L’Immigrazione elemento di strategia indiretta

GAttilanosis Rivista italiana di intelligence n. 2-2009

Dall’influenza economica al rischio jihad

Rilievo economico e rilievo strategico del fenomeno immigrazione. Un’analisi e, al contempo, un avvertimento da tenere presente nell’esaminare come i flussi di popolazione possano essere elementi essenziali di una strategia indiretta a carattere economico e geopolitico. È un’ottica, questa, sicuramente originale per guardare ad un tema sul quale è già stato detto di tutto e di più.

di Marco Giaconi

A parte i dati Istat, la Caritas e Migrantes verificano l’esistenza in Italia, in tutto il 2008, di 3.800.000-4.000.000 immigrati regolari, su una popolazione di 59.619.290 cittadini italiani (1). Il che implica che gli immigrati regolari siano il 6,7% della popolazione, lo 0,7% in più della coeva media europea. La prima collettività che si è raddoppiata in circa due anni, è quella rumena, con oltre un milione di presenze regolarizzate a tutto il 2008, seguita da quella albanese con 402.000 immigrati e da quella marocchina con 366.000 soggetti.

La stima del gettito da parte del sistema dell’immigrazione riguarda soprattutto l’Irpef, con oltre 3 miliardi di euro, l’Ici con 10.536.000 euro, e le altre imposte catastali e comunali, per un totale di entrate di 3.749.371.550 euro.

Ma la questione che qui si intende porre non riguarda tanto l’aspetto strettamente economico e fiscale dell’immigrazione, quanto il rilievo strategico del fenomeno. Si tratta di vedere come i flussi di popolazione infra ed extra continentali possano essere elementi essenziali di una strategia indiretta a carattere economico e geopolitico.

Come è noto, la teoria di Liddell Hart definisce la strategia indiretta come l’insieme di attività utilizzate nel piegare la volontà dell’avversario senza distruggerlo, colpendo le fabbriche, il morale del nemico, le sue reti di comunicazione (2).

Qui, naturalmente, non si tratta di studiare gli aspetti distruttivi della indirect strategy nel sistema dei flussi migratori, ma piuttosto di utilizzare questo concetto per elaborare una Strategià Globale della immigrazione, legale o illegale, osservandone i suoi effetti a lungo termine, le trasformazioni che induce negli apparati produttivi dei Paesi ospiti, gli effetti sulle loro future attività di politica estera, le modifiche che si producono nei modelli di vita e nelle identità culturali e nelle strutture politiche di rappresentanza degli Stati che ricevono le maggiori quote dì immigrazione dai Paesi in via di sviluppo e dal Terzo Mondo.

Non è infatti un caso che la prima ondata di immigrazione raggiunga l’Italia negli anni ’80 dopo lo shock petrolifero del 1973-74, quando i Paesi del Nord Europa e la Francia chiusero le frontiere alle loro tradizionali aree di immigrazione. Ovvero: una crisi da aumento dei prezzi petroliferi genera un effetto da stagflazione, abbassa il tasso dì crescita, aumenta il livello dei prezzi e, in linea di principio, il tasso di inflazione(3).

Quindi, la gestione dell’immigrazione si inscrive, almeno all’inizio, nel controllo dei flussi verso i Paesi concorrenti della medesima area economica, al fine di contenere il tasso di disoccupazione e diminuire il costo dell’integrazione degli immigrati e i carichi sul welfare nazionale. Infine, vi è un aspetto squisitamente strategico delle politiche di flusso degli emigranti anche se vediamo le scelte geoeconomiche dei Paesi esportatori di manodopera.

Infatti, da parte dei Paesi in via di sviluppo, diminuisce la pressione demografica, con evidente sollievo dei conti pubblici nazionali, diminuisce la quota di masse pericolose (4) presenti nel Paese di origine e, infine, permette il trasferimento sulle economie dei Paesi sviluppati di quella quota di sovrappopolazione relativa dei Paesi in via di sviluppo che, se mantenuta anche con sistemi da “dittatura della ciotola” (5), risulterebbe tale da bloccare ogni tipo di decollo economico, sia statalista che neoliberale (6).

Quindi, se poniamo K1 come quota ottimale di popolazione in età lavorativa per la crescita autopropulsiva in un paese P, allora la quota di emigrazione potenziale Em sarà Em> = K1

Si ricordi, inoltre, che lo shock petrolifero del 1973-74 era stato organizzato, con un accordo tra Anwar el Sadat e il Re saudita, per “punire” i Paesi occidentali che si erano schierati al fianco di Israele nella guerra dello Yom Kippur e creare un meccanismo di dipendenza dal petrolio con la costituzione del cartello OPEC (7).

Quindi, se compariamo la popolazione ad un bene strategico come il petrolio, il che può essere paradossale ma logicamente funziona, allora la strategia ottimale per i Paesi produttori di manodopera a basso prezzo sarà quella di operare con una strategia quasi-OPEC che coniughi fasi di apertura e di favore ad una emigrazione di massa a momenti in cui l’emigrazione viene fortemente razionata, ma in una fase in cui i sistemi produttivi dei Paesi di arrivo dei flussi migratori si sono già adattati al prezzo, alla tipologia, alla quantità e alla diffusione della immigrazione già stabilizzatasi.

Sia in fasi di espansione del mercato della manodopera che in quelle di contingentamento, i Paesi esportatori sperimentano una condizione che nella Teoria dei Giochi è di tipo win-win: chi invia immigrati diminuisce i costi sociali e politici della sua sovrappopolazione relativa e, quindi, aumenta indirettamente sia il reddito medio che la produttività del suo lavoro interno; mentre, nelle fasi di contingentamento della migrazione i Paesi di origine vedono crescere il costo del lavoro nei Paesi sviluppati e, quindi, possono intaccare, con i loro prodotti a basso prezzo, le quote di mercato raggiunte dai Paesi di arrivo dei migranti che, peraltro, rimangono obbligati a ricevere, in futuro, altre quote di emigrazione.

Una politica di cartellizzazione politica della migrazione, affine a quella del petrolio e delle materie prime, che trasferisce all’estero la propria riserva di manodopera, mentre costringe di fatto i Paesi riceventi a costi di produzione, dati i salari medi (dei migranti regolari o irregolari qui poco importa) a permanere in filiere produttive a bassa produttività, che verranno prossimamente attaccate o sostituite dai Paesi Terzi in fase di industrializzazione. La gestione strategica dell’emigrazione, da parte dei Paesi di origine, costringe i Paesi riceventi a permanere oltre il normale in settori industriali maturi o addirittura decotti, che sono i più facili da essere sostituiti nel mercato-mondo da parte dei Paesi Terzi in crescita.

La stessa forma logica vale per il sommerso, che è il sistema di integrazione illegale del lavoro immigrato clandestino e, talvolta, legalizzato. La forma ottima del sommerso, dal punto di vista strettamente economico (8), è quella che: a) fa accedere rapidamente i lavoratori migranti ad un salario qual-sivoglia, b) permette la massima elasticità della manodopera, che sostituisce la tecnologia in cui il “padrone” non investe, e) permette, oltre un certo limite, la sostenibilità delle sanzioni amministrative e, addirittura, penali all’illecito commesso dall’azienda “nera”. Una parte del sommerso si presenta anche, negli ultimi due anni, nella “economia flessibile”, dove proprio l’alta tecnologia facilita l’uscita dal sistema dei contratti della forza-lavoro sia legale che sommersa (9).

Ovvero: data la quota di capitali Dc, disponibile per ogni imprenditore, e Ts il costo del capitale impiegato, e Qt i costi non finanziari di produzione, ben più rilevanti in una economia “nera” e “grigia” di quanto non siano in una economia legale (si pensi solo alla pubblicità e alla distribuzione, per esempio) allora la scelta razionale la condizione in cui l’imprenditore L riesce a produrre una quota di reddito Rp tale per cui Rp > Dc+Ts+Qt/ Nm, dove Nm è il numero dei migranti attivi nella singola produzione. Il che implica che maggiore è il numero dei migranti per la stessa quota di monte-salari, maggiore è la quota di reddito Rp sia per unità di prodotto che nel totale dell’ output. E, quindi, anche in questo caso abbiamo una strategia win-win dalla parte dell’offerta di lavoro migrante lecito o illecito: maggiore la quantità di domanda di lavoro impiegata, maggiore sia l’utilità del lavoro del singolo migrante che quella dell’intera azienda nella quale è impiegato.

Inoltre, si ricordi che la rete del lavoro illecito dei migranti permette sia l’utilizzazione parziale del finanziamento lecito, da parte delle banche sia, soprattutto, l’utilizzo da parte dell’imprenditore della finanza “nera”, sia essa già riciclata che in fase di “sbiancamento”, che gli viene solitamente offerta dalle organizzazioni criminali che gli forniscono manodopera migrante o dalle strutture illecite che distribuiscono il prodotto delle sue aziende o che, magari, “proteggono” l’imprenditore dalle organizzazioni sindacali che potrebbero organizzare la manodopera e portarla verso la legalizzazione (10).

Quindi, l’impresa che opera tramite il lavoro migrante illegale è strutturalmente favorita, sul piano dell’access to credit, rispetto all’azienda che opera del tutto legalmente. Se poi assumiamo che l’economia criminale crea oggi una economia parallela, un PIL “nero”, pari a 725 miliardi di euro, pari al 41,23% del PIL del 2007 e che corrisponde a un totale di imposta evasa di 206 miliardi di euro (11). E, quindi, questo implica la creazione di un mercato favorevole per tutte le imprese che impieghino almeno un fattore di produzione illegale, sia esso il lavoro “nero” dei migranti, o il riciclaggio del denaro sporco, o l’utilizzo di reti di vendita illecite o di attività produttive esse stesse illecite.

Sul piano geopolitico, questo significa la possibilità, da parte di alcuni settori e di alcune aree geografiche, di essere integrate per il tramite geoeconomico nei sistemi legali e illegali di molti Paesi del Terzo Mondo o in via di sviluppo, che esternalizzano le loro reti criminali, acquisiscono i redditi “lavati” in Occidente delle loro attività illecite, permettono con le prime fasi del riciclaggio dei loro capitali in Italia e in Europa di finanziare le aziende che favoriscono l’assorbimento della loro manodopera e delle loro materie prime; infine, permettono la tutela criminale, sia tramite gangs italiane o europee o di provenienza straniera, di tutta la filiera illegale che è stata costituita all’estero.

Non si butta via niente: la criminalità strutturale viene esportata, produce reddito senza costi aggiuntivi per la sicurezza dei Paesi di origine, gestisce manodopera marginale esportata illegalmente o legalmente in Occidente, costringe il ciclo economico italiano o di altri Paesi UE a seguire le necessità dello sviluppo rapido e concorrenziale dei Paesi esportatori sia di strutture criminali che di manodopera eccedente e illegale (12). La criminalità transnazionale, che ha il suo asse nella gestione della immigrazione clandestina, tende a colonizzare geoeconomicamente le zone deboli della UE e a renderle omogenee alle necessità economiche, politiche, strategiche, dei Paesi di provenienza delle organizzazioni criminali.

Quindi, la gestione della immigrazione illegale da parte delle strutture illecite che la dirigono (13) permette una sorta di “colonizzazione al contrario” da parte dei Paesi Terzi, che acquisiscono con la esternalizzazione delle loro reti criminali i capitali aggiuntivi necessari, in un contesto di crisi economica globale, a gestire il take off, il “decollo” dei loro Paesi e a mantenere, con la collaterale esportazione delle “classi pericolose” e gli effetti redistributivi della diminuzione dell’esercito industriale di riserva, come lo chiamava Karl Marx (14), a limitare l’espansione industriale dei Paesi sviluppati restringendo e rendendo pericoloso il credito e a rendere sovrapponibili le filiere produttive dei Paesi meridionali dell’UE e quelle in costruzione dei Paesi Terzi.

Una integrazione a contrario da “debole a forte”, che avrà il suo corrispettivo politico nella progressiva penetrazione, secondo la dottrina di Abu Musab Al Suri, delle società europee per determinarne il progressivo depotenziamento rispetto al jihad della spada, secondo il criterio da lui espresso del nizam la tanzim, “sistema, non organizzazione”, una macchina operativa aperta a tutti i jihadisti che comporti o il terrorismo individualizzato, soprattutto in Occidente, oppure la gestione di massa dei “fronti aperti” (Afghanistan, Palestina, etc.) e, infine, le microstrutture molto organizzate e chiuse come l’Asbat Al Ansar libanese.

Un jihad delocalizzato e non verticista che potrebbe attivarsi nelle periferie dell’immigrazione di massa europea o nelle reti produttive paralegali dove la manodopera immigrata, legale o legalizzata, diviene maggioranza tra i lavoratori (15).

E, soprattutto, dove le strutture illegali che le forniscono e le gestiscono hanno la possibilità di controllare la concessione dei capitali agli imprenditori locali che li “assumono”. La criminalità organizzata vive in strutture a “ciclo chiuso” e, ogni situazione similare, permette un ottimo paretiano (16) per tutte le operazioni gestibili dalle strutture criminali. Il jihad delocalizzato comunque funzionerebbe come sostegno militante e strategico per la “sottomissione” geoeconomica delle aree occidentali, in linea con le ipotesi di Al Qa’ida dopo la sostanziale chiusura delle operazioni antijihadiste in Iraq (17).

Note

1) Cantas-Migrantes, Dossier Statistico 2008, XVIII Rapporto sull’Immigrazione, “Lungo le Strade del Futuro”, IDOS, Centro Studi e Ricerche Roma 2009.

2) Sir Basil Liddell Hart, Paride o il futuro della guerra, introduzione di Fabio Mini, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2007.

3) Nourìel Roubini and Brad Setzer, The Effect of the recent oil price shock on the U.S. and Global Economy, Stern School of Business, New York, 2004.

4) Louis Chevalier, Classi lavoratrici e Classi Operaie. Parigi nella Rivoluzione Industriale. Laterza. Bari 1976.

5) Ronald Wintrobe, The Political Economy of Dictatorship, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.

6) Walt W. Rostow, The take-off into self-sustained growth, “The Economic journal”, vol.66, n. 261, March 1956.

7) E. Griffin, B. Teece, OPEC behaviour and World oil Prices, Unwin Hyman, London 1982.

8) L”‘ottimo paretiano”, ovvero efficienza allocativa, si realizza quando non è possibile alcuna riformulazione della divisione del lavoro che migliori la condizione di una persona senza diminuire quella degli altri

9) Claudio Lucifera, Economia Sommersa e lavoro nero, Bologna, II Mulino, 2003

10) Marco Giaconi, Le Organizzazioni Criminali Internazionali, aspetti geostrategici e economici, Collana CeMiSS, Franco Angeli Editore, Milano 2001. V. Inoltro FINCEN Report 2008, Financial Crimes Enforcement’s network Report in www.fincen.gov.

11) EURISPES, Indagine sull’Economia Illegale, Roma 2007 e EURISPES Rapporto Italia 2008, Roma 2008.

12) Thierry Balzacq e Sergio Carrera, Security Versus Freedom? A Challenge for Europe’s Future, Farnham UK, 2006.

13) CoPaSiR, Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, La tratta di esseri umani e le sue implicazioni per la sicurezza della Repubblica, Roma, 29 aprile 2009.

14) Karl Marx, II Capitale, Libro I, sez. VII, cap. 23.3, Roma, Editori Riuniti, 1973.

15) Brynjar Lya, The Al Qaeda Strategist Abu Musa’b Al Suri: A profile, Norwegian Defense Research Establishment, Oslo 2006.

16) V. la definizione precedente

17) Brian Fishman (ed.) Bombers, Bank Accounts and Bleedout, Al Qa’ida’s road in and out of lraq, Combating Terrorism Center at West Point, Harmony project, december 2007