Cari genitori, figli del Sessantotto, avete fallito

disciplina_coverl’Occidentale il 20 aprile 2007

Si può, ancora oggi, educare? La questione non è di scarsa attualità, se è vero che, come scrive nel suo Elogio della disciplina Bernhard Bueb (Rizzoli editore), ci troviamo in un vero e proprio «stato d’emergenza del sistema educativo» (p. 11).

di Andrea Bellantone

«Noi siamo procreati, ma non educati», scriveva Thomas Bernhard, iniziando uno dei capitoli – forse il più beffardo e nevrotico – del suo L’origine. Anche secondo Bueb oggigiorno «i giovani non vengono più allevati, ma si limitano a crescere» (p. 11).

Ed in effetti come negare che ci troviamo da diversi decenni nella più profonda svalutazione dell’idea stessa di educazione? La questione, quindi, è di tutta attualità. Ma Bernhard Bueb la affronta, come spesso capita a coloro che aprono nuove vie, in modo del tutto inusuale, ponendo cioè il problema della disciplina, cioè di quello che efficacemente chiama «il figlio non amato della pedagogia» (p. 15).

Eppure – e questa credo è la vera novità del libro in questione – non c’è alcuna possibile pratica pedagogica che non debba fare uso della disciplina. «Avere il coraggio di educare» – scrive Bueb – «significa prima di tutto avere il coraggio di esercitare la disciplina» (p. 15). Coraggio, appunto, di cui l’uomo contemporaneo (occidentale, si intende, perché nelle madrasse questo coraggio non manca per nulla…) pare del tutto privo.

La pedagogia, in assenza del coraggio di esercitare la disciplina, si è del tutto adeguata al modello che Bueb chiama del «giardiniere», scivolando in una vera e propria forma di «non-educazione» (p. 14). Il pedagogo «giardiniere», infatti, considera errato disciplinare lo sviluppo dell’educando, preferendo confidare nella sua libertà.

E proprio qui risiede l’errore: la grande fallacia pedagogica (che si fonda su una precisa concezione utopica e ottimista dell’essere umano) è quella di credere che «i giovani conseguono la libertà solo se gliela si concede precocemente» (p. 30). Così non è, e Bueb, rettore per molti anni del celebre collegio tedesco di Salem, lo sa perfettamente: «La libertà non è una condizione, bensì un frutto tardivo di un lungo processo di sviluppo e la si conquista passando attraverso innumerevoli stadi di dominio di se stessi» (p. 30).

Questa particolare idea della libertà, che rimane il valore essenziale a cui l’educazione deve formare, è quanto di più sano e conservatore animi il libro di Bueb. La libertà ai suoi occhi non è un fatto, un mero stato in cui l’uomo si troverebbe ab origine, ma è una conquista da effettuare tramite la disciplina: «Può percorrere con successo la via della libertà solo chi è disposto a sottomettersi, a esercitare la rinuncia, a raggiungere gradualmente l’autodisciplina e a trovare se stesso» (p. 35).

Questa parole rendono il libro di Bueb qualcosa di più di un semplice pamphlet creato per riempire la tasche di qualche autore o di qualche editore in cerca di quattrini, esso è la risposta all’esigenza profonda di educazione che si sente nel nostro tempo, cui viene data una soluzione classica, all’altezza della grande tradizione platonica e stoica, ma anche della più antica pedagogia degli ordini religiosi cattolici.

Alla luce di questa tradizione – che ha alle spalle secoli e secoli di superiorità rispetto al caos normativo dell’educazione odierna – Bueb si fa beffe della pedagogia antiautoritaria, nata nel secondo dopoguerra: «Il concetto di educazione antiautoritaria risulta assurdo proprio perché un’educazione che prescinda dall’autorità non è educazione» (p. 53). Così sono i valori come «autorità» ed «obbedienza» (p. 49) che attendono di essere rivalutati, ammesso che si abbia il coraggio di riprendere ad educare.

Quel che è certo è che vi sono gravi «conseguenze psicologiche della non-educazione», che non sono meno gravi di quelle provocate dall’eccesso di «educazione autoritaria» (p. 65). Secondo Bueb i giovani hanno «diritto alla disciplina» (p. 69), perché grazie ad essa si impara il senso del limite, del lavoro, della metodicità, dell’uso sensato del tempo.

La diffusa angoscia che domina le giovani generazioni, travolte da un mortale disagio psicologico fatto di ansia e nonsenso, è quanto Bueb attribuisce alla mancanza di disciplina, di punizione, di ostacoli da affrontare, metabolizzare e superare: «I bambini devono potere crescere liberi dall’angoscia, ossia da quello stato d’animo opprimente che viene provocato da minacce indefinite, mentre la paura è sempre riferita a qualcosa di concreto: punizioni ben chiare, quantificabili e dettate dalla sollecitudine generano nei bambini paura, non angoscia» (p. 102).

Quindi, per Bueb, anche la famigerata paura acquisisce un preciso compito pedagogico, così come le punizioni e il timore che esse generano. «Chi vuole educare in modo giusto», leggiamo nell’Elogio, «deve essere pronto a punire: chiunque farà tesoro di questa verità offrirà guida e sostegno alle nuove generazioni nel cammino verso la libertà» (p. 111).

In conclusione si può chiaramente sostenere che l’Elogio della disciplina è uno di quei libri di cui avevamo bisogno, in un tempo in cui anche le più banali ovvietà pedagogiche sono state rovesciate (ennesimo esito della nichilistica «transvalutazione di tutti i valori»?) e si vive in un vero e proprio «stato d’emergenza del sistema educativo».

Rimane da capire se i politici conservatori riusciranno a fare tesoro delle preziose indicazioni di Buer, tramutandole in movimento di opinione e progetto politico, oppure se continueranno a inseguire, come la solita e rozza retroguardia di mendicanti di idee, la cultura di sinistra. Per il momento non resta che leggere questo Elogio della disciplina, in cui nobili parole come “virtù”, “obbedienza”, “fatica” “sacrificio”, “rinuncia”, “dovere” non sono per niente lesinate, godendosi l’opera di un autentico spirito conservatore.

Bernhard Bueb Elogio della disciplina, Ed Rizzoli 2007 – pp 160

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