Stato e diritto nel pensiero di Joseph de Maistre

da Il Corriere del Sud 13 Aprile 2015

 di Riccardo Pedrizzi

Per molti aspetti la riflessione ed il pensiero politico di Joseph de Maistre (1753-1821) su Stato e diritto più che al “reazionario” fanno pensare al recupero ed alla rielaborazione in chiave originale dei fondamenti della filosofia giuridica neoscolastica. Il conte savoiardo muove infatti da principi e da una concezione della vita, della società e dell’uomo di cui si serve come capisaldi per formulare le critiche alla società illuminista del suo tempo che molti, dopo di lui, hanno ripreso.

E’, insomma, in nome di valori che de Maistre agisce, che scrive, che si impegna e ciò sarà ancora più chiaro quando si prenderà la briga di proporre un piano sistematico per la ricostruzione del “suo” mondo, cioè quell’ancien régime che, pure, necessitava di adeguamenti. L’Autore delle Serate di San Pietroburgo non crede, dunque, alle teorie e sta ai fatti e la sua è una semplicissima politica, è una politica sperimentale, l’antidoto più efficace alle speciose ideologie che con l’illuminismo si erano diffuse in tutto il continente.

Ritornando al tema specifico del pensiero di de Maistre su Stato e diritto, va preliminarmente detto che, il conte savoiardo, come tutti i grandi pensatori della tradizione occidentale, sapeva perfettamente che, per la ricostruzione di un certo tipo di civiltà, di un ordinamento politico ordinato in una certa maniera, occorre prendere in esame innanzitutto l’uomo, conoscerlo, studiarlo in tutta la sua realtà, con i suoi difetti ed i suoi pregi, con i suoi istinti tendenti verso il basso ed i suoi slanci ideali; e poi dall’uomo passare agli aggregati sociali: la corporazione, la famiglia, la nazione con al vertice lo Stato che ordina tutte queste forze le quali, altrimenti, tenderebbero ad un moto centrifugo.

Platone

Era la lezione di Platone quella che egli aveva recepito, del Platone espressione dell’Ellade dorica e severa e di tutta l’antichità con i suoi insegnamenti perennemente validi. E’ chiaro che per de Maistre sarebbe stato utopistico tendere ad uno Stato, tale quale l’aveva delineato il filosofo greco, così organizzato e così strutturato; ma ciò non toglie che i principi eterni, universali ed immutabili potevano dal conte essere utilizzati e messi in pratica anche nel “suo” mondo.

E la lezione di Platone per il Nostro fu questa: importanza preminente va data alla sfera dei valori spirituali, eroici ed ideali; al di sotto, essendo di rango inferiore, va posta la sfera di tutto ciò che sa di economia, di sociale, di materialistico. Proprio per questo de Maistre in quasi tutte le sue opere, tratta dell’uomo, della società, della nazione e dello Stato. Facendo ciò, e negando l’esistenza di uno stato di natura, egli giunge e ripete una affermazione paradossale, apparentemente in contrasto con tutto il pensiero settecentesco: «Non esiste l’uomo nel mondo. Nel corso della mia vita io ho conosciuto francesi, italiani, russi; grazie a Montesquieu so anche che si può essere persiani; ma in quanto all’uomo dichiaro di non averlo mai incontrato: se esiste, esiste senza che io lo sappia»

Si rompe così quell’universalismo che aveva imperato durante l’Illuminismo. Non è possibile considerare alla stessa stregua tutti gli uomini e tutti i popoli perché le differenze esistono e pongono scottanti problemi. De Maistre non rinnega gli uomini, ma l’uomo astratto ed irreale dell’Illuminismo. L’uomo isolato ha una esistenza inconcepibile anche da un punto di vista esclusivamente teorico. L’uomo reale, viceversa, esiste nel gruppo e dunque nella storia; egli è inimmaginabile al di fuori della società essendo l’aristotelico animale sociale. Per cui l’uomo realizza se stesso, attua la sua libertà proprio vivendo nei corpi sociali che più gli sono naturali: la famiglia, la nazione e così via.

E’ chiaro che per de Maistre sarebbe stato inaccettabile una vita che si esaurisse sul piano sociale: infatti ciò vorrebbe significare fermarsi alla sfera naturalistica, umana, mentre l’uomo non può e non deve perdere di vista il suo legame con la Trascendenza, con Dio, perché, altrimenti «l’uomo in rapporto con il suo creatore è sublime, e la sua azione è creatrice: al contrario, dacché ci si separa da Dio e opera da sé solo non cessa di essere possente perché questo è un privilegio della sua natura; mala sua azione è negativa e non tende che a distruggere» (J. De Maistre, Sul principio generatore delle costituzioni, par. XLV).

La forza dell’uomo sta nel riconoscere la sua condizione, la necessità di qualcosa di superiore che deve essere invocato, al momento del bisogno, con le preghiere e con l’assoluta sottomissione.

De Maistre capì che la crisi del suo tempo si poneva come crisi dell’uomo, come conseguenza dello smarrimento di quella missione, che è simile nell’uomo aristocratico, conquistatore delle più alte responsabilità, e nell’uomo semplice che sa compiere il proprio dovere al posto assegnatogli dalla Provvidenza nella società.

Inoltre, comprese che erano due concezioni dell’uomo che, innanzitutto, si scontravano e che il mondo cosiddetto moderno aveva ingaggiato la sua lotta contro l’uomo ormai abbandonato à se stesso, atomo in una massa di atomi, sciolto dai legami che lo tenevano avvinto ai naturali corpi sociali, solo senza nemmeno il conforto della preghiera e di Dio; e, quindi, sapeva che la rivoluzione e le sue idee non avrebbero avuto ragione dell’uomo, come egli lo intendeva, nella misura in cui l’uomo stesso avesse avuto ragione di sé e della sua parte tendente verso il basso, cioè nella misura in cui avesse riacquistato la coscienza delle sue potenzialità ma anche dei suoi limiti, congiuntamente alla consapevolezza della necessità di ripristinare e ricostruire il legame con il Creatore.

Ed è proprio per questo morivo che de Maistre tentava di riancorare l’uomo a Dio,

Della società, della nazione

Il problema centrale dell’Illuminismo era stato quello della ricerca dell’origine della società. Dopo la rivoluzione questo è già un problema dimenticato per cui lo stesso de Maistre lo trascura non avendo per lui alcun interesse le discussioni sull’origine contrattuale o meno della società.

La società è sempre esistita o se vi è stato un periodo precedente, questo non ha alcun interesse per noi. Soprattutto non è mai esistito uno stato di natura: «Non c’è mai stato per l’uomo un periodo precedente la società, perché prima della formazione delle società politiche l’uomo non è realmente uomo».

La vita dell’uomo in società è comportata dalla sua stessa natura e poiché questa, al pari di tutte le cose create, deriva da Dio, anche la società è il risultato della volontà divina. Infatti la legge divina è il vero principio generatore e rigeneratore delle società. Le istituzioni politiche e sociali saranno perfette e durevoli nella misura in cui tenderanno al vero bene.

Ora i gruppi fondamentali per la storia sono le nazioni, che de Maistre intende ancora come «il sovrano e l’aristocrazia». Era troppo presto, senza dubbio, perché nell’acceso clima della rivoluzione un contro-rivoluzionario potesse intendere per nazione la totalità dei membri di essa sia pure con compiti diversi e diversi gradi di partecipazione.

Ogni nazione ha le sue caratteristiche che si esprimono attraverso i “pregiudizi” nazionali. Per pregiudizi de Maistre intende quel complesso di idee che formano il patrimonio spirituale di un popolo e che non può essere tradito senza snaturare le istituzioni stesse, come invece intendeva fare l’Illuminismo.

L’Illuminismo volle sostituire la ragione individuale di pochi ideologhi al patrimonio dottrinario accumulato nei secoli, che solo può, oggi come allora, dare la forza di progredire.

Proprio in questo tenere nella giusta considerazione il patrimonio spirituale di un popolo, Benedetto Croce ha visto una affinità di impostazioni tra de Maistre e Giambattista Vico. Infatti, parlando delle correnti culturali del tempo, il filosofo napoletano ha tenuto a dire, con un insegnamento da riconsiderare a mio avviso anche ai nostri tempi, che l’«affinità di concetti, se non di tendenze politiche, tra vichiani e storicisti da una parte, e reazionarie romantici dall’altra, rende naturale che essi si cercassero, si istruissero e si rafforzassero a vicenda».