Prigionieri dell’eugenetica

Wanda Póltawska

Wanda Póltawska

Tempi 4 Maggio 2009

Sopravvissuta agli esperimenti medici nazisti, amica personale di Wojtyla, Wanda Póltawska riconosce nei sogni scientisti di oggi il delirio superomistico che sessant’anni fa eliminava i più deboli

di Lorenzo Fazzini

«Non basta parlare della bellezza della vita: bisogna parlare della santità della vita, perché la vita umana deve essere santa». Niente più che una bella frase, se non fosse che a pronunciarla è stata una “Versuchskaninche”, una cavia medica del lager nazista di Ravensbrück. «Se qualcuno mi svegliasse improvvisamente di notte e mi chiedesse chi sono, potrebbe succedere che risponda: “Shutzhaftling siebenundsiebzig null neun”. Questo è il mio numero in lingua tedesca: 7709. E per questo non c’è rimedio».

La vita di Wanda Póltawska sarebbe il sogno di qualsiasi regista cinematografico: nell’esistenza di donna polacca oggi 87enne, psichiatra, si concentrano alcune delle più drammatiche vicende del Novecento. Membro della Resistenza antinazista a Lublino, sua città natale, nel 1941, giovanissima scout cattolica, viene arrestata, imprigionata e torturata dalla Gestapo.

Wanda viene quindi spedita nel lager nei pressi di Berlino e qui, insieme ad un manipolo di altre compagne polacche, diventa cavia umana per efferati esperimenti medici delle Ss: subisce continue operazioni chirurgiche sugli arti che le lasciano non solo ferite nelle gambe ma, ancor di più, una cicatrice nell’anima.

Dopo la guerra diventa amica personale di Karol Wojtyla, conosciuto durante i suoi studi di medicina a Cracovia. È lui ad affidarla a padre Pio – e il miracolo avviene – quando una paralisi la colpisce negli anni Sessanta. In seguito sarà una stretta collaboratrice dell’allora arcivescovo di Cracovia: dal 1957, per 40 anni, direttrice dell’Istituto di teologia della famiglia alla Pontificia accademia teologica della città di Wojtyla, che la nomina membro del Pontificio consiglio per la famiglia e della Pontificia accademia per la vita.

Non rilascia mai interviste, Wanda Póltawska. «Mi dispiace» ci dice da casa sua, a Cracovia. Quello che aveva da dire l’ha raccontato in un libro drammatico, E ho paura dei miei sogni (Edizioni dell’Orso), scritto come terapia psicoanalitica, apposta per allontanare gli incubi che, tornata a casa, la tormentavano ogni notte (il libro è uscito in polacco nel 1961, già tradotto in inglese e solo recentemente in italiano).

A Tempi confida che è «sciocco e piuttosto insincero» ogni tentativo negazionista alla Mahmoud Ahmadinejad. E invita «gli italiani a vedere Katyn», il film-capolavoro di Andrzej Wajda sull’eccidio sovietico di ufficiali polacchi, «perché questo crimine è una cosa che deve essere ricordata». Come il dramma che la Póltawska porta come stimmate sulla sua pelle, cicatrici quali segni della pazzia superomistica di Hitler che pensava di rimodellare l’«umanità nuova».

«È dall’uomo che dipende cosa farà di se stesso ed è per questo che alla domanda su dove sia Dio io posso contrapporre un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?”. Non si può accusare Dio delle conseguenze dell’operare umano: quest’accusa la possono fare degli uomini ad altri uomini». Così afferma la Póltawska quando le si chiede conto della sua fede cristiana dentro l’orrore del lager.

Ricco di spunti è il suo intervento “Quando la morte non vince”, pubblicato in L’eclissi della bellezza. Genocidi e diritti umani, volume che raccoglie gli atti di un omonimo convegno organizzato tempo fa a Brescia e ora edito da Fede & Cultura (pp. 185, euro20). «Finché viviamo, la linea di demarcazione tra il bene ed il male non passa tra un uomo e l’altro, passa dentro ogni uomo. Puoi anche accorgerti che, lentamente, impercettibilmente, si stia spostando verso la bestialità, ma tu, uomo libero, puoi tendere consapevolmente all’eroismo, alla santità».

Proprio in forza della disumana esperienza di Ravensbrück la Póltawska ha da sempre portato avanti una causa pro-life politicamente scorretta, la lotta contro l’aborto. «Hess e i medici ginecologi: anche loro uccidono migliaia di persone, di bambini indifesi, ed essendo medici sanno bene che si tratta di esseri umani. Ma nessuno li giudica, nessuno li condanna. La legge degli uomini non difendeva e non difende i bambini».

Non ha timore di sembrare irriverente, questa anziana reduce dai nazisti, a lottare per la difesa della vita innocente in nome di quella dignità umana che ha visto calpestata dagli anfibi delle Ss. Alla domanda di Tempi sul perché sia una così strenua nemica dell’aborto risponde: «Sono cattolica e ho visto dei bambini buttati nelle fiamme dai tedeschi».

Wanda ricorda un episodio per lei illuminante: «Durante un congresso in Austria un medico disse di avere una domanda da fare ai teologi. Aveva un problema di coscienza, poiché aveva in frigorifero tre embrioni congelati e non riusciva a trovare una candidata ad essere madre. Non potei resistere: “Lei, collega, ha già dimenticato Norimberga, perché ha questi bambini congelati?”.

Al processo di Norimberga Karl Gerardt, che aveva commissionato operazioni sperimentali sulle ragazze di Ravensbrück – e io sono tra queste – fu condannato a morte e la sentenza fu eseguita, mentre, dopo solo 50 anni, centinaia di medici effettuano impunemente esperimenti pseudo-medici su bambini indifesi. Che uomini sono? Sono diversi dalle Ss tedesche, e se sì, in che cosa? Uomini disumani, una medicina disumana, una mascolinità disumana, una femminilità disumana, semplicemente una umanità disumana: ma perché?».

«Buttavano i neonati nel fuoco»

Proprio di fronte all’orrore nazista è nata la vocazione pro-life di questa indomita testimone della bellezza della vita: «Io ho iniziato il mio lavoro per difendere la vita nel campo di concentramento. Nel campo, specialmente dopo l’insurrezione di Varsavia, erano state internate molte donne incinte.

I tedeschi non le facevano abortire, lasciavano che partorissero, poi buttavano i bambini nel fuoco. Io più volte ho dovuto assistere a questa scena. Allora tutte insieme ci siamo organizzate per salvare questi neonati e siamo riuscite a salvarne trenta. Devo dire che in seguito a questi fatti ho deciso di diventare medico».

Nel suo racconto autobiografico, intessuto di una drammaticità asciutta, con l’autrice quasi incapace di raccontare l’orrore che ha davanti agli occhi, la Póltawska non smentisce quella fede cattolica che tanto la contrassegna: «No, non odiavo nel modo più assoluto. Si trattava di qualcosa di completamente diverso: una enorme delusione, piuttosto, per il fatto che degli esseri umani potessero fare tutto quello a cui assistevo, che ci fossero degli esseri umani così. Non sentivo odio per nessuno, ma sentivo che il perdono poteva darlo solo Dio».