Lettera a un pensiero assassino

Umberto Veronesi

Umberto Veronesi

Il Foglio, 25 gennaio 2008

Il prof. Veronesi ha scritto a chiare lettere che abbiamo il diritto di scegliere, non la salute il che sarebbe ovvio, ma l’eliminazione sistematica del malato Scegliere, selezionare, decimare: nel seno di una donna o in vitro fa lo stesso

di Giuliano Ferrara

Il professor Umberto Veronesi ha fama di persona davvero squisita. Tanti figli, una faccia e un portamento eleganti. E’ un grande medico, che ha curato tanta gente e ha organizzato centri di cura specialistici del cancro. E’ stato anche con successo un politico di sinistra, progressista, e ha ricoperto fra gli applausi la carica di ministro delia Salute. Ha un encomiabile sesto senso americano per il business, il fund raising, il concerto tra scienza e marketing, e infatti anima pubblicazioni divulgative di medicina & salute e talk show umanitari e trust industriali farmaceutici con eguale levità e autorevolezza. Piace alla brava e stilosa Natalia Aspesi, che in lui riconosce il meglio della nostra classe dirigente. E ho detto tutto.

Ma non ho detto abbastanza. Il professor Veronesi ha studiato il cancro, ed è uno che riesce in molti casi a ritardare la morte degli esseri umani, il che non è poco, anzi è moltissimo. Ma non è forte in filosofia, in senso umanitario, in logica: tutte cose che intanto, in attesa della morte, aiutano a vivere questa vita, a guardarsi allo specchio senza sputarsi in faccia, a saper distinguere bene e male con qualche approssimazione, a fare merenda senza che ti vada di traverso.

La sua inconsapevolezza di ciò che per gli uomini e le donne possono significare la speranza, la carità, l’amore disinteressato e non utilitaristico, la distinzione tra un desiderio e un diritto, tra un figlio atteso e un figlio fabbricato a spese di un altro figlio, tutto questo suo non-sapere lo apparenta molto all’homo compensator di Odo Marquard, a quella figura moderna di umanità che evade nell’inimputabilità, che ha deciso di godersi la propria disperazione e il proprio nichilismo nella bambagia del “tutto è tecnicamente possibile” e del “tutto è tecnicamente e dunque moralmente lecito”.

Senza che lui lo sappia, e dunque senza che ne sia minimamente responsabile, il pensiero del professor Veronesi è un pensiero assassino.

Il fondamento logico e addirittura il suo sentimento genuino, fresco, sorgivo, dei temi della vita e della morte è infatti in questo assioma: padrone di sé, l’uomo ha il diritto di morire e il diritto di dare la morte per migliorare la sua vita. Come ha visto bene chi lo ha letto nel corso del tempo e ieri nella prima pagina di Repubblica, il professore non la prende alla lontana, va diritto allo scopo.

Il suo problema, e in questo è sincero invece che ipocrita, non è abolire il disgustoso accanimento terapeutico sugli infermi senza speranza apprezzabile di guarigione, non è spingere la ricerca a metterci in grado di esaminare un embrione di essere umano per curarlo: questi sono protocolli che un Veronesi lascia a chi ha tempo da perdere, alla chiesa, agli atei devoti, a fior di scienziati perdigiorno come Testart o Chargaff che hanno fatto della battaglia contro le finezze postmoderne dell’eugenetica il cuore delle loro vite inutili.

Per piacere e piacersi nella Milano affluente della moda e del modernismo, bisogna fare altro. Bisogna offrire una ragionevole piattaforma laica, progressista e scientificamente fondata a coloro che amano la morte più della vita. Al binladenismo strisciante della buona società occidentale.

Il professore dice questo che ora segue, e lo trova giusto, santo, indiscutibile. Dice che il Parlamento italiano ha approvato una legge sulla fecondazione artificiale in quindici, venti anni, con un compromesso finale tra due culture e due visioni dell’esistenza, ma questo non conta, perché il Parlamento della legge 40 ha mancato di allinearci all’Europa olandese del protocollo di Groningen, del “tutto si può” compresa l’eutanasia infantile.

Non conta nemmeno il fatto che contro questa legge, in nome delle idee del professor Veronesi e sotto la sua regia morale, si sia scatenato un putiferio referendario: la legge era immorale, medievale, barbarica, crudele, e bisognava abrogarla in nome della salute delle donne. Non conta nemmeno che molte donne abbiano obiettato che non è l’incorporazione del loro corpo nella macchina della tecnoscienza la via per tutelare la loro salute.

Non conta che fior di laici e di cattolici si siano battuti per aprire un dialogo su quella legge che, pur essendo per loro imperfetta, era da considerare come un sano compromesso laico. Non conta che le idee del professore abbiano raccolto nelle urne un povero 22 per cento di “sì”, e il resto andò in “no” e in “astensione” anche molto motivata. La sovranità non conta. E il fatto che un pezzo della società, magari quello meno affluente, ritenga alcuni principi difficilmente negoziabili o non negoziabili, anche questo non conta.

Conta invece il magistrato di turno. Che risolve a modo suo la questione dei diritti in assenza di una seria e umana definizione del diritto a nascere e a vivere. Perché facciamo la moratoria contro la pena di morte ma non siamo capaci di stabilire, moratoria più importante e più alta in un mondo che fa strage di innocenti, che la vita comincia dal concepimento.

Cosa che tutti sanno e su cui tutti fingono di elaborare complicati e convenienti sofismi in nome della modernità, e talvolta (nei casi più squallidi) perfino in nome della maternità. E il magistrato di turno, il Tar o non so che cosa, decide che il vero interprete della Costituzione e della legge e delle linee guida di interpretazione della legge non è il popolo sovrano, non è il potere legislativo, ma è il medico collettivo, il guru ideologico collettivo, il desiderio collettivo che si fa diritto collettivo, il giornalista collettivo, in una parola il pensiero soppressivo e assassino che il professor Veronesi, persona amabile e vitale, il contrario di un assassino, sceglie di impersonare.

Non ho mai letto un articolo in cui sia più chiara la seguente filosofia dell’esistenza propria e del non essere altrui, della urgenza di soddisfare i desideri propri nell’offesa all’identità altrui: un capolavoro di illiberalismo che farebbe rivoltare nella tomba John Locke e Isaiah Berlin, mascherato da progressismo liberale. Veronesi ha infatti scritto a chiare lettere che abbiamo il diritto di scegliere, non la salute il che sarebbe ovvio, ma l’eliminazione sistematica del malato.

Scegliere, selezionare, decimare: nel seno di una donna o in vitro fa lo stesso per lui. E dopo quello che è successo a Careggi, dopo la nascita sconveniente di Paolo Tommaso l’abortito vivo, dopo quello che succede in molti altri centri italiani di pratica abortiva; dopo la discussione che anche il ministro della Salute di questo governo progressista ha accettato di condurre sui bambini abortiti vivi oltre la ventiduesima settimana di gestazione, dopo, tutto questo il professore ci parla dell’aborto terapeutico, per scongiurarlo attraverso la selezione della razza, come di un dramma visto da una sola parte, senza un pensiero per la parte debole.

La legge 40 è fondata sull’idea liberale, progressista, civile, di un bilanciamento dei diritti del concepito e di quelli della madre, ma la scelta di civiltà, la guerra di civiltà contro la vita del professor Veronesi, di questi dettagli non si cura. Non si cura perché non cura. Seleziona con il sorriso eugenetico sulle labbra.

(A.C. Valdera)