Tutti briganti?

briganti 2Il Timone n.76 settembre-ottobre 2008

Uno degli aspetti che più feriscono l’identità nazionale riguarda la guerra nel Sud dopo l’Unità. Un esercito invade, il popolo subisce, alcuni si ribellano. I briganti del Sud attendono ancora una giusta riabilitazione.

Di Francesco Maria Agnoli

Nel 1799 i repubblicani francesi li definirono “briganti” e li trattarono da criminali, fucilandoli e impiccandoli, i sudditi del Regno di Napoli che avevano preso le armi in difesa del Re, della Patria e della Religione. Altrettanto fecero nel 1806, quando riprovarono con maggiore successo nell’impresa.

La criminalizzazione giacobina dell’avversario era destinata ad una lunga fortuna.

 Nel 1860, i garibaldini prima e i “piemontesi” poi presero esempio da predecessori venerati come maestri e trasformarono in briganti quanti si ostinavano a considerarli, invece che liberatori quali si proclamavano, aggressori al servizio di uno Stato nemico che, violando il diritto delle nazioni, aveva invaso, addirittura senza dichiarazione di guerra, la loro patria.

Nonostante sia divenuto abituale aggiungervi l’aggettivo “politico”, la storiografia italiana non è ancora riuscita a fare i conti con quella che resta la pagina più nera del Risorgimento: la repressione del cosiddetto brigantaggio. Anzi, la storiografia manualistica, quella che sui banchi di scuola dovrebbe formare il futuro cittadino, concorda sì sulla “pagina nera”, ma il nero, l’orrore, sono tutti dalla parte dei briganti.

Il Piemonte si preoccupò, utilizzando il denaro ricevuto, per intermediazione massonica, dall’Inghilterra, di comprare il consenso delle classi dirigenti e dell’ufficialità duosiciliana, ma trattò il popolo alla stregua di quanto in quegli stessi anni stavano facendo gli inglesi nelle Indie e gli americani con i Sioux. Con una differenza: Indiani e Sioux sono stati riabilitati e nei cinema hollywoodiano ai pellerossa è riservato il ruolo dell’eroe buono. Nella stima Buffalo Bill ha da tempo ceduto il passo a Cavallo Pazzo.

Tutt’al contrario in Italia, dove i napoletani che presero le armi contro l’invasore rimangono briganti e “beduini” (il termine era un grave insulto nel linguaggio del tempo) e il film politicamente scorretto loro dedicato dal regista Pasquale Squitteri è stato fatto rapidamente sparire. Al di là dei meriti artistici di questo regista, la sua colpa è di avere descritto con realismo e senza sconti episodi come quelli di Pontelandolfo e Casalduni, rappresaglie la cui ferocia fa impallidire quelle perpetrate nella Penisola dalle truppe naziste dopo l’8 settembre 1943.

Il comando piemontese aveva inviato un distaccamento del 36° fanteria per punire gli abitanti di questi paesi colpevoli di avere accolto con il Te Deum e la distruzione dei simboli sabaudi gli exsoldati borbonici arruolatisi nella banda “brigantesca” di Cosimo Giordano e Donato Scutignano. Ne era seguito uno scontro nel quale i soldati avevano avuto la peggio e pochissimi erano scampati. Il 14 agosto 1862 il regio esercito piomba in forze sugli abitanti degli infelici paesi, che, rimasti soli, oppongono una breve resistenza. Vengono uccisi uomini, donne, bambini. Alle case viene appiccato il fuoco. I soldati circondano il paese con l’ordine di sparare su chiunque tenti di sfuggire alle fiamme.

L’esemplare lezione provoca l’entusiasmo dei liberali. Lo scrittore garibaldino Emidio Cardinali, che, da buon massone, attribuisce il brigantaggio alle trame della Chiesa, scrive esultante: «I due villaggi furono inesorabilmente condannati alle fiamme. Il nome di questi cannibali meritava di essere abraso di mezzo al suolo italiano. Crollando le fondamenta dei loro asili doveva sperdersi anco la memoria di tanto misfatto».

Più pietoso del garibaldino, il bersagliere valtellinese Carlo Margolfi ricorda la fucilazione di quanti capitavano, il saccheggio, l’incendio e contrappone i pollastri, il pane, il vino, i capponi a disposizione dei soldati, il grande calore delle fiamme difficile da sopportare anche a distanza e il rumore di «quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case».

Sarebbe sciocco contrapporre leggenda nera a leggenda nera. Vi furono atti di ferocia da entrambe le parti, ma i napoletani erano gli aggrediti, gli altri gli aggressori. Per di più non si possono mettere sullo stesso piano contadini privi di veri capi e un disciplinato esercito regolare. Tuttavia, nonostante perfino uno storico simpatizzante per la “causa italiana” come Denis Mack Smith abbia definito il Risorgimento «un succedere di guerre civili, fra le quali questa (il brigantaggio) era stata la più crudele, la più lunga, la più costosa», per l’establishment politico-culturale italiano i briganti restano briganti, puri eroi le camice rosse di Garibaldi e i soldati del generale Cialdini.

Anzi, i cani da guardia di quella che definiscono la “storia patria” vigilano pronti a stroncare ogni tentativo “revisionista”. È accaduto nel 1998, quando Giuseppe Galasso e Flores d’Arcais gridarono ai rigurgiti clerico-fascisti per un convegno bolognese sull’Insorgenza (briganti del 1799), presieduto dal cardinale Giacomo Biffi, e di nuovo nel 2000 con un manifesto promosso da Alessandro Galante Garrone, firmato da 66 intellettuali e pubblicato dalla Stampa, che chiamò alla resistenza contro le forze «fanatiche», «reazionarie», «sanfediste», in breve i «briganti», che, nell’agosto 2000 (esattamente a 138 anni dalla strage di Pontelandolfo e Casalduni) avevano osato proporre all’interno del Meeting per l’amicizia fra i popoli una mostra sul tema Un tempo da riscrivere: il risorgimento italiano.