Una vita fuori moda

suor Maria Gloria Riva Tempi, 16 luglio 2009 Anno 2009.

Un monastero contemplativo per educare i fedeli non alla solidarietà ma alla bellezza. L’esperienza della hippy diventata badessa

di Fabio Cavallari

Nel cuore del Montefeltro, in un antico complesso monastico di origine francescana, è nata una comunità monastica dedita all’adorazione eucaristica. Voto di castità, povertà ed obbedienza secondo la regola di Sant’Agostino. Parole che sembrano arrivare da tempi remoti a sfidare (scandalizzare?) il mondo contemporaneo.

Il 31 marzo scorso la comunità formata da quattro sorelle e una oblata che osservano la clausura costituzionale ha ricevuto l’approvazione diocesana con decreto come associazione pubblica di fedeli, in vista di diventare monastero sui juris.

Educare le persone all’adorazione e diffondere la passione per la bellezza che salva, è la missione dell’istituto. La madre superiora è suor Maria Gloria Riva, brianzola, esperta d’arte e d’ebraismo, con alle spalle ventitré anni di clausura papale (cioè rigida e senza alcuna forma di apostolato) al monastero di Monza. Proprio nel centro monzese suor Gloria ha iniziato la sua esperienza educativa con i laici che venivano in visita.

«Inizialmente – spiega la badessa – trovai il compito molto arduo, vedevo che i fedeli avevano grandi difficoltà a comprendere la grammatica biblica, altamente simbolica, ricorsi perciò all’ausilio delle opere d’arte di grandi artisti, accorgendomi di riuscire così a coinvolgere moltissimo le persone. Si creò un vero e proprio movimento laicale attorno al monastero con persone che arrivavano da tutta Italia. La mia collaborazione al sito CulturaCattolica.it e la pubblicazione da parte della san Paolo delle mie catechesi di arte fecero il resto: l’esperienza necessitava di una situazione più adeguata, una visibilità e spazi differenti da quelli caratteristici di un istituto totalmente contemplativo».

L’obiettivo della comunità è educare i fedeli alla preghiera di adorazione del Santissimo e alla contemplazione della bellezza. Non è un controsenso dedicarsi alla vita contemplativa in un mondo pieno d’ingiustizia?

Questa è una posizione ideologica. Basta andare davvero in mezzo ai poveri per capire quanto sono concretamente attenti alla poesia della vita. È il gusto per la bellezza che eleva l’uomo e questo è vero anche a prescindere dalle condizioni materiali di esistenza. L’uomo integrale non è l’uomo sazio: può essere, al contrario, colui che pur avendo fame, ha mantenuto fede alla dignità della sua persona. La bellezza è la via umile al Mistero perché capace di parlare a tutti. In essa si incontrano anche coloro che a Dio non avevano mai pensato.

Trovo davvero ipocrita e anche un po’ presuntuoso continuare a riempirsi la bocca dello scandalo della condizione dei bambini del Terzo mondo. Questo moralismo è inutile e improduttivo. Ripetere che ci sono creature che muoiono in Africa lascia il tempo che trova: il vero dramma è quello di non riuscire a guardare la nostra realtà!

Tutti noi uscendo di casa incontriamo da un lato il benestante, dall’altra l’extracomunitario ed è questa contraddizione che dobbiamo affrontare. Non ho scelto io di nascere in una benestante famiglia brianzola: mi ci sono trovata. È qui che si gioca la mia vita. Quando i missionari decidono di andare in Africa imparano a relazionarsi e a comprendere quelle situazioni. Lì, in mezzo a quelle persone, parlano di Dio e si addentrano nell’esperienza umana del luogo. Io devo parlare di Dio a chi ha tutto ma ha perso il senso della vita.

Da dove nasce questo tipo di moralismo così diffuso oggi anche nel mondo cattolico?

Il moralismo nasce da un’insicurezza, dalla mancanza di un fondamento identitario forte. Questa assenza produce una falsa affezione alla struttura, all’ideologia o al buonismo. Di fatto, l’uomo si aggrappa a qualcosa che supporti la sua deficienza. Quando non sai chi sei, per colmare il vuoto nasce l’esigenza di appartenere a qualcosa. Ma se questa appartenenza non scaturisce da una esperienza reale, dentro uno sguardo, si finisce con imboccare la via ideologica.

Lei prima di entrare in monastero ha frequentato anche il mondo della politica e degli hippy. È una convertita anche lei?

La conversione per me è un evento straordinario se corrisponde a una fedeltà nel modo di vedere. Nelle mie scelte giovanili, come quella di aderire a un gruppo di hippy, cercavo un’autenticità di vita, tuttavia quando ho capito che quell’appartenenza snaturava i miei desideri, ho capito anche che quella non era la strada. Ho seguitato a cercare su vari fronti scegliendo alla fin fine, quelle cose che sembravano corrispondere, sino in fondo, all’esigenza della mia ricerca.

Non ho cambiato la mia personalità per aderire a qualcosa “diverso” da me. In un certo qual modo è la stessa logica che mi ha portato ad uscire dal monastero di Monza. Ho sempre cercato di trasmettere alle persone la verità che avevo incontrato, attraverso gli strumenti che più ritenevo efficaci. Non ho fondato il monastero di Pietrarubbia perché penso di aver sbagliato. Anzi, io sono grata per l’esperienza fatta in quei ventitré anni dentro le mura di Monza. Non sarei quella che sono, senza il passato che ho vissuto.

A Pietrarubbia consentite ai fedeli di partecipare alle vostre funzioni liturgiche o per turni di adorazione eucaristica e saltuariamente per momenti di ritiro personale. Ma chi sono le persone che vengono da voi?

Ci interessano tutte le persone spinte qui da una ricerca personale, non dalla moda. Uomini e donne che, magari anche vivendo dentro uno stato di compromissione, di confusione o di devianza, desiderano la verità.

Lei parla di ricerca dell’autenticità e della verità. Non di Dio…

Infatti. A me non interessa che uno sappia esattamente che dentro questi due termini c’è Dio. Lo so io e mi basta