La scuola in pezzi e i nemici del «miracolo»

scuola_finitaStudi Cattolici n.591 Maggio 2010

I pedagogisti-sapienti si rassegnino: la scuola non è cosa loro, appartiene a tutti noi e tutti chiediamo che vi si curi la conoscenza dei fondamentali della nostra lingua, della religione e della storia, della geografia, della matematica e delle scienze. Sono le basi della conoscenza che invogliano l’alunno a leggere, a capire, a scoprire. È la conoscenza che rende liberi e giova ai nostri bambini quanto ai bambini di altre nazioni: affinché tutti possano migliorare sé stessi per migliorare la nostra Italia

di Clementina Melotti Boltri

«Oggi, come ai tempi di Gesù, il Natale non è una favola per bambini, ma la risposta di Dio al dramma dell’umanità in cerca della vera pace». Benedetto XVI si è rivolto ai cattolici di tutto il mondo invitandoli a riscoprire, nella nascita di Gesù, il significato profondo del messaggio divino.

Ma accade che il monito sia disatteso, nel nostro Paese, proprio da coloro che dovrebbero trasmetterlo alle nuove generazioni. Sono i maestri che scelgono di abolire il Presepe, quelli che vogliono ignorare la nascita del Bambino e il Vangelo di Luca e tuttavia si atteggiano a messaggeri di accoglienza e di pace: pacifisti di pessimo conio, ipocriti privi d’identità, cioè privi di radici culturali e morali.

E intanto i loro piccoli alunni recepiscono quel messaggio di viltà. Per quei maestri il compromesso è una scelta di comodo, ma per i loro scolari è la più scellerata: i bambini sono indotti a misconoscere la grande tradizione che ci appartiene e ci distingue, per essere inclini a subire, in futuro, gli usi e i costumi altrui.

Quei sedicenti educatori illustrano la festa delle luci; ma non sanno e non vogliono guidare i propri alunni, i piccoli italiani insieme ai coetanei di altre nazioni, a costruire il Presepe, a studiare le poesie che lo cantano, a leggere il Vangelo e le pagine di storia che narrano di Gesù. Eppure, quelle sono le nostre radici: è la nostra grande storia, che anche i piccoli di altra nazionalità dovranno conoscere per potersi integrare.

Sono le radici del popolo che li accoglie e di cui dovranno apprendere e rispettare gli usi e i costumi, la storia, la religione e la lingua. Ma quei maestri non possono insegnare ciò che non hanno appreso. Sono cresciuti nella scuola dell’ultimo quarto di secolo, la scuola dei molti «saperi», vanamente enciclopedica, priva di fondamenta, edificata da pedagogisti compiaciuti di sé più che competenti di basi culturali.

I numeri del disastro

Da vari anni le classifiche Ocse e Pisa evidenziano le disastrose conseguenze delle ultime riforme: dai Programmi del 1985, alla scuola a moduli del 1990, fino alle stucchevoli «Indicazioni nazionali» e ai troppi «Obiettivi specifici». Disastro documentato dai numeri: nella scuola primaria italiana le ore annue d’insegnamento sono 990, la media Ocse è di 796; nella nostra primaria contiamo 9,4 maestri ogni cento alunni, la media Ocse è di 6,2. Abbiamo dunque più ore d’insegnamento e più docenti, ma il profitto dei nostri scolari, accertato dai test Pisa, è di molto inferiore alla media.

Tuttavia, mentre vanno finalmente a regime le novità già introdotte dal ministro Gelmini, cioè il maestro unico e i voti espressi in numeri, c’è ancora chi ostacola il compimento del «miracolo»: sono le corporazioni che tutelano la scuola-stipendificio e promuovono cortei sgangherati; sono i pedagogisti che s’inventano una educazione al giorno; sono le famiglie, abbagliate dagli specchietti per allodole di una scuola-pareheggio che le sollevi dalla cura dei figlioletti.

La Crusca e i Lincei, le due nostre maggiori accademie, chiedono invano, da tempo, che si torni a programmi essenziali, cioè alla costruzione accurata e paziente delle fondamenta su cui dovrà poggiare il successivo edificio culturale.

Opera sacrosanta da affidarsi al maestro unico, pur a orario prevalente; opera da realizzare in ore antimeridiane, le sole utili a un efficace apprendimento. Una limpida rielaborazione dei Programmi per la scuola primaria potrebbe giovare anche alle maestre cresciute nella scuola degli ultimi decenni: sarebbero stimolate a studiare la regole che ancora ignorano, cioè ad assimilare gli elementi del vero sapere, per sé e per gli scolaretti. Le due nostre accademie, la Crusca e i Lincei, hanno lanciato di recente l’ennesimo appello affinchè i programmi scolastici diano rilievo all’insegnamento della nostra lingua.

Una indagine condotta sugli elaborati della maturità 2007 dall’Istituto nazionale per la valutazione (Invalsi), in collaborazione con la Crusca, denuncia le gravi carenze in italiano di circa sessanta maturandi su cento: periodi senza costrutto, uso bizzarro della punteggiatura, errori gravi di ortografia e grammatica, tempi dei verbi storpiati, totale ignoranza della consecutio temporum. C’è da chiedersi che cosa quegli studenti abbiano appreso in un intero percorso scolastico, se rivelano ancora scarsissima padronanza della lingua e insufficiente possesso dei relativi strumenti.

Sono giovani promossi da una scuola buonista e da insegnanti impreparati o irresponsabili, giovani già destinati a ingrossare le file della disoccupazione intellettuale. In un recente concorso pubblico per vigili urbani (Ferrara), nemmeno i candidati in possesso di laurea sono riusciti a superare la prova scritta di italiano per ottenere l’ammissione agli orali. Ciò che non avevano appreso nella scuola primaria rimane lacuna incolma-bile. È questa la realtà della nostra istituzione scolastica attuale.

Maestri d’Italia

Nel suo dossier Maestri d’Italia, lo storico prof. Adolfo Scotto di Luzio scrive: «La scuola è letteralmente andata in pezzi. Alla fine di riforme inconcludenti, appare sprovvista di un centro con identità forte. I libri di testo ripropongono pedissequamente le indicazioni del centro, rivelandone la povertà culturale. Il maestro è come sparito dall’orizzonte dell’educazione».

La fondazione «Italia futura», presidente Luca Corderò di Montezemolo, chiama docenti e giornalisti di rango a parlare di maestri: cioè a parlare del Paese, del declino, dell’urgenza di una rinascita, poiché non c’è futuro senza maestri veri, consapevoli e responsabili, rispettati perché autorevoli.

C’è chi afferma, a buona ragione, che i maestri di scuola elementare dovrebbero essere, fra tutti i docenti di ogni ordine e grado, quelli più preparati, più considerati e meglio pagati. Ma bisogna che sappiano riappropriarsi della forte identità di messaggeri del sapere, cominciando con l’arricchire le proprie conoscenze, leggendo e studiando; per poter pretendere poi di essere lasciati in pace nella propria aula a fare scuola, a insegnare la nostra bella lingua proponendo brani e poesie d’autore, a raccontare e illustrare la storia e la geografia, a ragionare di matematica e scienze. Si fa vera scuola con i maestri, con i programmi e con i testi. Sono tre elementi indispensabili a ricomporre decentemente «i pezzi» della nostra scuola, per la rinascita del nostro Paese.

Ieri &oggi

C ‘erano una volta i testi di lettura: per la scuola elementare, pubblicati da un’editoria selezionata: pagine nitide, illustrazioni semplici e significative, brani e poesie di grandi autori, nessuna finestrella né quiz a intralciare la lettura. Lo scolaretto imparava ad amare il libro, perché leggeva senza condizionamenti, si incuriosiva e si divertiva. C’erano i sussidiari, poveri di fotografie ma ricchi di nozioni d’oro: italiano e matematica con spiegazioni chiare ed esercizi di consolidamento; religione, storia, geografia e scienze.

Ogni disciplina era presentata nei suoi elementi essenziali e l’alunno, al termine della quinta classe, poteva sostenere un esame con prove scritte e orali: una piccola vera sfida che non l’intimidiva, ma lo eccitava ed entusiasmava. Nello svolgere il tema lo scolaro doveva dimostrare una accettabile proprietà di linguaggio, senza insulti all’ortografia e alla grammatica; nel risolvere il problema doveva rivelare le capacità acquisite di riflessione e ragionamento e il possesso delle tecniche del calcolo.

Nell’esame orale, davanti a una commissione costituita dalla maestra di classe e da due insegnanti esterne, doveva leggere un brano a prima vista e riassumerlo, dimostrando di averlo capito; doveva saper analizzare una frase complessa, coniugare qualche verbo, recitare e illustrare una poesia fra le tante studiate a memoria; doveva eseguire calcoli con frazioni ed equivalenze, dimostrando inoltre di conoscere il sistema di misurazione decimale e di saper calcolare l’area e il volume delle figure geometriche.

Doveva conoscere la storia del nostro Risorgimento e i personaggi che l’hanno interpretato, fino alla prima guerra mondiale, con cenni sul ventennio e letture sulle scoperte e sulle invenzioni del diciannovesimo e del ventesimo secolo. Per la geografia, l’alunno doveva conoscere gli Stati e le capitali d’Europa e naturalmente l’Italia con le sue regioni, le città, i confini, i sistemi montuosi, i fiumi e i mari.

Inoltre, cenni di scienze e studio dei fondamenti della religione cattolica, con qualche parabola o miracolo di Gesù. Il tutto a cura del maestro unico. Negli anni precedenti, in terza classe, l’alunno aveva studiato la preistoria con le prime scoperte e invenzioni, le grandi civiltà del Mediterraneo, l’Impero romano, la nascita di Gesù e il significato di a.C. (ante Christum natum) e di p.C. (post Christum natum), fino all’Editto di Costantino(313 p.C.)

Oggi accade che gli alunni delle prime classi, in omaggio alla teoria dell’evoluzione e col soccorso di testi indegni, vengano suggestionati con dosi massicce di animali preistorici… finché gli ignari bimbetti si trovano a fantasticare sui loro bisnonni, immaginandoli come scimmioni dagli arti superiori penzolanti. Nei testi attuali per la scuola primaria non c’è spazio per lo studio cronologico dei fatti e dei personaggi che costituiscono la storia delle nostre radici; non c’è spazio per la buona letteratura né per la poesia di qualità e nemmeno per le regole di ortografia e grammatica.

C’erano una volta i programmi: quelli del giugno 1955, che hanno fatto eccellente la nostra scuola primaria fino a metà degli anni Ottanta; solo trenta paginette, con indicazioni chiare sui traguardi da raggiungere alla fine di ogni anno di scuola elementare. E ogni maestro responsabile se ne faceva carico, giorno dopo giorno, per raggiungere a fine anno il traguardo prestabilito; sapeva di giovare a tutti i propri alunni sviluppando quei programmi, rallentando o accelerando il passo, con lo sguardo sempre attento alla classe.

C’è anche l’italiano

Nell’ultimo quarto di secolo e in particolare nell’ultimo decennio lo stravolgimento dei programmi, operato dai sedicenti esperti dei ministeri Berlinguer/De Mauro, Fioroni e Moratti, costringe i maestri a discettare di «conoscenze/competenze/abilità»… Come se ancora non si comprendesse l’urgenza di bandire il vaniloquio, per condurre l’alunno a impossessarsi degli strumenti per conoscere.

E il primo strumento è proprio la lingua italiana. La «i» di italiano dovrà dunque svettare sulle famose tre «i» di inglese, informatica, impresa. Il premier Silvio Berlusconi deve fare ammenda per aver dimenticato la «i» di italiano, o per aver pensato che l’italiano fosse disciplina scolastica già da tempo acquisita e approfondita. Purtroppo, nellascuola attuale, nulla è più vago delle discipline tradizionali e identitarie.

Il ministro Gelmini possiede le doti di fermezza e di buon senso utili a scegliere collaboratori capaci, che sappiano separare, nei programmi, il grano dal loglio. I bambini della primaria non sono vasi da riempire, né creta da modellare secondo «educazioni» a pioggia. Sono creature desiderose di apprendere, che meritano ogni cura, che devono potersi im-possessare degli strumenti utili al loro percorso scolastico e poi a tutta la loro vita.

C’erano una volta i maestri: le attuali «indicazioni didattiche», nel trattare la correzione, così concludono: «È comunque possibile e auspicabile che, attraverso una metodologia graduale e sistematica, l’errore venga prevenuto…». Così come per le malattie: prevenire è meglio che curare. Ma è necessaria l’opera delle vere maestre, preparate da una scuola che le renda responsabili e didatticamente sicure, volonterose e pazienti, capaci di affascinare gli alunni fin dai primissimi giorni di scuola; maestre che sappiano guidare le manine dei piccoli scolari alla scorrevole scrittura in corsivo e alla lettura delle paroline scritte già riconoscibili: nome, articolo, verbo…

Occorre tempo, molto tempo e tanta intelligente pazienza: poi i frutti di un’opera accurata giungeranno copiosi, insieme all’entusiasmo crescente degli alunni. La scrittura in corsivo previene molti errori, ricorrenti nello stampatello maiuscolo e minuscolo; inoltre educa all’ordine dei quaderni e delle idee. Le brave maestre devono potersi giovare di programmi chiari ed efficaci e di testi accurati. Non occorre altro.

Una maestra preparata e capace può insegnare l’italiano e la matematica, la storia, la geografia e le scienze, mentre abitua gli scolari al comportamento corretto, al rispetto reciproco, ad ascoltare la voce della coscienza che detta il primo comandamento di civiltà: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te».

Troverà tempo e spazio, nell’itinerario programmato, anche per il Presepe, per la lettura in classe, per le poesie dei nostri maggiori poeti. Questa è cultura che gli alunni riportano in famiglia con l’amore per i libri, con lo studio gradito delle belle poesie; è educazione permanente a ciò che nutre le nostre radici di italiani.

Programmi & testi

Potrà Mariastella Gelmini ricomporre i pezzi della nostra scuola primaria? Ortografia, grammatica e sintassi si apprendono sui banchi delle elementari o mai più. Ma occorrono programmi essenziali, testi che li traducano in proposte di buon livello, maestri preparati e appassionati. Pure lo studio delle nuove materie, inglese e informatica, richiede solide basi di lingua italiana e di aritmetica.

I pedagogisti che hanno voluto stravolgere, fin dal 1985, i programmi e la metodologia nella scuola elementare, dovranno infine riflettere sui risultati catastrofici delle loro innovazioni e, con un pizzico di umiltà, tornare sui propri passi. Sbagliare è umano, perseverare nell’errore è diabolico. In particolare gli esperti dei ministeri Berlinguer/De Mauro e poi Fioroni e Moratti, i quali hanno costruito un gran castello di carte quasi fosse un piedistallo per la loro gloria, dovranno ravvedersi. Rileggano le classifiche Ocse e ascoltino i moniti che si levano da ogni parte, da personalità di scienza e cultura, da docenti e scrittori e giornalisti, dai cultori della nostra lingua e della nostra identità.

«Una scuola senza bussola», scrive Angelo Panebianco su Sette, settimanale del Corriere di febbraio 2010. «C’è la pretesa che la scuola debba occuparsi di tutto. Se bisogna dare spazio a qualunque nuova esigenza, è evidente che si deve sacrificare molto delle vecchie materie, cioè dei fondamentali… Complici famiglia e scuola, è crollata drasticamente la percentuale di cittadini con una conoscenza decente della geografia e della storia patria. Ma l’ignoranza del passato distrugge le motivazioni ideali e gli argomenti razionali a favore dell’unità d’Italia».

«Studiare le date a scuola fa capire l’identità del Paese», scriveva Francesco Alberoni sul Corriere del 2 novembre 2009. «Caro ministro Gelmini, la prego, mi ascolti, mandi via tutti i pedagogisti di questa nefasta corrente; poi faccia fare un corso di storia con le date e un corso di grammatica italiana a tutti gli insegnanti…».

Sul Giornale del 10 novembre 2009  Giorgio Israel scriveva: «Dietro la prosa della commissione Corradini rispunta il cavallo di Troia del pedagogisrno progressista. Galli della Loggia coglie perfettamente nel segno quando parla di un’ideologia che concepisce la scuola non come luogo di istruzione ma come luogo di educazione. Educazione totale, anzi totalitaria, e poche cose sono antidemocratiche come il potere dei “sapienti”. Invece la grandezza di una società liberale sta nel lasciare ciascuno libero di scegliere la via che preferisce, dandogli lo strumento principe per tale scelta: la conoscenza…

Ma è una storia senza fine, perché il pedagogisrno di Stato esce dalla porta e rientra dalla finestra, con l’aiuto di una burocrazia ministeriale ormai plasmata nella sua ideologia progressista. È evidente che una siffatta corporazione, per restare in sella, ha bisogno di distruggere l’insegnante Maestro, di ridurlo a mero “facilitatore” che applica le teorie calate dall’alto… È drasticamente vietato parlare di programmi, di discipline, di idee. Si mira all’anni chilimento dell’autonomia professionale degli insegnanti…».

Giorgio De Rienzo (Corriere del 27 febbraio 2010): «È ormai tristemente noto lo stato di scarsa padronanza dell’italiano da parte dei giovani, anche nelle attuali scuole superiori: una povertà di lessico sconcertante, in pratica un abbandono della grammatica di base, della sintassi, persino l’incapacità di una corretta ortografia. Lo ha rilevato di recente un’indagine della Fondazione Agnelli. La portata di questo spaventoso deficit è stata confermata in questi giorni dall’Invalsi… Ma come ridare i fondamenti, e non solo quelli più banali di ortografìa, ma anche quelli della normativa di base grammaticale e quelli della struttura sintattica del discorso, a chi non li possiede?».

«Su quei banchi ci siamo tutti», scriveva Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 13 settembre 2009. «Da anni l’istruzione è il cuore malato dell’Italia inferma, è lo specchio del nostro declino. I due grandi punti di forza della nostra tradizione scolastica, la scuola elementare e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono… Se c’è un ambito cruciale per l’avvenire di noi tutti, dove si gioca il futuro dell’Italia, questa è l’istruzione. Di fronte a quella che è diventata una vera e propria emergenza nazionale, l’emergenza dell’istruzione, come anche il Presidente Napolitano ha più volte sottolineato, tutti gli schieramenti, e il Ministro per primo, dovrebbero sentirsi impegnati a un atteggiamento costruttivo e nei limiti del possibile collaborativo…».

Si può fare

Ma il ministro Gelmini non risponde ai messaggi che suonano come critica, seppure costruttiva. Forse i burocrati occhiuti del suo ministero oscurano gli articoli e censurano le sollecitazioni sgradite ai «potenti», i quali ancora insistono a rimaneggiare il loro castello di carte.

Mariastella è in attesa, sta vivendo un momento magico. Tuttavia gioverà alle generazioni future, e anche al suo bambino, un immediato sacrosanto impegno del governo a ricomporre i pezzi della nostra scuola di base. Si può fare, con uno sguardo al passato di eccellenza che non è così remoto. Si può fare, sfogliando le ricche pagine delle guide didattiche degli anni migliori, quelle che sviluppavano i programmi attuati nella scuola elementare fino al 1985: per esempio, gli otto ricchissimi tomi della Guida Atlas. «Insegno in prima, seconda, terza, quarta, quinta».

Si può fare, rileggendo i sussidiari e gli accurati testi di lettura di quegli anni, per esempio Oggi e Intorno al mondo, editi da Igda; e i sussidi come Il Giornalino, graditi agli scolaretti quanto apprezzati in famiglia, dai genitori e dai nonni che amavano seguire passo passo l’apprendimento dei loro bambini. Chi se ne intende sa che, per costruire basi solide nella scuola primaria, non è necessario ricercare architetture stravaganti. Occorrono semmai regole e concetti chiari. In analisi logica le definizioni fantasiose creano confusione, così come l’insiemistica non giova ai concetti basilari dell’aritmetica.

I pedagogisti-sapienti si rassegnino: la scuola non è cosa loro, appartiene a tutti noi e tutti chiediamo che vi si curi la conoscenza dei fondamentali della nostra lingua, della religione e della storia, della geografia, della matematica e delle scienze. Sono le basi della conoscenza che invogliano l’alunno a leggere, a capire, a scoprire. È la conoscenza che rende liberi e giova ai nostri bambini quanto ai bambini di altre nazioni: affinché tutti possano migliorare sé stessi per migliorare la nostra Italia.