione o richiesta (cesnur_to@virgilio.it).

L’opera, per così dire, parla di per sé stessa. La scelta di suddividere il materiale non per ordine alfabetico, ma per famiglie spirituali, con ampie introduzioni, dovrebbe rendere il lavoro nelle intenzioni degli autori leggibile – dall’inizio alla fine – e non solo utile come testo di riferimento. Non vogliamo tuttavia rinunciare ad alcune considerazioni di fondo sul momento storico e sul contesto in cui avviene la sua pubblicazione, né sul significato di alcuni dei dati emersi.

San Giovanni Paolo II (1920-2005), nell’enciclica Fides et ratio del 1998 – un testo tante volte richiamato dal suo successore Benedetto XVI –, al n. 91 rilevava come: “La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l’epoca della ‘post-modernità’. Questo termine, utilizzato non di rado in contesti fra loro molto distanti, designa l’emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto a estensione ed efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli”. In particolare, nel quadro di tali “cambiamenti”, si sarebbero manifestate “reazioni che hanno portato a una radicale rimessa in questione” della “pretesa razionalista” tipica della modernità.

L’enciclica Fides et ratio – dopo avere sottolineato la necessità che l’uomo utilizzi entrambe le sue “ali”, la fede e la ragione, per rispondere alle domande cruciali sulla sua origine e sul suo destino – descrive una lunga stagione, iniziata con la crisi del Medioevo, in cui la ragione ha dapprima cercato d’inglobare la fede, quindi ha preteso di farne a meno, infine l’ha combattuta in modo esplicito; dalla ragione senza la fede alla ragione contro la fede.

Benedetto XVI adotta lo stesso schema nell’enciclica Spe salvi del 2007. Ma nell’epoca postmoderna si ripresenta – peraltro non per la prima volta – anche la possibilità di un rovesciamento di questo scenario. L’epoca della crisi della ragione è il tempo in cui si ripresenta una fede – non necessariamente cristiana – talora separata, a diverso titolo e in diverso grado, dalla ragione.

Cattolici e non cattolici potranno trovarsi d’accordo con san Giovanni Paolo II nel constatare che, in effetti, con il passaggio all’epoca cosiddetta postmoderna si sono determinati “cambiamenti significativi e durevoli” anche nel settore della religiosità. Sarebbe sufficiente una rapida scorsa ai titoli dei libri più diffusi, degli articoli più significativi, di numerose relazioni presentate in congressi di sociologia o di storia delle religioni per accorgersi che qualche cosa è veramente cambiato.

Negli anni 1970 – e nella prima parte degli anni 1980 – il tema dominante era quello della crisi della religione. La tesi della secolarizzazione, nella sua versione quantitativa, postulava che, mentre progrediva la mentalità scientifica, nelle società industriali avanzate c’era sempre meno religione; non mancava chi prospettava come futuro evolutivo della religione addirittura l’estinzione. Uno strumento interpretativo importante rimaneva in quegli anni l’opera del teologo battista americano Harvey G. Cox The Secular City (Macmillan, New York 1965; trad. it.: La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968), in cui – come lo stesso Cox ha scritto più recentemente – il teologo di Harvard cercava di elaborare una teologia per l’epoca “postreligiosa” il cui avvento molti ritenevano imminente.

Le cose, oggi, sono certamente cambiate. Testi importanti fanno riferimento al “ritorno del religioso”, alla “rivincita di Dio” o alla “fine” della secolarizzazione. Lo stesso Cox – a trent’anni da La città secolare – scriveva nel 1995 in Fire from Heaven. The Rise of Pentecostal Spirituality and the Reshaping of Religion in the Twenty-First Century (Addison-Wesley, Reading [Massachusetts] 1995) che “oggi è la secolarità (secularity), non la spiritualità, che può essere vicina all’estinzione”, e che è diventato “ovvio che al posto della ‘morte di Dio’ che alcuni teologi avevano dichiarato non molti anni fa, o del declino della religione che i sociologi avevano previsto, è avvenuto qualcosa di veramente diverso”.

A proposito de La città secolare, il teologo americano aggiungeva: “Forse ero troppo giovane e impressionabile quando gli accademici facevano queste previsioni tristi. In ogni caso le avevo assorbite davvero troppo facilmente, e avevo cercato di pensare quali avrebbero potuto essere le loro conseguenze teologiche. Ma ora è diventato chiaro che le predizioni stesse erano sbagliate. Chi le faceva […] ammetteva che la fede sarebbe potuta sopravvivere come un’eredità culturale, forse in ridotti etnici o abitudini di famiglia, ma insisteva che i giorni della religione come forza capace di dare forma alla cultura e alla storia erano finiti. Tutto questo non è accaduto. Al contrario, prima che i futurologi accademici facessero in tempo a ritirare la loro prima pensione, una rinascita religiosa – di un certo tipo – ha cominciato a manifestarsi in tutto il mondo” (ibid., p. XVI).

Celebrando, ulteriormente, i quindici anni dalla pubblicazione di Fire from Heaven, lo stesso Cox scriveva nel 2011 – in risposta a un saggio su quel suo volume del professore di teologia Nimi Wariboko (“Fire from Heaven: Pentecostals in the Secular City”, Pneuma: The Journal of the Society for Pentecostal Studies, vol. 33, n. 3, 2011, pp. 391-408), dove si sosteneva che la secolarizzazione è semmai avvenuta all’interno delle religioni, compreso quel pentecostalismo che era il punto di riferimento del libro di Cox – che la sua visione oggi è piuttosto quella di una “cosmopoli” dove coesistono forme diverse di secolarizzazione, di modernità, di ritorno del religioso che vivono insieme e si alternano in quella che il teologo definisce non una sinfonia ma una seduta di jazz, che “non si basa su uno spartito”, “non ha un conduttore che la guida con la sua bacchetta” e dove ciascuno improvvisa sulla base di come hanno appena improvvisato altri (H. Cox, “Response to Professor Nimi Wariboko”, ibid., pp. 409-416).

Naturalmente, chi ritiene che oggi – nell’epoca postmoderna – sia la secolarizzazione a essere “vicina all’estinzione” fa riferimento a una nozione meramente quantitativa di secolarizzazione. Se invece si pensa alla secolarizzazione – secondo la definizione di Bryan Wilson (1926-2004) – come a un processo prevalentemente qualitativo, in cui la religione – pur continuando a interessare molte persone – non determina più la gran parte delle scelte culturali, politiche e sociali, si può concludere che la secolarizzazione è ancora saldamente fra noi.

In questo senso, il giurista americano Stephen L. Carter (nel suo importante The Culture of Disbelief. How American Law and Politics Trivialize Religious Devotion, Basic Books, New York 1993) parla di “trivializzazione” di una religione che pure nel suo Paese continua a essere importante, a livello individuale, per la maggioranza delle persone. La secolarizzazione quantitativa, definita semplicemente come l’interesse sempre minore delle persone per la sfera del religioso e del sacro, appare effettivamente in declino nell’epoca postmoderna.

In alcuni Paesi del mondo i sociologi dubitano perfino che un processo quantitativo di secolarizzazione si sia mai verificato. In altri, vi è stata un’inversione di tendenza a partire dalla seconda metà degli anni 1980.

Uno dei più noti specialisti di indagini sociologiche quantitative in tema di religione, Laurence R. Iannaccone, scriveva nel settembre 1998 che i dati mostrano ormai con evidenza come la tesi secondo cui “la religione deve inevitabilmente declinare quando la scienza e la tecnologia avanzano” è stata “dimostrata falsa”, e che “a mano a mano che i sondaggi, le statistiche e i dati storici si sono accumulati, la continua vitalità della religione è diventata evidente” (“Introduction to the Economics of Religion”, Journal of Economic Literature, vol. XXXVI [settembre 1998], pp. 1465-1496 [p. 1468]).

Mentre il numero delle persone che si dichiarano atee e agnostiche non aumenta in modo significativo, in quasi tutti i Paesi del mondo – con l’eccezione di alcuni Paesi europei a lungo sottoposti a propaganda antireligiosa da parte di regimi comunisti – il numero di coloro che dichiarano di credere in una qualche forma di potere superiore alla persona umana, o a una vita dopo la morte, o affermano di consacrare qualche tempo durante la settimana a forme di preghiera o di meditazione, si attesta intorno all’ottanta per cento della popolazione, con punte in Paesi non secondari – Stati Uniti compresi – oltre il novanta per cento.

Il fenomeno del “ritorno del religioso” è dunque così evidente da non potere essere ignorato. Si tratta però di determinare, con maggiore precisione, quale tipo di religioso “ritorni” nell’epoca postmoderna. Nel suo volume Fire from Heaven, Cox metteva al centro della sua indagine e considerava come il maggiore “segno dei tempi” per il ritorno del religioso, la corrente pentecostale-carismatica nel cristianesimo, e considerava quindi caratteristiche salienti del nuovo accostamento al sacro l’interesse per i segni, i miracoli, le guarigioni, la demonologia, l’escatologia, la fine del mondo.

Anche prescindendo dall’indagine di Cox – che riguarda esclusivamente il cristianesimo – si nota il crescente interesse per forme di rapporto con il sacro dove il percorso prevale sul discorso, il mythos sul logos, fino a quelle “fedi senza ragione” paventate nella Fides et ratio. Diversi sociologi invitano del resto, quando si tratta del sacro postmoderno, a partire da un dato di carattere negativo: dalla fine degli anni 1980, il consenso di massa nei confronti della scienza – particolarmente della medicina, la scienza “pratica” con cui le persone comuni vengono più normalmente a contatto – non è più unanime.

A partire dagli ultimi anni del decennio 1980, in diversi Paesi, il consenso popolare nei confronti della scienza e della medicina scende a quelli che sono probabilmente i livelli più bassi del secolo secondo gli inquietanti dati proposti, per esempio, nell’indagine francese di Daniel Boy e Guy Michélat (in La pensée scientifique et les parasciences, Albin Michel – Cité des sciences et de l’industrie, Parigi 1993).

Per converso, qualunque forma di cura medica che si presenti come “alternativa” rispetto alla medicina “ufficiale”, o da questa disapprovata, incontra immediatamente un vasto consenso popolare. Sembra davvero che il termometro scientifico scenda e che salga il termometro del sacro, in direzione però sempre più spesso di forme di sacro aperte al meraviglioso e al “reincanto del mondo”.

Per comprendere chi veramente beneficia del contemporaneo ritorno del sacro occorre superare – forse, ora, con l’aiuto di questa ricerca – alcuni pregiudizi tanto diffusi quanto infondati. Anzitutto, non è del tutto vero che il ritorno del sacro si verifichi completamente al di fuori delle religioni maggioritarie e delle Chiese storiche. Certo, mentre le statistiche sul numero di persone che si dicono interessate alla religione o al sacro sono notevolmente simili da Paese a Paese, le statistiche sul numero dei praticanti sono molto diverse.

Tuttavia, esistono elementi per ritenere che il declino della pratica religiosa in Occidente sia stato in qualche modo sopravvalutato, e che si sia diffuso un “mito della chiesa vuota”, come lo chiamava già nel 1993 Robin Gill (The Myth of the Empty Church, SPCK, Londra 1993). Benché le statistiche sul numero dei praticanti siano molto controverse, in alcuni Paesi – fra cui l’Italia – molti studiosi hanno notato almeno una certa tenuta. Le chiese non sono certamente piene. Ma non sono sempre e dovunque vuote.

All’interno delle religioni tradizionali, e dello stesso cristianesimo, vi sono poi movimenti i cui ritmi di crescita non hanno nulla da invidiare a gruppi neo-religiosi. Dopo l’11 settembre 2001, una certa “magia dell’11 settembre” spinge molti credenti – e anche alcuni non credenti – a riscoprire l’eredità cristiana. Prescindendo dai fenomeni complessi che avvengono all’interno dell’Islam, dell’induismo e dell’ebraismo – talora accomunati dall’etichetta, non sempre precisa, di “fondamentalismi” – si può notare, con Harvey Cox, che i movimenti di rinnovamento carismatico all’interno della Chiesa cattolica e le comunità pentecostali nel mondo protestante contano nel mondo qualche centinaio di milioni di fedeli e possono vantare ritmi di crescita superiori a quelli, spesso citati come spettacolari, dei mormoni o dei Testimoni di Geova. Non rimane peraltro meno vero che, per quanto questi fenomeni siano interessanti e importanti, una parte di rilievo del ritorno del sacro va cercata al di fuori delle grandi religioni e delle Chiese storiche.

Nell’ultimo suo articolo che abbiamo citato, Cox rileva come il dibattito sulla secolarizzazione sia stato cambiato dall’impatto pressoché mondiale del volume del 2007 del filosofo cattolico canadese Charles Taylor L’età secolare (trad. it., Feltrinelli, Milano 2009). Anche Taylor distingue fra un livello di secolarizzazione qualitativa – la progressiva, e per lui irreversibile (in Occidente), separazione fra Chiesa e Stato – e uno di secolarizzazione quantitativa, a sua volta articolato sul piano delle credenze – che non accennano a venire meno anche nella società moderna e postmoderna – e su quello della pratica religiosa, che il filosofo canadese vede invece, almeno nella maggioranza dei Paesi occidentali, in declino, seppure non univoco e non lineare.

Ma per Taylor la verità della tesi della secolarizzazione – ancora, almeno in Occidente – sta in un terzo livello, quello delle “condizioni del credere”. Mentre un tempo l’opzione per così dire di default per un giovane che iniziava la sua vita adulta era quella d’inserirsi in un contesto di religione e di Chiesa e di considerare questo contesto importante, oggi l’opzione di default è la lontananza dalla religione istituzionale, cui ci si può certamente riavvicinare ma agendo in controtendenza rispetto all’ambiente sociale.

Cox discute le conclusioni di Taylor osservando che il suo principale punto di riferimento, come rischia spesso di avvenire quando si parla di secolarizzazione, sono le Chiese e comunità cristiane storiche, con una certa sottovalutazione per esempio del mondo pentecostale. E a Taylor sono state rivolte diverse altre critiche, alcune delle quali raccolte – con una risposta dello stesso Taylor – in un volume pubblicato nel 2010 e curato da Michael Warner, Jonathan VanAntwerpen e Craig Calhoun (Varieties of Secularism in a Secular Age, Harvard University Press, Cambridge [Massachusetts] – Londra 2010).

L’età secolare rimane un testo estremamente influente su tutto il dibattito sulla presenza delle religioni nel mondo moderno e postmoderno. Ma le discussioni invitano a considerare che esistono forme di secolarizzazione diverse, in contesti nazionali diversi – si veda la tesi del sociologo Franco Garelli su una “religione all’italiana”, di cui ci occuperemo oltre –, e che occorre sempre rivolgere lo sguardo anche alle religioni e ai movimenti “emergenti” o non tradizionali.

Un altro elemento di carattere ampiamente mitologico, che questa ricerca contribuirà forse a mandare in pensione, è peraltro quello relativo alla cosiddetta “invasione delle sette”. Certo, i movimenti religiosi in qualche modo alternativi sono moltissimi. J. Gordon Melton – che peraltro rifiuta, come anche noi facciamo in questa sede, di tracciare una linea di demarcazione netta fra “vecchie” e “nuove” religioni, né utilizza, per ragioni su cui torneremo, il concetto di “setta”, che è ambiguo, impreciso e si presta facilmente a un uso valutativo e discriminatorio – ne rubrica oltre 2.300 di una certa consistenza negli Stati Uniti e in Canada nella nona edizione della sua Melton’s Encyclopedia of American Religions (2 voll., Gale, Farmington Hills [Michigan] 2017), di cui 385 nuove rispetto alla precedente edizione del 2009.

In un Paese dove il pluralismo religioso è più recente, come l’Italia, le sigle “nuove” sono comunque numerose. Ma il numero di aderenti a questi movimenti rimane piuttosto contenuto. Naturalmente, le statistiche dipendono da dove, esattamente, si pone la linea di demarcazione fra le religioni “storiche” e i “nuovi movimenti religiosi”. In America Latina e in alcuni Paesi dell’Africa e dell’Asia, per esempio, sono possibili enormi variazioni del dato statistico relativo ai “nuovi movimenti religiosi” a seconda dell’inclusione o meno, in questa categoria, delle comunità protestanti di tipo pentecostale o fondamentalista indipendente.

Da questa ricerca risulterebbe comunque confermato – se si volesse utilizzare la categoria di “nuovi movimenti religiosi” nel senso in cui più comunemente la si usa, che non comprende il mondo protestante pentecostale e fondamentalista indipendente – che le realtà normalmente così etichettate riuniscono meno dell’uno per cento degli italiani.

Molte sigle, talora rilevanti dal punto di vista culturale e tipologico, hanno però un numero minuscolo di aderenti così che, più che di una “invasione delle sette” si dovrebbe parlare di una “invasione delle sigle”. Altro è il discorso sulle minoranze religiose, il che in Italia significa sulle religioni diverse dalla cattolica. Complessivamente, chi avrà modo di leggere la presente rassegna enciclopedica, vi troverà esposte 866 minoranze religiose e spirituali presenti in maniera organizzata nel nostro Paese; nella prima edizione di questa enciclopedia, pubblicata nel 2001, erano 658.

Questa ricerca saluta e congeda anche il dato – molte volte ripetuto, ma che almeno dagli anni 1980 non è mai stato vero – secondo cui le minoranze religiose in Italia rappresentano globalmente solo l’uno per cento della popolazione.

Anche se in molti casi le statistiche sono difficili, i totali di questa ricerca relativi a quanti chiaramente manifestano un’identità religiosa diversa dalla cattolica in Italia sono di circa 2.045.900 unità se si prendono in esame i cittadini italiani, e di circa 6.030.100 unità se si aggiungono gli immigrati non cittadini, il che ha rilievo principalmente per il mondo islamico e secondariamente per un’immigrazione cristiano-ortodossa dall’Est europeo di proporzioni notevoli, ma anche – per esempio – per l’induismo, il buddhismo, le religioni sikh e radhasoami, un robusto protestantesimo pentecostale e battista di origine cinese, coreana, filippina e africana, o l’immigrazione copta proveniente da diversi Paesi dell’Africa.

Considerando da una parte i 55.339.533 cittadini italiani – un dato che include quanti hanno acquisito la cittadinanza, che possono essere stimati in 1.493.607, dei quali 671.394 risultavano avere ottenuto la cittadinanza alla data del censimento del 2011, mentre altri 822.213 l’hanno ottenuta nell’ultimo quinquennio sessennio (65.383 nel 2012, 100.712 nel 2013, 129.887 nel 2014, 178.035 nel 2015, 201.591 nel 2016, 146.605 nel 2017; per un raffronto, nel 2005 l’avevano ottenuta 28.659 persone) – e confrontandoli con il totale della popolazione residente ‒ fissata a 60.483.973 unità, secondo i più recenti dati del bilancio demografico, resi noti nel 2018 dall’Istituto nazionale di statistica, dei quali gli stranieri sono 5.144.440, pari all’8,5% (un’incidenza superiore alla media dell’Unione Europea, pari al 7,5%) ‒, siamo come si vede a una percentuale del 3,7%, quasi il quadruplo del mitico uno per cento più volte infondatamente menzionato.

Se si considerano i residenti sul territorio la percentuale di appartenenti a minoranze religiose sale precisamente al 10%. Presentiamo queste conclusioni insieme senza trarne alcuna specifica conseguenza di carattere generale – il che andrebbe ben oltre i compiti di questo nostro lavoro – e consapevoli del fatto che documentare il pluralismo è un gesto a suo modo “politico”.

Nel dettaglio – e con le precisazioni che seguiranno – la composizione del 3,7% di cittadini italiani che appartengono a minoranze religiose è la seguente:

Tab. 1 – Minoranze religiose fra i cittadini italiani (stima CESNUR 2018)

Ebrei 36.500 1,8%
Cattolici “di frangia” e dissidenti 25.000 1,2%
Ortodossi 306.700 15,0%
Protestanti 476.400 23,3%
Testimoni di Geova (e assimilati) 411.600 20,1%
Mormoni (e assimilati) 27.500 1,3%
Altri gruppi di origine cristiana 7.400 0,3%
Musulmani 405.300 19,8%
Bahá’í e altri gruppi di matrice islamica 4.400 0,2%
Induisti e neo-induisti 45.200 2,2%
Buddhisti 186.600 9,1%
Gruppi di Osho e derivati 4.000 0,2%
Sikh, radhasoami e derivazioni 20.000 1,0%
Altri gruppi di origine orientale 5.600 0,3%
Nuove religioni giapponesi 3.500 0,2%
Area esoterica e della “antica sapienza” 16.500 0,8%
Movimenti del potenziale umano 30.000 1,5%
Movimenti organizzati New Age e Next Age 20.000 1,0%
Altri 13.700 0,7%
Totale 2.045.900 100,0%

Molte di queste cifre necessitano di una spiegazione.

  • Per gli ebrei, il dato dei membri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane è stato corretto aggiungendo i (non molti) membri di realtà di origine ebraica che non s’identificano con tale Unione, come pure di quella che nelle statistiche si definisce “popolazione ebraica allargata”.
  • Per cattolici “di frangia e dissidenti” intendiamo i membri di tutti quei movimenti non in piena comunione con la Chiesa cattolica o in situazione oggettivamente marginale, come meglio spiegato e definito nel testo, e non i soli gruppi dichiaratamente scismatici. Come si vedrà, si tratta di un mondo normalmente sommerso, ma tutt’altro che irrilevante, su cui questa ricerca ha l’ambizione di gettare una luce nuova, dove la stima di 25.000 persone coinvolte – 10.000 nella sola Associazione La Missione – Luigia Paparelli – dev’essere intesa come conservatrice e tiene conto del fatto che molte di queste persone si considerano comunque soggettivamente cattoliche.
  • Gli ortodossi in Italia si avvicinano al traguardo dei due milioni ‒ particolarmente per l’immigrazione dalla Romania, che nel 2018 ha raggiunto la quota di 1.190.091 unità, ovvero il 23,1% dell’intera immigrazione in Italia ‒, per quanto solo in minoranza ‒ sebbene corposa ‒ cittadini italiani.
  • Quanto ai protestanti, ci si dovrà riferire alle ricostruzioni capitolo per capitolo, e si tratta di un terreno per molti versi controverso. Le nostre valutazioni si riflettono – sempre in tema di cittadini italiani, ovvero anche di quella fetta, particolarmente pentecostale, che ha acquisito la cittadinanza italiana – nella tabella seguente:

Tab. 2 – Distribuzione dei protestanti cittadini italiani (stima CESNUR 2018)

 

Protestanti “storici” 71.500 15,0%
Movimento di Restaurazione 5.700 1,2%
Movimento dei Fratelli 22.100 4,6%
Chiese libere (non pentecostali), holiness 9.500 2,0%
Pentecostali 345.000 72,4%
Avventisti 20.000 4,2%
Altri 2.600 0,6%
Totale 476.400 100,0%

 

Per le definizioni, ci si riferirà alle varie sezioni della ricerca. Il dato pentecostale – che emerge immediatamente come il più rilevante all’interno del protestantesimo italiano – è composto da 167.000 fedeli delle Assemblee di Dio in Italia e da circa 178.000 fedeli di altri gruppi.

Il dato leggermente inferiore spesso citato normalmente non comprende il mondo discreto e poco noto dei pentecostali “zaccardiani” e “petrelliani” – dai nomi dei fondatori o ispiratori dei loro gruppi Domenico Zaccardi (1900-1978) e Giuseppe Petrelli (1876-1957) –, su cui si troveranno qui diversi dati inediti, e talora non considera pentecostali movimenti che sono nati nel mondo pentecostale latino-americano e che oggi hanno membri anche tra i cittadini italiani. Anche il dato delle Chiese “storiche” – valdesi, luterani, riformati, calvinisti, battisti, metodisti – dev’essere a nostro avviso leggermente rivalutato rispetto a statistiche correnti, mentre per gli avventisti abbiamo indicato i membri reputati “attivi”.

  • Sulla difficoltà di calcolare il numero dei Testimoni di Geova – comunque certamente la maggiore realtà organizzata in modo unitario presente nel Paese dopo la Chiesa cattolica – si troveranno elementi nella scheda: in ogni caso, considerare “Testimoni di Geova” i soli “proclamatori” sarebbe gravemente riduttivo, e abbiamo ponderato un dato leggermente inferiore a quello dei partecipanti annuali alla commemorazione della Cena del Signore – cui partecipano anche simpatizzanti –, tenendo conto nel contempo della presenza in Italia anche di altri piccoli gruppi diversi dai Testimoni di Geova, che derivano dallo stesso filone degli Studenti Biblici.
  • Nel computo dei mormoni abbiamo considerato non solo la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, ma anche i membri – statisticamente assai inferiori – afferenti a comunità in una certa misura appartenenti al medesimo ramo genealogico.
  • Gli “altri gruppi di origine cristiana” comprendono i membri di una certa varietà di movimenti fra loro eterogenei – dalla Christian Science a The Family a Vita Universale –, tutti normalmente di piccole e talora piccolissime dimensioni, ma con eccezioni significative, come la Chiesa Neo-Apostolica, che supera i 2.000 fedeli.
  • La stima dei musulmani cittadini italiani in 405.300 è soggetta a ulteriori variazioni future nel caso di più rapido accesso alla cittadinanza di musulmani immigrati: oggi appare ragionevole, e ampiamente influenzata dalle nuove acquisizioni della cittadinanza italiana, che hanno radicalmente alterato il quadro. Nella loro grande maggioranza, i musulmani cittadini italiani non sono convertiti, ma “nuovi cittadini” che erano già musulmani al momento di acquisire la cittadinanza.
  • Distinti dai musulmani – ancorché nati in ambiente islamico – vanno certamente tenuti i Bahá’í, cui si aggiungono altre fomazioni più piccole.
  • Agli induisti abbiamo aggiunto i seguaci dei numerosi movimenti neo-induisti presenti in Italia, senza che il confine fra le due categorie sia veramente suscettibile di essere tracciato: essi, come si vedrà, sono veramente molti, e non tutti piccolissimi: fra le più grandi realtà, con oltre 2.000 membri ciascuna, ricordiamo l’Organizzazione Sathya Sai Baba e i meno conosciuti Amici di Amma. Nell’area induista non abbiamo, per scelta, incluso talune realtà, come i seguaci di Osho Rajneesh, un maestro – comunque si giudichi il suo rapporto con il giainismo in cui era nato – certamente non “induista”.
  • Il dato buddhista (186.600 praticanti) tiene conto di 80.000 fedeli dell’area concettualmente rappresentata dall’Unione Buddhista Italiana ‒ theravada, zen e vajrayana: peraltro non tutti fanno parte di centri U.B.I. ‒, 90.000 membri della Soka Gakkai, 16.600 buddhisti di altre tradizioni (la stessa area Nichiren non si riduce alla sola Soka Gakkai). L’incremento di quest’area, e in particolare della Soka Gakkai, è il dato più significativo di questo primo scorcio di secolo XXI se si escludono i fenomeni relativi agli immigrati e ai nuovi cittadini.
  • Tra i sikh, radhasoami “e derivazioni” abbiamo incluso i numerosi piccoli gruppi ispirati al maestro di origine sikh Baba Bedi XVI (1909-1993).
  • Gli “altri gruppi di origine orientale” comprendono i pochi zoroastriani e quelli cinesi e indocinesi, quando in essi sia possibile scorgere una vera pratica religiosa e non semplicemente l’uso di tecniche orientali a fini terapeutici o di altra natura
  • Il dato delle nuove religioni giapponesi (3.500 fedeli) – intese come formazioni giapponesi di origine recente e non buddhista – deriva per la metà (1.500 fedeli) da Sûkyô Mahikari, benché siano presenti come si vedrà altre sigle.
  • Diversi capitoli trattano di movimenti che occupano la vasta area che specialisti americani chiamano dell’“antica sapienza” (ancient wisdom), sigla comoda per identificare realtà diverse nel mondo della ricerca delle tradizioni arcaiche, dell’esoterismo e talora dell’occultismo cui si aggiungono i movimenti ispirati allo spiritismo o ai dischi volanti. I 16.500 aderenti complessivi non sono moltissimi, a fronte del proliferare di sigle, di cui però poche – la Società Teosofica Italiana, l’Associazione Antroposofica, l’AMORC, il Lectorium Rosicrucianum, alcuni gruppi gnostici ispirati all’esoterista colombiano Samael Aun Weor, forse in futuro i Gruppi di Pratica di Tensegrità di Carlos Castaneda o la Religione Raeliana – superano, raggiungono o, considerati i tassi di crescita, possono aspirare a raggiungere i mille membri.

Il dato complessivo risulta dalla somma seguente:

Tab. 3 – Area esoterica e “dell’antica sapienza” (stima CESNUR 2018)

Neo-pagani, neo-sciamanici, Wicca 3.200 19,4%
Rosacroce 2.100 12,7%
Martinisti, kremmerziani, magia cerimoniale 2.000 12,1%
Neo-templari 850 5,1%
Gruppi teosofici e derivati 2.850 17,3%
Fraternità universali 700 4,2%
Spiritismo organizzato 1.000 6,1%
Movimenti dei dischi volanti 1.000 6,1%
Chiese e movimenti gnostici 1.500 9,1%
Satanismo organizzato 350 2,1%
Altri 950 5,8%
Totale 16.500 100,0%

Per qualche verso a questa stima potrebbero essere aggiunti, in quanto spesso non privi d’interessi esoterici, i circa 40.000 iscritti alle varie obbedienze massoniche, che tuttavia abbiamo scelto di considerare a parte per le ragioni meglio precisate in seguito e nell’appendice dedicata a questo ambito.

Si rileverà l’insistenza sulle nozioni di spiritismo e satanismo organizzati, a indicare che i dati comprendono i soli membri di associazioni o realtà formalmente costituite, certamente non tutti coloro – numerosi, specialmente fra i giovani – che si danno a pratiche spiritiche o a un satanismo “fai da te” o “selvaggio”, e questo – beninteso – senza confondere spiritismo e satanismo, realtà assolutamente non analoghe e qui accomunate solo dal fatto di avere praticanti giovanili “spontanei” accanto a quelli che fanno parte di organizzazioni.

  • Assai delicati sono i discorsi quantitativi in tema di movimenti del potenziale umano e di New Age e Next Age perché qui, quasi per definizione, non ci sono veramente “membri” in un senso paragonabile a quello in cui il termine è usato, per esempio, per una Chiesa ma solo partecipanti a varie attività, “clienti”, “fruitori”. Certamente coloro che partecipano occasionalmente a corsi, seminari, convegni di queste aree sono molti. Mentre in precedenti edizioni di questa ricerca avevamo proposto una cifra molto superiore, riferita ai partecipanti regolari e continuativi, ora – in armonia con le più recenti ricerche straniere – riteniamo di dovere circoscrivere la cifra soltanto a coloro che vivono la loro partecipazione a questi gruppi come una vera e propria identità religiosa, alternativa a ogni altra, stimando così i veri e propri “membri di minoranze religiose” – distinti dai semplici, e certamente assai più numerosi, simpatizzanti – in circa 30.000 nell’area del potenziale umano – molti dei quali frequentatori della Chiesa di Scientology, ancorché il successo di realtà di origine italiana, come il Paris Energy Method, non vada sottovalutato – e di 20.000 nell’area del New Age, Next Age e delle comunità “acquariane” o post-New Age, fra cui emerge Damanhur, anche se il New Age per sua natura vive soprattutto nell’accostamento fluido di partecipanti “occasionali” che quindi si sottraggono alle statistiche.

Molto più incerte – e fonte di dibattiti senza fine, politicamente condizionati – sono le statistiche sulle minoranze religiose presenti sul territorio se si considerano anche gli immigrati non cittadini – una presenza che è aumentata di 10 volte negli ultimi 25 anni – e non solo i cittadini italiani. Il dato presupporrebbe inoltre la possibilità di avere dati certi sull’immigrazione irregolare – attualmente valutata attorno alle cinquecentomila unità –, il che è notoriamente assai difficile.

Negli ultimi decenni sono emersi come punto di riferimento del dibattito i dati del rapporto annuale curato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in partenariato con il Centro Studi Confronti (originariamente pubblicato da Caritas/Migrantes). Questi dati sono basati su una metodologia che assume come punto di partenza i residenti stranieri accertati dall’Istat alla fine dell’anno precedente, la integra con i casi di “sofferenza anagrafica” che sono stati nel frattempo risolti, vi aggiunge gli stranieri che nel corso dell’anno sono venuti ex novo dall’estero o sono nati in Italia nonché altre categorie di migranti ‒ nuovi lavoratori autonomi, ricongiungimenti, soggiornanti, ecc. ‒, così che il numero effettivo di cittadini stranieri regolarmente presenti in Italia nel 2018 è stimato da IDOS in 5.333.000 persone (Dossier Statistico Immigrazione 2018, Roma 2018, p. 112), con un’incidenza in questo caso pari all’8,8% (anziché l’8,5% precedentemente menzionato, basato sul bilancio demografico 2018 dell’Istituto nazionale di statistica, che conteggia ‒ come abbiamo già visto ‒ 5.144.440 stranieri).

I dati del Dossier Statistico Immigrazione sono stati per anni fondati sull’ipotesi di partenza – se del caso corretta quando i flussi migratori da un Paese appaiono palesemente alimentati soprattutto dai seguaci di una specifica religione – che gli stranieri presenti in Italia abbiano la stessa ripartizione religiosa dei Paesi di origine. Nelle ultime edizioni del Dossier i dati sono stati però ponderati tenendo conto di critiche che lo stesso CESNUR aveva mosso, sia in ordine alla scarsa attendibilità dei dati forniti dai Paesi di origine, talora “corretti” per ragioni politiche, sia perché da alcuni Paesi minoranze, soprattutto cristiane, esposte a persecuzioni emigrano in proporzione molto più delle maggioranze. I dati del 2018, frutto di tale ponderazione, ci sembrano accettabili e li assumiamo quindi come punto di partenza, per quanto riguarda gli immigrati non cittadini, anche del nostro lavoro.

La stima del Dossier Statistico Immigrazione è riportata nella Tavola 4.

Tab. 4 – Appartenenza religiosa degli immigrati (stima Dossier Statistico Immigrazione 2018)

 

Ortodossi 1.523.300 29,6%
Cattolici 918.100 17,8%
Protestanti 224.400 4,4%
Altri cristiani 39.900 0,8%
Musulmani 1.682.600 32,7%
Ebrei 4.600 0,1%
Induisti 152.500 3,0%
Buddhisti 117.200 2,3%
Altre religioni orientali 83.700 1,6%
Atei e agnostici 241.700 4,7%
Religioni tradizionali 65.300 1,3%
Altri 90.700 1,7%
Totale 5.144.000 100,0%