Dovuto a Solzenicyn

alexander_solzhenitsynStudi cattolici n. 572 ottobre 2008

di Vincenzo Sardelli

Nel 1931 il commediografo irlandese George Bernard Shaw, premio Nobel per la Letteratura, al rientro da un viaggio in Unione Sovietica, affermò che la Rivoluzione russa era stata calunniata, e che il comunismo poteva recare felicità e benessere (1). Egli ignorava che proprio in quegli anni, in seguito allo sterminio di tre milioni di kulak (i contadini ricchi) e alla carestia causata dalla scellerata politica di Stalin contro le coltivazioni private, sette milioni di persone stessero morendo di fame nelle campagne russe.Indirettamente, a distanza di molti anni, un altro scrittore, anch’egli premio Nobel, avrebbe risposto a Shaw con uno dei suoi sagaci aforismi: «Per noi in Russia il comunismo è un cane morto, mentre per molte persone in Occidente è ancora un Icone vivente». Si trattava di Aleksandr Solzenicyn, morto lo scorso 3 agosto, celebre per aver rivelato al mondo l’orrore dei Gulag, i campi di sterminio sovietici (2).

Cristiano praticante, Solzenicyn riposa ora nel monastero di Donskoye, uno dei luoghi più sacri della Chiesa ortodossa russa (che lo ha definito «un profeta») come aveva chiesto al patriarca Alessio II. Nel recinto del cimitero sono sepolti, assieme a lui, artisti, nobili, e innocenti che l’establishment sovietico massacrò come «spie», «nemici del popolo», «nemici della rivoluzione», «cani rabbiosi del fascismo». Vi si trova anche una fossa comune con i corpi di 7mila vittime delle purghe staliniane.

Solzenicyn, uomo del dissenso, fu rinchiuso per oltre dieci anni, dal 1945, nei lager staliniani. La sua colpa, aver alluso in una lettera in modo improprio a Stalin stesso. Privato della cittadinanza russa nel 1974, fu espulso dall’Urss come personaggio scomodo, quando Stalin era morto da oltre vent’anni. Vi sarebbe rientrato solo nel 1994, dopo il crollo del comunismo e all’indomani di un incontro con Giovanni Paolo II (ottobre ’93) fortemente voluto da entrambi. Il Papa riconobbe, nell’occasione, la statura etica e il ruolo politico interpretato dal grande dissidente: «Molte delle cose che ho fatto», disse il Pontefice, «le ho fatte pensando a lei e grazie a quel che ci ha saputo dire».

Un evento politico e letterario

Quando Solzenicyn aveva iniziato a parlare, tantissimi intellettuali in Unione Sovietica erano rimasti in silenzio. Molte persone che sapevano di avere taciuto, lo amarono e lo rispettarono perché aveva parlato anche per loro. Altre, invece, ancora non gli perdonano che, con le sue parole, il loro silenzio abbia fatto ancora più clamore.

Diverso, come vedremo, è il modo in cui furono accolte per anni le opere dello scrittore all’estero, in particolare in Italia. Solo in tempi sospetti e tardivi i tupamaros nostrani hanno fatto i conti con un passato infamante. Eppure i crimini del sistema sovietico erano così lampanti da sbattere al muro anche i «democratici» più distratti, gli ipocriti più consapevoli e i giacobini più fanatici. La pubblicazione, nel 1962, del romanzo breve di Solzenicyn Una giornata di Ivan Denisovic sulla rivista Novyi- Mir, fu un evento politico e letterario della massima importanza: per la prima volta nella letteratura sovietica si parlava esplicitamente della realtà dei campi di concentramento. Il romanzo rivelava un autentico temperamento di scrittore, che autorizzava il diffuso paragone col Dostoevskij delle Memorie da una casa di morti.

La suggestione del racconto derivava dall’ossessiva ma sdrammatizzata minuzia con cui era descritto lo squallore quotidiano della vita nei lager, dove l’istinto di sopravvivenza tendeva a cancellare ogni impulso d’umanità. Nei successivi romanzi Divisione Cancro (1967) e II primo cerchio (1969) la testimonianza contro il terrore stalinista si fece più esplicita e drammatica, anche se forse meno risolta in messaggio poetico. Questi romanzi non ottennero il visto della censura, e furono pubblicati solo in Occidente.

La possibilità espressiva di Solzenicyn aveva vissuto una stagione brevissima in Unione Sovietica. Essa era stata possibile solo dopo la denuncia di Krusciov, nel 1956, dei crimini staliniani, e dopo il formale ripristino del principio della «legalità socialista». Ma i limiti di questa denuncia, che riduceva i guasti del socialismo reale alla sola persona di Stalin (dipinto come un despota allucinato, paranoico e pazzoide) emersero sul terreno delle realizzazioni concrete, che rivelarono appieno i condizionamenti dell’eredità staliniana in ambito economico e sociale, oltre che culturale e religioso.

La nuova leadership sovietica, composta da Breznev, Kosygin e Podgorny destituì Krusciov nel 1964, accusandolo di minacciare la stabilità del regime con le continue denunce del passato stalinista e con gli interventi sulla struttura del partito. Di fatto la fine della liberalizzazione interna avviò il nuovo ostracismo verso gli intellettuali non del tutto organici al regime, in conformità a un indirizzo politico conservatore che, senza ritornare allo stalinismo vero e proprio, ne riprese la linea dura verso il dissenso e riportò a metodi di governo chiusi e autoritari.

Il cittadino tornava a sentirsi insicuro della propria vita e della libertà personale. Non poteva in alcun modo esprimersi contro il regime. Il peso della repressione politica gravava sugli intellettuali, dopo che per alcuni anni l’allentamento dei controlli sulla produzione culturale aveva consentito una discreta circolazione di testi pubblicati clandestinamente.

Il regime soffocò il dissenso in diversi modi: imprigionando alcuni oppositori, esiliandone altri il cui arresto avrebbe fatto troppo rumore all’interno e all’estero, consentendo ad altri ancora di emigrare. In tale contesto Solzenicyn, rappresentante di grande statura morale di quella tradizione di antagonismo che caratterizzò l’intel-lighenzia liberale russa fin dall’Ottocento, fu sottoposto in patria a una completa emarginazione. Essa tuttavia non ridusse al silenzio la sua protesta, ed ebbe il contrappeso nella sua mitizzazione messianica da parte degli strati meno ortodossi del pubblico sovietico.

Erano gli anni appena dopo la crisi e l’invasione della Cecoslovacchia. Gli anni del dissenso, tra gli altri, di Sacharov e Rostropovich, tra vessazioni, repressione, esilio per gli oppositori, dopo l’èra del Gulag. In Occidente, nel frattempo, intorno alla figura di Solzenicyn si creò un caso politico non privo di aspetti propagandistici, che spesso relegarono in secondo piano la sua personalità artistica.

«La violenza non vive da sola»

Nel 1970 gli fu assegnato il Nobel. Nel 1974, come detto, lo scrittore fu espulso dall’Urss con un decreto del soviet supremo: causa principale, la pubblicazione all’estero dell’opera in tre volumi Arcipelago Gulag (1973-78), colossale raccolta di dati sulle deportazioni e sui lager dell’epoca staliniana, che l’autore potè portare a termine con l’aiuto di compagni di prigionia e di amici. Grande affresco sulle generose illusioni e sulle gravi delusioni che possono legarsi a una rivoluzione e alle sue promesse di palingenesi, l’opera era in realtà ben altro dal pamphlet anticomunista che credettero di scorgervi i censori.

Il suo alimento era una desolata, dolorosa filosofia della storia, che si soffermava sui bordi oscuri, sul tributo sempre altissimo di vite che ogni forma di «progresso», se diretto con sufficienza e arrogante autarchia dall’uomo, porta fatalmente con sé. Eppure per Solzenicyn la Rivoluzione russa, coi suoi eccessi e le sue derive, fu un male necessario. Tramite essa l’umanità nel suo insieme pagava per aver smarrito il senso dei limiti, la moderazione auto-imposta riguardo ai suoi aneliti e alle sue richieste. Il mondo intero, contagiato, scontava l’avidità assoluta dei ricchi e dei potenti – sia singoli individui, sia interi Stati – e l’inaridimento dei sentimenti di benevolenza umana.

Ricevendo il Nobel, lo scrittore aveva chiarito il ruolo della letteratura contro l’impeto della violenza. «Non dimentichiamo», aveva detto, «che la violenza non vive da sola e non può esistere da sola. È immancabilmente legata alla menzogna. La violenza si può mascherare solo con la menzogna. E la menzogna non può reggersi che con la violenza. Chi una volta ha proclamato la violenza con i propri metodi, è costretto a scegliere la menzogna come proprio principio. Un uomo semplice e coraggioso deve compiere un solo passo: non partecipare alla menzogna» (3).

Stabilendo un’esatta equazione tra letteratura e verità, tra verità e libertà e tra libertà e vita, Solzenicyn personificò l’orrore agghiacciante di chi aveva gettato lo sguardo nel baratro del comunismo sovietico. Uno sguardo legato indissolubilmente alla prospettiva del dolore e della sofferenza, che egli riscattava leggendola in termini provvidenziali: «La sofferenza, d’altro canto, ha un valore enorme per lo sviluppo dell’individuo. Non dico che sia necessario ricercare la sofferenza, sarebbe contro natura, ma bisogna accettarla con coraggio. Una piatta felicità è quanto di peggio possa esserci per l’anima dell’uomo, la fa regredire. Sono convinto che, se non fossi stato incarcerato, la mia crescita e la mia cultura sarebbero state molto più povere» (4).

In Solzenicyn la letteratura, l’arte in generale, assume un ruolo catartico, tanto più efficace se la sua azione si dispiega in una prospettiva metafisica, secondo un approccio che ricorda da vicino l’esistenzialismo cristiano di Nikolaj Berdjaev: «Ho l’impressione che l’unico scopo della vita umana sia di concludere l’esistenza a un livello più alto di quello iniziale. La religione ci aiuta in questo senso, anche se non è detto che un ateo non possa compiere lo stesso percorso, attraverso un lavoro interiore. L’arte contribuisce ad ammorbidire l’anima, ad affinarla. L’arte, in qualche modo, prepara l’uomo alla morte, lo aiuta a comprendere la morte e, di riflesso, la pienezza della vita» (5). Tutti questi elementi contrassegnano una produzione letteraria imperniata sulla lotta contro la censura e sull’aperta denuncia del corrotto e oppressivo regime stalinista.

Ma ridurre Solzenicyn alla condanna dei crimini di Stalin significherebbe rendergli un servizio parziale e criticabile. A chi in Occidente, pur prendendo le distanze da Stalin, si manteneva aggrappato al mito immarcescibile della rivoluzione d’Ottobre, e idealizzava Lenin come l’alfiere dell’Uomo Nuovo, lo scrittore spiegava che l’Ottobre non fu per nulla un movimento di massa spontaneo. Non fu una rivoluzione ma un colpo di Stato. La vera rivoluzione era stata a suo avviso quella del febbraio 1917, quando la ribellione partì dagli operai, fuori di un’impostazione verticistica diretta dagli intellettuali. Quanto a Lenin, egli non era stato denunciato abbastanza: bisognava condannare leninismo e comunismo con la stessa forza con cui erano stigmatizzati nazismo, fascismo e stalinismo.

Solzenicyn vedeva in Lenin un leader malefico, avulso dalla cultura russa e sommerso nello spirito internazionalista: impietoso contro chiunque non lo seguisse ossequiente, ed empio verso Dio. Pertanto il leader bolscevico era considerato latore di quei guasti di cui la Russia porta ancora oggi conseguenze (la distruzione dell’uomo, della famiglia, della società) per liberarsi delle quali occorreranno altri decenni. Dunque Stalin, secondo questa lettura, non sarebbe un’aberrazione, ma la naturale e logica evoluzione del suo predecessore. Per Solzenicyn nella figura di Lenin si intravedeva già lo stalinismo con tutto quello che avrebbe comportato.

È vero, Lenin non massacrò decine di milioni di bolscevichi, di suoi compatrioti, come avrebbe fatto Stalin. Ma, forse, solo perché non ne ebbe il tempo. La malattia interruppe presto il suo regno. Ciononostante fu lui, col suo cinismo privo di moralità, con la sua intelligenza pedante, psicotica e nichilista, a distruggere la società civile, a far trucidare barbaramente lo zar e la sua famiglia, a creare uno Stato di polizia, a usare la carestia come arma di repressione e di ricatto.

Ce n’era abbastanza, insomma, perché nell’Occidente che guardava a Mosca, Pechino e L’Avana come all’Eldorado, nell’Italia cieca e faziosa dei primi anni Settanta (che vedeva nelle Brigate Rosse «un’organizzazione di tipo provocatorio al servizio di loschi interessi», dietro i quali albergavano un «complotto della Cia» e una «strategia della tensione» orchestrata dai «fascisti nostrani») (6). Solzenicyn non avesse diritto d’asilo. A pochissimi giornalisti «indipendenti», a un numero ridottissimo di intellettuali «democratici», a nessun filosofo «progressista», ancor meno a quegli ideologi spinti a considerare «la sinistra come l’impero del bene e la destra come l’impero del male» (7) poteva passare per la testa l’idea di leggere Solzenicyn.

Incompetenti & opportunisti

Alcuni anni fa, in un editoriale sul Corriere della Sera, Piero Ostellino sosteneva che la grande maggioranza dei giornalisti «borghesi» italiani erano simpatetici e indulgenti nei confronti dell’Unione Sovietica non tanto perché corteggiati o circuiti da Mosca, quanto invece per il timore di apparire antisovietici e anticomunisti. Ostellino si domandava perché quei giornalisti esaltassero la pianificazione sovietica. Finiva per concludere che essi erano incompetenti o opportunisti, se non proprio degli ottusi (8).

Un’autocritica senz’altro credibile, ma tardivamente sincera, comparsa subito dopo la morte di Solzenicyn su un giornale non tacciabile di simpatie conservatrici e reazionarie, è quella di Adriano Sofri (9): Solzenicyn fu accolto in Italia con «sufficienza» e «superficialità». Nel Pci solo Lucio Lombardo Radice («che del resto era comunista e cattolico») gli tributò un «tiepido sostegno». L’assegnazione del premio Nobel finì paradossalmente con l’accrescere l’alone di sospetto che la sinistra ostentava nei confronti del dissidente sovietico.

A parere dell’ex leader di Lotta Continua il mondo cattolico, «più aperto all’ecumenismo o al dialogo con l’ortodossia, più sensibile alla persecuzione religiosa nel socialismo realizzato, e attratto dalla tradizione dell’anima slava», si dimostrò più onesto e lungimirante. Sofri spiega che «quando il nome di Auschwitz divenne finalmente famigliare ed esecrato, parole come gulag o zek, nomi come la Kolyma o le isole Solovki dovevano aspettare ancora anni e anni […]. Anche fra noi, nella sinistra che si voleva nuova e rivoluzionaria, ci furono scaramucce rivelatrici: sortite che riconoscevano francamente a Solzenicyn la sua grandezza personale letteraria e civile, e repliche a furor di popolo che lo additavano come un nemico della causa proletaria.

Vi furono anche repliche più sobrie e ragionate, ma che mostravano la tenacia di un pregiudizio, per il quale i dissidenti e gli oppositori della dittatura sovietica da ammirare, amare e sostenere erano quelli che credevano nel vero comunismo e ne combattevano, anche a costo della libertà e della vita, il travisamento e il tradimento».

Un silenzio che stupisce

Anche Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci, ha fatto ammenda rispetto alle reticenze di un Partito comunista italiano incapace di una seria e incondizionata critica al regime sovietico (10). A stupire davvero, semmai, è il sostanziale silenzio con cui l’attuale leadership politica della sinistra italiana è riuscita ad avvolgere l’opera di Solzenicyn anche subito dopo la morte. Nell’estate del 2008 non un riconoscimento spontaneo. Non un mea culpa. Neppure un cenno di moderato, sano revisionismo.

Forse è il normale, pudico (e coerente!) riserbo di chi per anni ha negato l’evidenza, fingendo di dimenticare che, in quei Gulag tanto vituperati, ci erano finiti pure gli italiani”. Oppure la spiegazione sta nel fatto che Solzenicyn, anche negli ultimi tempi, continuava a essere un intellettuale scomodo. Invitava ripetutamente l’Occidente a fare i conti con il comunismo, così come li aveva fatti con il nazismo. A suo avviso, se la Russia avesse processato il bolscevismo come la Germania aveva processato il nazismo, forse oggi sarebbe già un Paese normale.

Ma anche fuori della Russia era mancata un’autentica revisione. Non era – assicurava lo scrittore – solo un’esigenza morale di verità: spettava proprio alla sinistra processare il proprio passato. Il comunismo sarebbe apparso per ciò che era veramente stato solo dopo che la sinistra lo avesse definitivamente condannato e sepolto. Non bisognava accontentarsi, dunque, di una sinistra europea che, a parole, aveva condannato il comunismo rinunciando a stella, falce e martello: doveva denunciarlo con lo stesso orrore con cui aveva denunciato nazismo, fascismo e campi di sterminio. E allora, liberata da quel fardello, la sinistra avrebbe mostrato in pieno la propria vera identità.

Non per questo Solzenicyn assimilava al nazismo il comunismo. Sulla carta, quest’ultimo predicava nobili sentimenti. Peccato che avesse fatto molte più vittime. Solo quelle ammazzate da Stalin erano trenta o quaranta milioni, per di più quasi tutti russi e in maggioranza comunisti. In un altro sarcastico aforisma lo scrittore sosteneva che «i russi non hanno usato le camere a gas solo perché non avevano il gas».

Da qualunque posizione lo si osservi, infine, risulta difficile decifrare con chiarezza l’atteggiamento di Solzenicyn verso la Russia attuale. Lo scrittore era sembrato ambivalente nei confronti di Gorbaciov e di Eltsin, come di Putin e Medvedev. Sicuramente aveva condannato, della Russia post-comunista, le derive verso un capitalismo selvaggio che poco spazio lasciava all’evoluzione economica, e soprattutto culturale, dei cittadini, e che relegava la scuola a un ruolo di surrogato. Trovava avvilente l’estetismo della nuova letteratura, la cui natura deve invece permettere di penetrare in maniera approfondita nelle condizioni della nostra esistenza: «In un certo senso, il merito della letteratura russa è stato quello di non smarrire mai una prospettiva etica, ed è un peccato che oggi noi calpestiamo tutto questo andando alla ricerca dell’estetica. L’estetica non esiste. Siamo arcistufi dell’estetismo» (11).

Al di là di tutto, una barriera ideologica si era ormai alzata tra gli intellettuali democratici, orientati sulla Russia del benessere, moderna e aperta all’Occidente, e le convinzioni messianiche, nazionaliste e grandi-russe su cui si fondava il credo dell’autore di Una giornata di Ivan Denisovic. Un credo elitario, che partiva da una critica moralistica al capitalismo in nome di un sistema economico patriarcale basato su una proprietà privata «misurata» e su un commercio «onesto».

Quanto all’ordinamento dello Stato, Solzenicyn, al pari di Berdjaev, non rifiutava la democrazia. Ma vedeva nel suffragio universale e nel voto segreto la probabile deriva verso un parlamentarismo corrotto, che solo un areopago di saggi proiettati verso un’istanza moralmente superiore avrebbe potuto arginare. Solzenicyn era ormai, agli occhi dei russi, un donchisciottesco laudator temporis acti, censore del nuovo ruolo disinibito di donne e giovani, denigratore di tv, musica rock, cultura di massa, moda e pubblicità.

Data per scontata la fine del comunismo e la morte dell’Urss i russi, finalmente liberati da un inconfessato complesso d’inferiorità rispetto agli esuli cacciati dal regime, guardavano ormai alle idee di Solzenicyn come a un’entità fuori del tempo e dello spazio, intenta a giudicare la Russia sulla base di criteri e categorie che non esistono più. Rifiutavano perciò l’emigrazione sovietica nel suo complesso, come il fantasma di un passato arcaico e obsoleto. Da soffiare via, una volta per sempre.

* * *

1) Cfr Alberto Rosselli, Intellettuali e comunismo, «Area», aprile 2007.

2) Situati nelle regioni più fredde e selvagge della Siberia, i campi raggiunsero una popolazione carceraria di oltre dieci milioni di persone negli anni delle persecuzioni staliniane; e furono uno degli elementi cruciali dell’economia sovietica, sfruttando il lavoro dei detenuti per costruire canali, ferrovie, centrali elettriche, intere città. Solo le squadre di detenuti che mantenevano gli obiettivi fissati, ricevevano migliori razioni alimentari. Col passare degli anni, i contadini agiati colpiti dalle collettivizzazioni di Stalin furono raggiunti nel Gulag da dissidenti, intellettuali, membri del partito caduti in disgrazia, ufficiali e soldati dell’Esercito sospettati per qualche motivo dal paranoico potere di Mosca. Persino uno scienziato come Tupolev fu rinchiuso in un campo di lavoro insieme a una squadra dei suoi collaboratori, e lì continuò a progettare sofisticati aerei, nella seconda guerra mondiale. Nel Gulag morirono a milioni, uccisi dal gelo, dalla fame, dalle torture fisiche e psicologiche, dai loro stessi compagni di prigionia, che spesso erano criminali comuni, assassini della peggior specie. «Fino all’avvio della glasnost, il mondo esterno e la stessa Urss -nel periodo di Krusciov — hanno conosciuto la tragedia dei campi di lavoro sovietici, analoga a quella dei lager hitleriani, soprattutto attraverso le opere di uno dei prigionieri più illustri, lo scrittore Aleksandr Solzenicyn (Enrico Franceschini, Chiude I’ ‘«Arcipelago Gulag». Liberati gli ultimi prigionieri, «Repubblica», 7 febbraio 1992, p. 13).
3) Aleksandr Sokurov, The dialogues wìth Solzenicyn, Uzel, 1999.
4) Ivi. Che l’esperienza del carcere sia stata spesso feconda musa ispiratrice di scrittori e intellettuali, lo sostiene anche il libro Scritti galeotti. Letterati in carcere (Rai-Eri 2000). L’autrice, Daria Galateria, studiosa di letteratura e cultura francese, esamina trentatré casi di scrittori di fama, da Pellico a Dostoevskij, da Settembrini a Pound, da Voltaire allo stesso Solzenicyn. Si tratta di letterati degli ultimi tre secoli, per i quali la detenzione si è presentata per lo più come un imprevisto del mestiere, o una rivalsa della società, o un esercizio di sopraffazione da parte dell’ordine costituito. Secondo Galateria l’intenzione punitiva del Potere si risolve paradossalmente nell’effetto benefico che la galera esercita talvolta sui prigionieri, sia alimentando ciò che un tempo si chiamava [‘«ispirazione», sia dando notorietà alle loro opere.
5) Aleksandr Sokurov, documentario citato.
6) Cfr Giampaolo Pansa, Carte false. Peccati e peccatori del giornalismo italiano, Rizzoli, Milano 1986, pp. 35-47. Quanto all’atteggiamento in Occidente nei confronti di Solzenicyn, il filosofo francese Andre Glucksmann, nel Sessantotto militante maoista, poi esponente di spicco della corrente dei nouveaux philosophes, ricorda il lungo ostracismo messo in atto dalla sinistra europea, e dei dirigenti comunisti che accolsero Arcipelago Gulag come «un’operazione teppistica»: «L’Europa ha preferito vivere a lungo nella bugia. In Europa fu odiato dalle sinistre, calunniato in modo assoluto dai comunisti che si spinsero fino ad accusarlo di nazismo e disprezzato o ignorato dall’insieme dell’intellighenzia politica e diplomatica occidentale. È stato un uomo che non solo ha mandato in pezzi la macchina totalitaria ma anche la buona coscienza del nostro mondo, sia a destra sia a sinistra» (Pietro Del Re, Glucksmann: grazie a lui l’Occidente ha aperto gli occhi, «Repubblica», 5 agosto 2008, p. 12).
7) Giampaolo Pansa, op. cit, p. 39.
8) Piero Ostellino, Virtù dei conformisti, «Corriere della Sera», 14 -X- 1999, p. 1.
9) Adriano Sofri, La sinistra italiana e il fantasma del Gulag, «Repubblica», 6 agosto 2008, p. 1.
10) Mauro Favale, E Occhetto ammette: nel Pci dava fastidio, «Repubblica», 5 agosto 2008, p. 12.
11) Quello tra la sinistra italiana e i Gulag è stato un rapporto difficile e controverso, lungamente segnato dalla guerra fredda. Solo dopo la perestrojka, e in particolare negli anni Novanta, col disfacimento dell’Unione Sovietica, sono stati aperti gli archivi. Per quanto riguarda gli italiani, ricordiamo che 5 mila di essi vivevano in Crimea, dove si erano stabiliti già dal Settecento. Dagli anni Venti molti antifascisti (socialisti e, in particolare, comunisti) scapparono in Russia. Furono tutti immediatamente schedati e inquadrati nelle file del Partito comunista, ma in seguito furono considerati potenziali nemici politici. Le accuse andavano dal trotzkismo al terrorismo, allo spionaggio. In tutto sembra che gli italiani perseguitati e soppressi siano stati un migliaio. Tra essi non solo avversari politici, ma anche operai e contadini, ballerini e musicisti, decoratori e circensi. Tale realtà era nota, se non nei numeri nella sostanza, già nell’immediato dopoguerra. Fu taciuta perché  sparare  contro  l’Urss avrebbe significato indebolire la sinistra italiana, in anni in cui si avvertiva come imminente «il pericolo di una reazione clerico-fascista». Tale silenzio potè contare sulla connivenza dei dirigenti italiani, come Palmiro Togliatti e suo cognato Paolo Robotti, Antonio Roasio e Domenico Ciufoli. I materiali relativi alle persecuzioni nei Gulag tuttavia sono tornati a essere inaccessibili da quando Vladimir Putin, ex uomo del Kgb, ha chiuso nuovamente gli archivi, con la volontà chiara di rimuovere il ricordo di una delle pagine più buie della storia sovietica. Cfr Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1919-1945, II Mulino, Bologna 2007; Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991,
11) Mulino, Bologna 2008; Elena Dundovich – Francesca Gori, Italiani nei lager di Stalin, Laterza, Bari 2006.
12) Aleksandr Sokurov, documentario citato.

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Di A. Solženicyn leggi:

Un mondo in frantumi (testo integrale del discorso di Harward- 1978)