L’uomo che fa i miliardi con le balle sul clima

Rajendra Pachauri

Rajendra Pachauri

il Giornale, 7 gennaio 2010

di Rino Cammilleri

Al grosso pubblico il nome di Rajendra Pachauri non dice nulla, eppure è l’uomo che sta costringendo il pianeta a tirare la cinghia per via del clima.

Nemmeno chi qui scrive ne avrebbe saputo se l’agenzia SviPop non gli avesse messo sotto il naso, tradotta da Alessandra Nucci, un’inchiesta del Daily Telegraph a firma di Christopher Booker e Richard North (20 dicembre u.s.).L’ex ingegnere ferroviario Pachauri è, infatti, presidente dell’Ipcc (la commissione Onu sui cambiamenti climatici) e principale ispiratore del recente vertice di Copenhagen.

La dettagliata inchiesta punta il dito su un conflitto di interessi di fronte al quale quello di Berlusconi fa ridere, un intreccio mondiale di affari i cui galattici guadagni in termini di migliaia di miliardi di dollari dipendono, guarda un po’, dalle politiche suggerite dall’Ipcc.

Si parla di banche, aziende dell’energia, fondi di investimento implicati nel mercato, in vorticosa crescita, delle emissioni e delle c.d. tecnologie sostenibili. E Pachauri è direttore o consigliere in almeno una ventina di enti leader in quella che ormai è una vera e propria industria del clima.

La cosa viene a galla il 15 dicembre 2009, quando una lettera aperta viene consegnata a tutte le delegazioni nazionali presenti a Copenhagen e allo stesso Pachauri. Firmata dal senatore australiano Stephen Fielding e dal britannico lord Christopher Monckton, due «scettici del clima» di tutto rispetto date le loro entrature politiche (anche a Washington).

Nella lettera, oltre a mettere in dubbio l’onestà scientifica del rapporto 2007 dell’Ipcc, si chiede l’allontanamento di Pachauri per palese conflitto di interessi. Pachauri è infatti direttore generale del Teri (The Energy research institute) di Delhi, nato dal Tata Group, massimo impero affaristico indiano (acciaio, auto, energia, chimica, telecomunicazioni, assicurazioni; possiede anche la principale acciaieria inglese nonché Jaguar e Land Rover).

Il Tata ha peso anche politico in India, tant’è che lo spazio per le sue miniere di ferro e acciaierie è stato trovato sloggiando centinaia di migliaia di tribali dell’Orissa e dello Jarkhand. Sarà un caso, ma i pogrom induisti contro i cristiani sono avvenuti proprio da quelle parti (il cristianesimo si diffonde a macchia d’olio proprio fra i tribali, l’ultimo gradino della società indiana; si tratta di gente che, grazie alle scuole cristiane, ha imparato a difendere i propri diritti, cosa che disturba non poco quanti erano abituati da sempre a sfruttarli).

Pachauri, che oggi lotta contro i combustibili fossili, fino al 2003 era direttore dell’immane India Oil; due anni dopo fondava la texana GloriOil, specializzata nello spremere fino all’ultima goccia pozzi petroliferi dati per esauriti. Nel 1997 diventa uno dei vicepresidenti dell’Ipcc e la Teri comincia ad allargarsi alle tecnologie rinnovabili e/o sostenibili, mentre il Tata Group investe nell’eolico.

La Teri ha filiali in tutto il mondo. Il ramo europeo, base Londra, porta avanti un progetto sulle bioenergie finanziato dalla Ue. Un altro progetto studia il modo in cui le assicurazioni indiane (tra cui la Tata) possano trarre profitto dai rischi legati ai cambiamenti climatici. Pachauri presiede anche una non-profit (sede a Washington, a metà strada tra Casa Bianca e Campidoglio) il cui scopo dichiarato è fare lobbying riguardo alle decisioni Usa sui problemi energetici e ambientali del terzomondo; finanziatori: Onu, governo Usa e suoi appaltatori della difesa, Amoco (petrolio), Monsanto (ogm), Wwf (la cui cassa è riempita anche dalla Ue), eccetera.

Ancora: la Tata indiana fa affari col c.d. «carbon trading» (mercato mondiale compravendita diritti di emissioni Co2), gran parte del quale è gestito dall’Onu ai sensi del famigerato Protocollo di Kyoto. E Pachauri fa parte del Consiglio della Borsa del Clima di Chicago, la maggiore borsa di scambi di diritti di emissioni. Dal 2007 siede anche nel Consiglio della Siderian, sede a San Francisco, specializzata in «tecnologie sostenibili».

Nel 2008 eccolo nel Consiglio per l’energia rinnovabile e sostenibile del Credit Suisse e della Rockefeller Foundation. Ma non è finita: entra nel Consiglio della Banca Nordic Glitnir quando questa lancia un Fondo per il Futuro Sostenibile; diventa presidente del Fondo per le infrastrutture sostenibili dell’Indonesia, direttore dell’International risk governance council di Ginevra che promuove le «bio-energie»; nel 2009 è «consigliere strategico» del Fondo di investimenti Pegasus (New York) nonché presidente del Consiglio dell’Asian development bank.

Tutto qui? Macché: capo dell’Istituto per il clima e l’energia dell’Università di Yale, membro del Consiglio sul cambiamento climatico della Deutsche Bank, direttore dell’Istituto giapponese per le Strategie globali sull’ambiente. Fino a poco tempo fa era pure consigliere della Toyota e delle ferrovie francesi. In India è, naturalmente, una star: occupa posizioni accademiche (ventidue libri al suo attivo) e in vari organismi governativi, tra cui la Consulta economica del premier.

Poi, a Copenhagen, a bacchettare gli occidentali: più aiuti affinché i Paesi in via di sviluppo come l’India prendano la via «ecologica». E, come sappiamo (Sunday Times, 13 dicembre u.s.), la Tata indiana trasferisce una bella fetta di produzione in Orissa, guadagnando miliardi in «crediti alle emissioni» (da vendere a quei Paesi sviluppati che ne abbisognano per «coprire» ciò che «emettono» oltre il limite previsto dagli accordi internazionali).

Pachauri, nelle sue conferenze danesi, ha invitato a limitare i consumi di carne (gli animali «emettono» flatulenze al metano, compresi i 400 milioni di vacche sacre indiane), ad abolire il ghiaccio nei ristoranti e tassare (tramite contatore) l’aria condizionata nelle stanze d’albergo.

Ci si chiede: quant’è lo stipendio complessivo del pres. cons. dir. ing. Pachauri? Non si sa. Tace l’Onu, tace la Teri e pure la Tata. Ovviamente, la domanda numero uno rimane quella relativa al rapporto intercorrente tra tutte le sue cariche e il ruolo di spicco nell’Ipcc.

Già, perché la Teri è anche in lizza per un succoso appalto: il Kuwait ha da rimediare ai disastri inferti da Saddam nel 1991 ai campi petroliferi. Il costo è a carico dell’Onu, che già due volte ha firmato contratti con la Teri. La quale è anche partner della Ue in una dozzina di progetti miranti a contenere quel «riscaldamento globale» predetto dal solito Ipcc.