Liberi per vivere: amare la vita fino alla fine

testamento_biologico Rassegna Stampa

Presentato a Roma il manifesto di Scienza & Vita per una nuova campagna in difesa della vita, contro l’interessata campagna di disinformazione e la confusione che regna sulla questione del “testamento biologico”

di Aldo Ciappi

Si sono riunite sabato 18 aprile 2009 a Roma, presso la sede di Sat 2000, le articolazioni locali di Scienza & Vita in occasione della presentazione dell’appello-manifesto “Liberi per vivere: amare la vita fino alla fine”, per una nuova campagna di sensibilizzazione in favore della difesa della vita umana in ogni sua fase, dalla fecondazione alla morte naturale.

Lo slogan è: “uno, cento, mille incontri” in ogni angolo d’Italia per prendere coscienza sui valori in gioco nella fase finale della vita, che non è mai disponibile ed è sempre unica e irripetibile.

«Il Manifesto costituisce la base di partenza per una grande operazione di coscientizzazione popolare», ha precisato Maria Luisa Di Pietro, presidente dell’associazione, «con la quale vogliamo rimettere al centro la persona umana con tutte le sue fragilità e particolarmente nella fase finale della vita. Per farlo diciamo tre sì: alla vita, alla medicina palliativa, ad accrescere e umanizzare l’assistenza ai malati e agli anziani, e tre no: all’eutanasia, all’accanimento terapeutico e all’abbandono di chi è più fragile; molto impegnativi, ma sapremo motivarli nel discorso pubblico sulla base della ragione»

L’urgenza è dettata anche da questo particolare momento storico in cui l’ attacco al principio fondamentale di ogni società civile dell’indisponibilità della vita umana – non solo di quella di altri ma anche della propria -, passa, purtroppo in maniera quasi inavvertita per molti, attraverso il dibattito parlamentare per la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento.

Scienza & Vita, dunque, è oggi più che mai impegnata sul piano culturale e sociale nella difesa di questo principio di civiltà giuridica che costituisce il cardine attorno al quale ruotano tutti gli altri.

Le dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) sono lo strumento surrettizio per far passare il principio secondo cui ogni essere umano sarebbe padrone della propria vita e, pertanto, avrebbe il diritto di darsi la morte nel momento in cui egli lo decidesse. Se passasse questo pseudo-diritto, che certamente non si ricava dall’art. 32 della costituzione – che tutela la salute come “fondamentale diritto di ogni cittadino e interesse della collettività” -, vi sarebbero due inevitabili gravissime conseguenze.

Da un lato ciò renderebbe assolutamente soggettivo il concetto di “salute” per cui chiunque intendesse, in una qualsiasi condizione di vita comunque da esso ritenuta “insopportabile” o “indegna”, porre fine alla propria esistenza, potrebbe pretendere dall’ordinamento la concreta attuazione di questo suo preteso insindacabile “diritto”.

Dall’altro, si aprirebbero così le porte al libero commercio del proprio corpo o dei suoi singoli organi, attualmente vietato dall’art. 5 del Codice Civile con riguardo a quegli atti «che cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica o siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume», costituendo chiaramente, questo aspetto, un quid minus rispetto al primo.

Ciò, tra l’altro, implicherebbe un evidente stravolgimento della normativa vigente in tema di consenso informato che deve essere sempre reso dal paziente nell’imminenza dell’intervento medico di una certa rilevanza, non potendo valere, a tal fine, una qualunque sua dichiarazione anteriore perché resa evidentemente in uno stato di coscienza e volontà condizionato da una situazione ben diversa da quella in si prospetta l’ intervento.

Quindi, non vi è alcuna certezza che la dichiarazione rispecchi l’effettiva ed attuale volontà del paziente (la cui possibilità di manifestarsi, in un barlume di coscienza, verrebbe definitivamente preclusa) e, d’altro canto, si verrebbe così a configurare un vero e proprio obbligo alla collaborazione di altri soggetti nella realizzazione del proprio suicidio, in aperto contrasto con la legge vigente (art. 589 del Codice Penale omicidio del consenziente) che, viceversa, punisce colui che, con la propria condotta attiva od omissiva, attua la richiesta del suicida.

Questa implicita ed eversiva conseguenza dovrebbe portare all’unica conclusione atta a evitarla per la quale non può mai riconoscersi un “diritto” al suicidio.

Il suicidio è un mero fatto, una facoltà ineliminabile nella prospettiva della libertà umana, ma la vita deve restare un bene indisponibile, dato e non acquisito, che implica oltre alla titolarità di determinati diritti anche l’adempimento di una serie di doveri, tra cui quello alla solidarietà verso i propri congiunti e verso la comunità la quale, a sua volta, deve fornire il sostegno morale e materiale ai soggetti più deboli.

Stando così le cose, si resta sconcertati nell’ apprendere che tra coloro che dovrebbero essere in prima linea nella difesa di tali universali principi di civiltà che, va da sé, sono propri anche del cristianesimo, a cui il Papa e la Cei. richiamano incessantemente con importanti documenti, vi sia qualcuno che – come il titolare della parrocchia di S. Concordio in Lucca – ha di recente organizzato nei propri locali un incontro sul tema “Dalla parte del malato” invitando come unico relatore il senatore Ignazio Marino, ovvero l’esponente di punta dello schieramento che vuole introdurre una legge sul cosiddetto testamento biologico che vincoli il medico e chiunque altro al rispetto della volontà suicidaria del testatore.

Per questo appare più che mai urgente prendere atto dello stato di grave confusione in cui versa anche una parte del mondo cattolico, talvolta ingenerato da messaggi distorti che partono dal suo interno, facendo una doverosa opera di prevenzione – per la quale Scienza & Vita mette a disposizione le proprie risorse – affinché possano essere evitati, per il bene degli stessi fedeli, futuri episodi di non corretta informazione come quello di Lucca.