L’Europa, il sole di Apollo e il sole di Allâh.Una riflessione sul caso Gouguenheim

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 di Massimo Introvigne

Dopo che se ne sono occupati a lungo i giornali francesi – e anche qualcuno in Italia – resta ancora qualche cosa da dire sul caso di Sylvain Gouguenheim, il professore della prestigiosa Ècole Normale Supérieure di Lione contro il quale un numero crescente di suoi colleghi continua a reclamare una commissione d’inchiesta che indaghi se per caso il suo libro Aristote au Mont Saint-Michel. Les racines grecques de l’Europe chrétienne (Seuil, Parigi 2008), pubblicato nella storica collana L’Univers historique delle parigine Éditions du Seuil, non sia offensivo nei confronti dell’islam e dei musulmani, così da giustificare sanzioni nei confronti del docente ?

Forse resta solo una cosa da fare: leggere il libro. Si ha infatti la fastidiosa impressione che, come accade più spesso di quanto si creda, molti si agitino, prendano posizione e firmino petizioni senza aver letto affatto il volume di Gouguenheim, ma solo qualche recensione e qualche intervista favorevole o contraria.

Gouguenheim, illustre medievista con un impeccabile curriculum accademico, è certo uno studioso che non rifugge dalle controversie. Nel 1999 era già stato attaccato da un buon numero di suoi colleghi per avere scritto un libro – Les fausses Terreurs de l’an mil. Attente de la fin des temps ou approfondissement de la foi? (Picard, Parigi) – in cui ripeteva e approfondiva con nuovi argomenti quanto studiosi statunitensi avevano già dimostrato da tempo, e cioè che intorno all’anno 1000 non ci fu nessun panico e nessuna attesa socialmente rilevante della fine del mondo (semmai, ci furono fenomeni di risveglio devozionale e spirituale), mentre la relativa leggenda è scandalosamente ripetuta ai giorni nostri da una storiografia ideologica e da manuali scolastici che hanno semplicemente lo scopo di perpetuare un anticattolicesimo di maniera e un’immagine distorta dei presunti «secoli bui» del Medioevo.

Tuttavia, attaccare miti laicisti è certo pericoloso, ma se si toccano miti buonisti relativi all’islam il problema – come lo storico di Lione, oggetto di ripetute minacce di morte da parte di ultra-fondamentalisti islamici, sta sperimentando in queste settimane – rischia di trasformarsi da culturale in balistico.

Che cosa scrive, dunque, di tanto grave Gouguenheim in Aristote au Mont Saint-Michel? Il libro può essere diviso in due parti. La prima è opera di erudizione minuziosa, scritta secondo le più tradizionali convenzioni della storiografia, e non può che suscitare stupore la sua trasformazione in «segno di contraddizione» di cui hanno addirittura chiesto conto alla Francia governi di Paesi a maggioranza islamica.

Gouguenheim parte dal dato ovvio – oggi da alcuni contestato, ma ribadito con grande vigore da Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006 (che lo storico francese, peraltro, non cita neppure una volta nel suo libro) – secondo cui l’Europa così come la conosciamo è nata dall’incontro fra la spiritualità ebraica e cristiana della Bibbia e la filosofia greca. Come il cristianesimo si sia diffuso nell’attuale Europa non è oggetto del volume di Gouguenheim, che si occupa invece di un altro problema: come il cristianesimo latino ha acquisito e coltivato la conoscenza della filosofia greca?

La vulgata convenzionale, ripetuta da manuali universitari, libri di scuola per i licei, uomini politici e perfino documenti dell’Unione Europea suona più o meno così: nell’«età oscura» dell’Alto Medioevo l’Europa aveva perduto quasi completamente il contatto con i classici greci. Li ha riscoperti grazie all’islam che a partire soprattutto dall’epoca del califfato abbaside, dunque dal 751, si è occupato non solo di tradurre i testi della scienza, della medicina e della filosofia greca – in particolare quelli di Aristotele (384-322 a.C.) – ma li ha anche trasmessi all’Occidente cristiano.

Quando si parla di radici dell’Europa si cadrebbe dunque in un equivoco se s’insistesse tout court sulle radici greche, perché queste giungerebbero al sapere europeo attraverso l’islam, e si dovrebbe quindi, tra le matrici culturali del continente europeo, includere obbligatoriamente anche la matrice islamica.

Senonché, obietta Gouguenheim, in questa vulgata quasi tutto è falso. L’obiezione dei firmatari di petizioni contro lo storico di Lione secondo cui Gouguenheim non ha scoperto nulla di nuovo, e tutti gli elementi che riferisce, isolatamente considerati, erano già noti agli specialisti, si ritorce contro di loro. Se infatti non fa che ripetere fatti noti, perché Gouguenheim deve essere punito? O invece vi è un interesse politico a che i fatti rimangano noti a piccole cerchie di addetti ai lavori, mentre al grande pubblico è offerta la falsa vulgata islamofila?

Lo storico francese smonta tale vulgata punto per punto. Anzitutto, l’Alto Medioevo non è una «età oscura». Certo, la maggioranza dei cristiani in Occidente – come dei musulmani in Oriente – è analfabeta, e lo rimarrà ancora per molti secoli. Se però guardiamo alle élite, non mancano periodi di grande fioritura intellettuale, come il «rinascimento carolingio» alla corte di Carlo Magno (742?-814), il risveglio intorno all’anno 1000 che è culturale e non solo spirituale, e la grande fioritura delle scienze e delle arti nel XII secolo.

Questi risvegli culturali sono avvenuti a prescindere dalla Grecia? Niente affatto, risponde Gouguenheim: si tratta al contrario proprio dei frutti dell’incontro fra cristianesimo e sapere greco. Quest’ultimo era sì meno diffuso nell’Europa dell’Alto Medioevo di quanto non fosse nell’Impero Romano all’epoca della nascita di Gesù Cristo: ma non era mai veramente scomparso. Anzitutto, nell’Alto Medioevo troviamo un po’ dovunque comunità e anche monaci di lingua greca, che conservano non solo l’idioma ma anche la cultura della Grecia antica.

È noto il caso della Sicilia, dove una figura come il vescovo Gregorio di Agrigento (559-603?) ha un ruolo fondamentale nel conservare e trasmettere alcune opere di Aristotele. Ma se ne trovano in Calabria, a Salerno intorno alla celebre scuola di medicina, a Roma, tra Piacenza e Bobbio, in Francia, in Germania, in Irlanda, in Catalogna… A partire dal VII secolo si tratta in gran parte di una «circolazione forzata delle élite» (S. Gouguenheim, Aristote au Mont Saint Michel, p. 33): studiosi, artisti e monaci di lingua greca e siriaca si rifugiano in Occidente per sfuggire agli imperatori bizantini iconoclasti (cioè ostili al culto delle immagini) e ai conquistatori musulmani.

Le corti europee e i grandi centri di cultura possono tutti contare su monaci greci o che conoscono il greco. Già il padre di Carlo Magno, Pipino il Breve (714-768), scrive al Papa per chiedergli opere in greco – fra cui la Retorica di Aristotele –: segno evidente che dispone di qualcuno in grado di tradurle (cfr. ibid., p. 35). Né si deve dimenticare che i contatti dell’Europa latina con Bisanzio e l’Impero Romano d’Oriente, dove l’amore per la filosofia greca – pure oggetto talora di vive controversie – si è sempre conservato, non vengono mai meno completamente.

Si arriva così fino ai monaci del Mont Saint-Michel e in particolare a Giacomo da Venezia (†1145-1150 ca.), che non solo traducono dal greco al latino un numero considerevole di opere di Aristotele ma hanno un ruolo decisivo nella loro diffusione. Se di molte opere medioevali si conoscono solo due o tre manoscritti, ci sono 115 manoscritti della traduzione  di Giacomo da Venezia della Fisica di Aristotele e ben 289 della sua versione degli Analitici secondi dello stesso filosofo greco  (cfr. ibid., p. 113). Ancora san Tommaso d’Aquino (1225-1274) cita spesso Aristotele dalle traduzioni di Giacomo da Venezia, che certamente non sono perfette – ma nessuna traduzione antica e medioevale lo è.

Tutto questo lavoro si svolge prescindendo quasi completamente dagli apporti dei traduttori arabi. Ma anche riguardo a questi ultimi, insiste Gouguenheim, la vulgata corrente è equivoca. Sfrutta la confusione nel grande pubblico fra «arabo» e «musulmano». La maggioranza dei musulmani non sono arabi, e non tutti gli arabi sono musulmani. Anzi, all’epoca abbaside in cui inizia la traduzione in Oriente delle opere del sapere greco e di Aristotele una buona metà di coloro che parlano arabo è ancora cristiana. Le traduzioni avvengono in genere prima dal greco al siriaco, poi dal siriaco all’arabo.

Benché non manchino traduttori musulmani, la stragrande maggioranza degli autori delle traduzioni di testi greci in siriaco e in arabo è cristiana. Queste traduzioni – che nel secolo XI sono ampiamente utilizzate da cristiani europei dopo la riconquista di Toledo nel 1085, e che occasionalmente sono conosciute e consultate in Europa anche prima – non sono migliori di quelle che erano state predisposte in Occidente, per il buon motivo che il doppio passaggio dal greco al siriaco e dal siriaco all’arabo coinvolge due lingue semitiche con un vocabolario e una logica interna completamente diverse dal greco, ed è ovviamente più difficoltoso della transizione dal greco al latino.

Vi è inoltre da considerare che le autorità dell’islam vietano la traduzione di testi e passaggi che considerano incompatibili con la loro fede, così che per esempio l’Etica nicomachea e la Politica di Aristotele restano costantemente escluse dal corpus tradotto in lingua araba.

Gouguenheim conclude la prima parte del suo volume affermando che Aristotele non è «ritornato» nell’Europa occidentale dopo i «secoli bui» dell’Alto Medioevo: anzitutto, l’intera nozione di «secoli bui» è propagandistica e imprecisa; in secondo luogo, Aristotele non era mai veramente andato via.

La sua conoscenza passa per la gran parte da vie che non coinvolgono le traduzioni arabe. Quando sono usate – per alcune opere effettivamente non tradotte in precedenza in latino – traduzioni che vengono dal mondo arabo, queste sono state effettuate in maggioranza da traduttori cristiani. Infine l’islam non si è certo preoccupato di «donare» il sapere greco all’Europa cristiana. Semmai, sono stati gli europei ad andare a cercare nel mondo islamico quelle opere greche che non avevano e che pensavano di poter utilizzare: un fenomeno la cui portata, secondo lo storico francese, non va comunque esagerata.

Qui inizia la seconda parte del discorso di Gouguenheim, che non è a sua volta del tutto nuova: per esempio la si ritrova, in chiave sociologica, in diverse opere del maggiore sociologo delle religioni vivente, Rodney Stark, che non è mai citato in Aristote au Mont Saint Michel e che suppongo ignoto anche alla maggior parte dei contraddittori dello storico di Lione, dal momento che nessuna sua opera è mai stata tradotta in lingua francese e che per un certo tipo d’intellettuale transalpino (non per tutti, evidentemente) quello che non è pubblicato in francese – tanto più se scritto da accademici statunitensi – semplicemente non esiste.

Gouguenheim spiega che occorre accostarsi con molta cautela all’idea di un «razionalismo musulmano» e di un «aristotelismo islamico» perché le correnti dominanti della teologia coranica hanno di fatto impedito un incontro fra fede e ragione simile a quello che si è prodotto nell’Europa medievale cristiana. La stessa nozione di Dio musulmana – con le sue caratteristiche volontariste, e con l’idea che principi come quello di causalità in qualche modo rischino di mettere in discussione la sovrana volontà di Dio, che può sempre cambiare l’ordine e le leggi del mondo a suo piacimento – rende, se non impossibile, certo molto difficile una filosofia e una scienza nel senso occidentale di questi termini.

Gouguenheim studia Avicenna (980-1037),  Averroé (1126-1198) – le cui opere furono peraltro bruciate e i discepoli perseguitati – e la scuola teologica mu’tazilita (pressoché sparita alla fine del XII secolo) per mostrare come anche questi autori e correnti dette talora «razionaliste» concepiscono comunque, condizionati come sono dalla teologia islamica di partenza, il rapporto fra fede e ragione in un modo che è solo vagamente analogo alla sintesi coeva dell’Europa cristiana.

Certo, se manca la scienza vero nomine non manca all’islam la tecnologia ed è proprio nel campo degli scritti tecnici – per esempio, nel settore dell’ottica – che i musulmani effettivamente utilizzano alcune opere della Grecia antica di cui l’Occidente aveva perso un ricordo che ritroverà tramite le traduzioni arabe.

Nell’ultimo capitolo, dedicato ai Problemi di civiltà (pp. 167-196), Gouguenheim critica particolarmente le tesi dello storico e antropologo belga (oggi docente alla Johns Hopkins University di Baltimora, nel Maryland) Marcel Detienne, secondo cui qualunque riferimento alle «radici», all’«identità» e all’«eredità greca» dell’Europa genererebbe necessariamente etnocentrismo, xenofobia e razzismo.

A prescindere dalla valenza politica delle sue tesi, Detienne – che si presenta consapevolmente come erede del 1968 e dello strutturalismo – afferma che non esiste nessun «miracolo greco» e che l’idea secondo cui la Grecia abbia avuto una cultura superiore, per esempio, all’Etiopia precristiana o alla Polinesia è alle radici del «conservatorismo» internazionale.

Per esempio, i miti polinesiani sugli dei sarebbero superiori alla mitologia greca e le tribù ochollo dell’Etiopia avrebbero avuto una pratica antichissima di assemblee elettive che potrebbe essere paragonata alla democrazia ateniese a tutto favore degli ochollo. Il problema, ribatte Gouguenheim, è che né gli ochollo né i polinesiani, a differenza dei greci, hanno proposto una «riflessione scritta» (ibid., p. 174) o una auto-analisi problematica delle loro pratiche e dei loro miti, e neppure a fortiori tali mitologie e società sono state conosciute dall’Europa o la hanno influenzata.

Qui sta il ruolo storico e anche la grandezza della Grecia, mentre le tesi di Detienne (che pure vanta una carriera di tutto rispetto come grecista) si risolvono in una delle tante apologie del relativismo dominante.

Ha dato particolare fastidio ai recensori un’appendice dedicata all’orientalista tedesca Sigrid Hunke (1913-1999), nazista non pentita e autrice di un libro del 1960 – tradotto in francese nel 1963 come Le Soleil d’Allah brille sur l’Occident (Albin Michel, Parigi) – di cui Gouguenheim nota la grande influenza, tenuta comprensibilmente ben nascosta in Francia (ma non nei paesi arabi), per la costruzione della vulgata oggi dominante.

No, risponde Gouguenheim, è piuttosto «il sole di Apollo» (op. cit., p. 197) – che tra parentesi non è un dio orientale «prestato» alla Grecia ma un dio genuinamente greco – ad avere illuminato l’Occidente dopo e grazie all’incontro con il cristianesimo, e nei limiti di questo incontro.

Tutto è dunque condivisibile nel libro di Gouguenheim? Naturalmente no, come è normale che sia in un’opera di carattere scientifico. Per quanto mi riguarda, non condivido la critica agli intellettuali musulmani del Medioevo che avrebbero tradito la loro vocazione quando – messi di fronte alla necessità di scegliere fra la loro fede e Aristotele – hanno scelto la fede. Qui Gouguenheim vuole provare troppo, perché questo non è un atteggiamento «musulmano» ma è tipico di qualunque persona religiosa.

Certamente anche i cristiani, quando si sono trovati di fronte a tesi di Aristotele che non erano suscettibile di un’interpretazione cristiana, le hanno rifiutate, senza per questo pensare di abdicare alla ragione (anzi, hanno giudicato certe idee di Aristotele non ragionevoli).

Tra il «sole di Apollo» e il sole della storia degli uomini che è Gesù Cristo il cristiano, se deve scegliere, non può che scegliere Gesù Cristo. L’incontro fra la Grecia e la cristianità di cui ha parlato Benedetto XVI a Ratisbona non è, in questo senso, né una «scelta» né un’adesione acritica alla filosofia greca ma un continuo confronto e dialogo. Un dialogo di cui ora sappiamo – grazie a Gouguenheim – che deve un po’ meno alla trasmissione di sapere greco tramite l’islam di quanto spesso ci è stato raccontato.

Che questa semplice tesi esponga uno storico a rischi per la sua carriera accademica e per la sua incolumità fisica è un segno che i tempi in cui ci troviamo a vivere non sono propriamente tempi normali. Che molti storici e intellettuali non difendano Gouguenheim ma firmino petizioni contro di lui – magari saldando vecchi conti che risalgono alla polemica sull’anno 1000 – dimostra come la dichiarata avversione al «conservatorismo» mascheri spesso un timore reverenziale nei confronti di qualunque accostamento critico all’islam. Dietro le belle parole sul multiculturalismo e l’Europa «mediterranea», si tratta solo della consueta paura di avere coraggio.

(A.C. Valdera)