Barack Obama: speriamo

ObamaStudi Cattolici n.576 febbraio 2009

Insediato il 20 gennaio, il presidente Barack Obama non ha perso tempo. Tre giorni dopo ha firmato un executive order che cancella il divieto di finanziare con fondi federali le associazioni e i gruppi Internazionali che praticano o promuovono l’aborto all’estero. Il divieto, introdotto da Reagan nel 1984, era stato confermato da Bush senior nel 1988, cancellato da Clinton nel 1993 e ripristinato da Bush Junior nel 2001. La decisione di Obama è stata severamente criticata dall’episcopato statunitense e ha provocato una presa di posizione dell’Osservatore romano. Mauro della Porta Raffo, espertissimo di storia americana, autore del volume I Signori della Casa Bianca (Edizioni Ares), ridimensiona in questo ritratto alcuni luoghi comuni sul nuovo presidente.

di Mauro della Porta Raffo

Non sono un razzista (lo dimostra tutta la mia vita e, nel particolare, il fatto che a suo tempo ho fondato e presieduto il Comitato che proponeva per la presidenza americana l’allora segretario di Stato Condoleezza Rice, signora di altissime qualità in primo luogo culturali). Il colore della pelle non mi interessa: bado, invece, con grande attenzione alla religione, all’educazione, alla per molti versi conseguente cultura, al ceto sociale. Sono questi, difatti, i temi fondamentali sui quali e in ragione dei quali gli uomini si confrontano e si sfidano.

Ciò detto, guardando obtorlo collo specificamente e preliminarmente a Barack Hussein Obama dal punto di vista dell’appartenenza, impossibile non rilevare come il quarantaquattresimo capo dello Stato Usa, se non per il colore, sia tutt’altro che «un nero afroamericano» quale dai media viene definito.

Per cominciare e a parte la madre bianca, non discende in nessun modo da schiavi essendo il genitore nato, ovviamente libero, in Kenia e di nazionalità keniota. Dei neri americani (quasi tutti eredi di africani appartenenti a regioni della costa occidentale del continente nero e quindi strutturalmente molto diversi dai keniani) non possiede alcuna caratteristica fisica e in primo luogo non è grosso e tendente al grasso. Pare, poi (e non si rida: conta), che non sappia ballare e che sia un cantante mediocre se non stonato.

Di più, e passando alla pregressa esistenza, ha avuto modo di crescere e di studiare in maniera ben differente: non è nato e non è vissuto in una degradata e misera periferia urbana, è stato ammesso nelle migliori scuole che ha frequentato fino alla laurea. Per inciso, ritengo che anche questa «diversità» rispetto al «normale» afroamericano abbia contribuito non poco alla sua elezione convincendo un buon numero di bianchi a sostenerlo.

Quanto al resto e lasciando da parte «la politica degli annunci a effetto» che fa impazzire le sinistre come sempre alla ricerca di una guida che poco dopo le deluderà, lasciano decisamente basiti gli accadimenti di questi primi giorni a White House. Anche se se ne vuole addossare la responsabilità al Chief della Corte Suprema John Roberts, il giuramento ripetuto (mai successo prima se non nel caso dei vicepresidenti Chester Arthur e Calvin Colidge e in ragione non di un errore, ma di una prima cerimonia troppo poco formale: Colidge, per esempio, aveva giurato in pigiama nelle mani del padre, giudice, mentre la madre impugnava un lume) perché si era impappinato nella cerimonia ufficiale non pronunciandolo correttamente, l’errore storico macroscopico contenuto all’inizio del secondo capoverso del discorso inaugurale e da me denunciato sul Foglio (si veda il riquadro a p. 131), denota l’evidente incertezza nei pubblici atteggiamenti.

Il vero potere del Presidente

Considerando che i trascorsi politici del neopresidente sono praticamente impalpabili, che è assolutamente privo di ogni esperienza amministrativa di livello (quasi tutti i recenti predecessori erano stati prima governatori), che viene dal senato (storicamente, pessimi i presidenti approdati alla Casa Bianca direttamente da lì), che è democratico (e tutti i capi dello Stato Usa, Jimmy Carter escluso, appartenenti a quel partito a partire da Woodrow Wilson hanno portato il Paese in guerra), che il suo staffe composto in gran parte da reduci dell’era Clinton, che il suo segretario di Stato ha nel campo di spettanza un’esperienza che, al di là delle storielle messe in giro durante le primarie, consiste essenzialmente nell’aver bevuto infinite tazze di le con le consorti dei più importanti uomini politici degli anni Novanta quando il marito Bill governava, non resta a tutti noi – non certamente solo agli americani – che sperare che Obama sia un uomo fortunato e che, per conseguenza, nulla di straordinario accada nei prossimi quattro anni.

Del resto – oso sbilanciarmi – è la trascorsa campagna elettorale a far ritenere che cosi sia, visto che – a causa del perverso meccanismo elettorale («Wìnner take all») usato dai repubblicani nel corso delle primarie —, suo rivale è stato il mediocre John McCain, avversato e alla fine abbandonato dalla determinante destra «dura e pura» del suo partito, e, soprattutto, visto che la prevista e gravissima crisi economica è scoppiata non a giochi fatti, ma prima delle votazioni novembrine, cambiando radicalmente le carte in tavola. (Al riguardo, rammento agli smemorati che, avanti che il prezzo del petrolio impazzisse salvo subito dopo crollare – evidente, un’attenta regia alle spalle! – con le conseguenze che conosciamo, Obama era indietro nei sondaggi rispetto al pur debolissimo avversario).

Come, infine, ho più volte scritto e detto, il presidente Usa, da solo, non va da nessuna parte (Gerald Ford, esagerando ma non troppo, sosteneva che al massimo può decidere quando andare al gabinetto) visto che il sistema americano prevede infiniti controlli democratici e che la Costituzione non fa dell’inquilino di White House assolutamente un despota.

Per quanto inconsistente possa essere, quindi, un capo dello Stato americano può anche cavarsela e gli esempi non mancano. Tornando alla buona sorte, Bismarck, uno che se ne intendeva, ai suoi tempi, scrisse che «gli ubriachi, i pazzi e gli Stati Uniti d’America hanno una loro particolare e attivissima Provvidenza». Preghiamo così che tale asserzione valga anche nel nostro futuro!

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La gaffe nel discorso

M.d.P.R. – So bene che Barack Obama non è assolutamente il solo responsabile del clamoroso errore contenuto nel discorso inaugurale da lui pronunciato. Chissà, infatti, quanti membri del suo staff hanno contribuito alla stesura dello stesso. è, però, che l’accusa di ignoranza della storia americana (non del Nicaragua o del Buriana Faso) che qui avanzo va estesa anche a lui che necessariamente non può non sapere!

Fatto è che il secondo capoverso del predetto indirizzo -declamato, rammento, dopo aver posto solennemente le mani sulla Bibbia a suo tempo usata per la bisogna da Abramo Lincoln — inizia testualmente con queste parole: «Sono oramai quarantaquattro gli americani che hanno fatto il giuramento presidenziale».

Ora, per la Storia con la esse maiuscola, Obama è il quarantatreesimo e non il quarantaquattresimo «americano» a giurare da presidente. Grover Cleveland, difatti, eletto due volte – 1884 e 1892 – ma non consecutivamente, è ufficialmente conteggiato sia quale ventiduesìmo che quale ventiquattresimo capo dello Stato Usa. Ciò nonostante, di tutta evidenza, resta una persona (un «americano») sola! Nello staff democratico, tutti – Obama compreso – sono all’oscuro di una particolarità storica che in America si studia alle elementari.

Che dire, considerando altresì il fatto che tempo fa, in campagna elettorale, il medesimo presidente, allora candidato, ebbe a dichiarare di aver fatto tappa «in tutti i cinquantacinque Stati dell’Unione» quando gli Usa sono cinquanta e anche a voler aggiungere Washington Dc (dove, effettivamente, nel caso, si vota), Guam, Porto Rico (dove si tengono solo le primarie), mai si potrà raggiungere il da lui citato numero?

Da II Foglio, p. 2, 21 gennaio 2009, rubrica Pignolerie