La secolarizzazione fallita e la riscoperta dello spirito

processioneVita e Pensiero n.6
novembre-dicembre 2008

Per lungo tempo la sociologia tradizionale ha ritenuto inevitabili il processo di allontanamento dal sacro. Gli ultimi decenni hanno mostrato il contrario. Ma occorre riscoprire la ragione per evitare la degenerazione della fede in fanatismo

di Charles Taylor

Le barriere tra scienza e spiritualità non solo non hanno fondamento (perché sono innaturali), ma risultano rovinose.

E’ certo infatti che il divorzio tra scienze naturali e spiritualità, dove è stato più marcato, ha arrecato danni a entrambe. Ma perchè si è arrivati a questo divorzio? Sarà sorprendente, ma le scienze sociali, del resto nate secolarizzate, sono state finora cieche e sorde di fronte ai valori spirituali. Salta agli occhi la totale indifferenza che non pochi filosofi, sociologi e storici riservano alla dimensione dello spirito.

Le conseguenze di questo disinteresse sono pesanti a livello dei media e, quindi, di opinione pubblica, specie quella colta. Ma non basta che attorno alla religione sia stata intenzionalmente creata una cortina di noncuranza e di ignoranza; ora la fede diventa oggetto di continui attacchi, al punto che rischia di diventare impopolare. E significativa la battuta lanciata dal Nobel Steven Weinberg, che oltretutto è un cosmologo e non un sociologo: «Ci sono persone buone che fanno cose buone e persone cattive che fanno cose cattive, ma se volete trovare gente buona che faccia cose cattive, rivolgetevi alla religione».

In alcuni Paesi, questa frase è diventata quasi un proverbio e viene ripetuta dai media e nei bar. E’ stupefacente che se ne esca con una simile battuta un uomo come Weinberg, che ha vissuto gran parte della sua vita in un secolo, il ventesimo, che ha conosciuto i regimi più oppressivi e sanguinari della storia. È questa l’obiezione che io muovo appena qualcuno tira fuori la battuta di Weinberg. E ottengo, invariabilmente, la seguente risposta: «Ma il comunismo era una religione!». Insomma, per alcuni, la parola “religione” è diventata sinonimo di irrazionalità e addirittura di assassinio.

Ma bisogna riflettere un po’ per capire che cosa si nasconde dietro quello che io chiamo il “principio di Weinberg”. In pratica, c’è ormai chi intende per “religione” un complesso di credenze che può indurre persone buone e pacifiche (che non ucciderebbero neanche una mosca, che so, per conseguire un guadagno personale), a trasformarsi in killer per una “causa”.

Un modo di pensare abbastanza grossolano, questo. Al quale va mossa un’altra obiezione ancora: Hitler, Stalin, Pol Pot, Mao, eccetera, erano tutti nemici della religione, e i poveri cristiani come me non hanno mai avuto parte negli orrori del Novecento. L’altro effetto negativo della mentalità antireligiosa che sì è venuta formando è il ritardo con il quale viene affrontato il vero problema della violenza che cresce nelle nostre società.

Nessuno è immune dal rischio di essere strappato dalla propria vita tranquilla e reclutato nella violenza di gruppo, anche se sa dì avere dalla sua le idee giuste. È in agguato la tentazione di prendere come bersaglio un altro gruppo sociale e di ritenerlo responsabile di tutti i nostri mali. Ora il compito urgente è capire che cosa spinge interi gruppi di persone a sentirsi pronti per essere cooptati in un progetto del genere.

Ma abbiamo una presa imperfetta su questo problema. Alcuni dei cervelli più ricchi d’intuito Io hanno studiato. Grandi scrittori come Fedor Dostoevskij hanno fatto luce sull’origine della violenza e del delitto, che però resta tuttora avvolta nel mistero. Ed è incompleta la conoscenza che abbiamo circa la via seguita da personaggi dotati di carisma spirituale, come Gandhi, per convincere le masse a ripudiare la violenza, bloccandole proprio quando stavano per oltrepassare la linea del non ritorno.

Senza l’intervento di autorità spirituali, spesso anche gli sforzi meglio intenzionati non riescono a impedire che la storia si faccia «sul banco da macellaio», come dice Hegel. E da un brivido il pensiero che Robespierre avesse votato contro la pena di morte durante le prime discussioni sulla nuova Costituzione repubblicana. Per arrivare a una società come quella francese, che oggi risparmia la vita anche ai peggiori criminali, è stato necessario passare attraverso l’incubo del Terrore. Abbiamo bisogno di nuove, più avanzate intuizioni sulla propensione dell’uomo alla violenza ma non raggiungeremo l’obiettivo se ci accontentiamo di un approccio riduttivo, socio-biologico

Recentemente ho lavorato per comprendere quali siano oggi i significati e i risvolti del termine “secolarizzazione”. Per lungo tempo, la sociologia tradizionale ha considerato questo processo come inevitabile. Alcune caratteristiche della modernità – lo sviluppo economico, l’urbanizzazione, la mobilità in continuo aumento, il più alto livello culturale – erano viste come fattori che avrebbero provocato un inevitabile declino della credenza e della pratica religiosa. Era la famosa “tesi della secolarizzazione” e per lungo tempo ha dominato il pensiero nelle scienze sociali e negli studi storici.

Questa convinzione è stata scossa da recenti avvenimenti. La religione ha reagito alla modernizzazione, ha risposto alla sfida dimostrando la propria vitalità. In qualche caso però la religione è diventata la base per una mobilitazione politica di tipo nazionalistico e il fenomeno è addirittura minaccioso, date le proporzioni assunte. È ora di conoscere a fondo questa dinamica, i benefici e i danni che comporta, vedere chiaro in un mondo che la vecchia struttura della teoria della secolarizzazione nasconde ancora alla vista. L’incapacità di scorgere la dimensione spirituale della vita umana ci rende incapaci di esplorare temi vitali. Ora si tratta di riportare la spiritualità al centro e in domini aperti in cui sono possibili scoperte decisive ed entusiasmanti.

Nel mondo secolarizzato è accaduto che la gente dimenticasse le risposte alle principali domande sulla vita. Ma il peggio è che sono state dimenticate anche le domande (almeno in alcuni casi; penso a quanto è avvenuto in Québec, dove sono nato io). Gli esseri umani – che Io ammettano o no – vivono in uno spazio definito da domande molto profonde. Qual è il senso della vita? Ci sono modi di vita migliori e peggiori, ma come si riconoscono? Quali sono i modi utili per l’individuo e per la comunità cui appartiene?

Qual è il fondamento della mia dignità personale, che io cerco dì difendere da me stesso, ogni giorno? Oggi gli esseri umani vogliono trovarsi a fianco della giustizia; detto in termini ormai abusati, «desiderano essere parte della soluzione e non del problema». Le persone hanno fame di risposte su tutte queste questioni e, se ne accorgano oppure no, sentono il bisogno di vedersele risolte da qualcuno.

C’è chi riterrà sbagliata o assurda la mia idea; io sono certo che è fondata. Anche i miei interlocutori, in quanto esseri umani, hanno bisogno di una risposta da fare propria, sul significato dell’esistenza.

Si parla di “scoperta dello spirito”, per analogia con le scoperte che avvengono in biologia, fisica e chimica. Ma è più esatto parlare di “riscoperta dello spirito”: l’uomo ha un’eccezionale capacità di dimenticare cose che aveva conosciute e deposte nel più profondo del cuore. I filosofi, a partire da Platone, hanno analizzato a lungo questa caratteristica umana; Heidegger parla, in proposito, di «dimenticanza dell’essere». Io penso che l’uomo scivoli in un «oblio dell’essere». Credo che noi cadiamo in uno speciale tipo di dimenticanza. In ogni caso, il mondo moderno si fonda su una ben precisa catena di oblii.

Una delle regole principali del sapere umano è tirare fuori quelle risposte inarticolate che la gente fa proprie nella vita. Perciò abbiamo bisogno di una nuova conoscenza della ragione. Non si tratta semplicemente di muoversi con procedimento deduttivo attraverso un argomento; bisogna anche saper portare in superficie quei valori vissuti profondamente dalla gente, cioè articolarli, dar loro voce. Penso che sia molto pericoloso dimenticare i valori, perché svariate novità positive sono emerse nel nostro tempo in quanto il popolo aveva risposto, in un certo modo, alle domande che le novità presupponevano.

Buona parte della violenza compiuta nel nostro mondo discende dal fatto che i giovani vengano reclutati per certe cause che li trasformano in orribili robot assassini. A reclutarli è una qualche offerta che promette di dare un contenuto alle loro vite. Sono senza lavoro, si sentono senza futuro, non hanno (non possono avere) il senso della dignità. Sì, hanno dato una risposta a una domanda. Una risposta estremamente distruttiva, perché autodistruttiva. E noi saremo disperati, se non saremo riusciti a consigliare loro, in tempo utile, una risposta diversa.

Non posso chiamare Socrate perché venga ad appoggiare con la sua autorità ciò che affermo e cioè che la violenza, in particolare quella dei giovani senza speranza, sta minando la società. Ma noi abbiamo il dovere di sollevare in tutte le sedi l’inquietante questione. Alla fine, abbiamo realmente bisogno di vivere in pace nel nostro mondo, comprendendoci gli uni con gli altri. Per guardare avanti dobbiamo far avanzare questa discussione. Su questo piano, io ho lavorato con molti: questa è un’emergenza che non si affronta con l’aiuto di una sola disciplina. Gli studiosi vanno mobilitati sull’intero schieramento della ricerca, su tutto il suo orizzonte.

(Traduzione di Luigi Dell’Aglio)

Charles Taylor insegna Diritto e Filosofia presso la Northwestern University di Evanstone (Illinois, Usa) ed è professore emerito nel Dipartimento di Filosofia alla Mc Gill University di Montreal, dove è nato. Nel 2007 ha pubblicato il volume A Secular Age e ha vinto il Templeton prize «per il progresso nella ricerca sulle realtà spirituali». In Canada presiede una commissione governativa per l’armonizzazione delle culture