I Dogmi della Fede cattolica, la Dottrina sociale della Chiesa e l’azione politica dei cattolici.

dottrina socialeOsservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân 15 aprile 2015

di Stefano Fontana

Verona, 15 aprile 2015

Chiesa di San Pietro Apostolo

La Dottrina sociale della Chiesa non è in buona salute, l’impegno sociale dei cattolici vi fa riferimento in modo confuso, i suoi insegnamenti vengono secolarizzati e ridotti a correttezza civica e costituzionale, è ormai da tempo che il suo “rilancio”, così ardentemente voluto da Giovanni Paolo II, si è bloccato, se mai fosse veramente partito [1].

Nel frattempo, la costruzione della società contro Dio e contro l’uomo ha fatto passi da gigante. L’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi, aprendo a Trieste la Scuola di Dottrina sociale della Chiesa, ha fatto pesare questa drammatica contraddizione: mentre la politica istituzionalizza l’attacco alla natura umana e al Creatore, i cattolici in politica non esistono più.

Tra le molteplici cause di questa situazione, una è veramente decisiva: è cambiato il rapporto tra la Dottrina sociale della Chiesa e i dogmi della fede cattolica. Nel passato l’impegno dei cattolici per la Dottrina sociale della Chiesa era visto in continuità vitale con i dogmi professati dalla fede e insegnati dalla Chiesa. Oggi si deve notare che tale rapporto viene inteso in modo diverso ed è ampiamente dimenticato. E’ stato così che quegli insegnamenti e l’impegno ad essi conseguente hanno perduto la linfa credente e i contenuti teologici propriamente cattolici.

Per questo risulta importante accennare, almeno per sommi capi, al legame esistente tra i dogmi cattolici e la Dottrina sociale della Chiesa.

I dogmi e la storia

E’ oggi in atto una svalutazione dei dogmi e l’aggettivo “dogmatico” risulta dei più infamanti. Spesso il dogma viene inteso come qualcosa di astratto in quanto fisso ed immutabile. Per evitare tale supposta astrattezza si sostiene che i dogmi sono storici: come sono stati individuati dalla Chiesa storicamente e progressivamente, così essi evolvono nella storia, maturano e subiscono dei cambiamenti [2]. L’accentuazione del carattere storico del dogma è spesso sviluppato in modo tale da annullare la trascendenza del dogma.

Nel 1907, San Pio X pubblicò l’enciclica Pascendi [3] nella quale condannò due tipiche posizioni moderniste strettamente connesse tra loro: che la rivelazione avvenga nella coscienza e quindi sia sempre in evoluzione, che i dogmi si evolvano storicamente. In altre parole fu condannata la storicità dei dogmi. Nel decreto Lamentabili, allegato alla Pascendi, Pio X ha affermato che la Santa Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo. Da quel momento essa può essere solo trasmessa, ma non arricchita o cambiata.

A ciò i fautori della storicità dei dogmi contrappongono che la conoscenza dei dogmi e la loro trasmissione sono essi stessi fatti storici che, quindi, modificano il dogma. Il problema è, quindi, se il dogma sia una cosa detta una volta per sempre e da trasmettersi in modo assolutamente fedele nella sua formulazione verbale e concettuale o se il dogma sia una verità che matura nel tempo. Dalla risposta derivano due concetti diversi di Tradizione [4].

Le verità fondamentali della fede, condensate nel Simbolo apostolico, sono anche chiamate dogmi, in quanto sono stati fissati dal magistero universale della Chiesa appunto come verità da credere da parte di tutti i fedeli. C’è quindi un nucleo di verità di fede appartenente alla Chiesa apostolica da sempre. A questo nucleo di verità si dà il nome di deposito della fede. Il deposito fin dall’inizio si è formato sotto il magistero, fin dall’inizio è in rapporto con la Scrittura (prima del Vecchio e poi del Nuovo Testamento) e fin dall’inizio è espressione della fede della Chiesa ossia della tradizione: quindi il deposito è l’insieme di questi tre elementi.

Ci si chiede: la Chiesa, nel corso della storia, ha dato insegnamenti nuovi rispetto al deposito della fede? Bisogna intendersi su cosa si voglia dire con l’aggettivo “nuovo”. Se nuovo vuol dire “che prima non c’era”, allora no, la Chiesa non può dare insegnamenti nuovi. Se per “nuovo” si intende che era da sempre contenuto nel tradizionale deposito della fede e che solo ora viene esplicitamente definito, allora sì. Però in questo caso la parola “nuovo” sembra inappropriata.

Di radicalmente nuovo nella tradizione dogmatica non ci può essere nulla, a parte la nuova venuta di Cristo alla fine dei tempi [5]. E’ per questo che la Chiesa ha a lungo condannato le posizioni dei “Novatori”, senza scambiarli mai con i “profeti” (come invece oggi spesso accade). Un dogma “nuovo”, come per esempio quello dell’Immacolata Concezione di Maria o dell’Assunzione, non aggiunge nulla al deposito della fede, perché la Chiesa ha sempre creduto in quella verità attestata anche dalla Scrittura. Esso è nuovo, quindi, perché antico. Le vere novità cristiane sono tali perché antiche. Il “novatore” è colui che vorrebbe cambiare l’antico col nuovo; il profeta è colui che vuole ricondurre il nuovo all’antico.

I dogmi sono storici? Nel senso che le verità credute sono state anche dei fatti storici, sì. Nel senso che i dogmi fanno la storia, ossia producono civiltà, sì, come diremo più ampiamente in seguito. Nel senso che nella storia la Chiesa può definire “nuove” verità, nel senso visto sopra, ossia di definizione esplicita di quanto era da sempre contenuto nella tradizione, sicuramente sì.

Chi parla però di “storicità” dei dogmi non si riferisce ad alcuna delle accezioni ora viste. Costui, di solito, intende che la rivelazione avviene nella storia, quindi continua ad avvenire e, di conseguenza, i dogmi subiscono una evoluzione: essi non sono delle verità da trasmettersi così come sono state definite. In questo senso, però, la storicità dei dogmi non è accettabile.

Il motivo principale che solitamente si adduce a sostegno della storicità dei dogmi è che il dogma è sia un contenuto sia una coscienza credente, richiede sia una verità da trasmettersi sia anche un modo per conoscerla, di tipo storico-pratico [6], ossia vitale. Trattarlo solo come un contenuto comporterebbe trascurare che il dogma non ci sarebbe senza la fede della Chiesa.

Che il dogma vada sempre rivissuto, è vero.  Che vada approfondito, anche. Il motivo, però, è la sua inesauribilità di senso, non la relatività dei nostri punti di vista che ne orientano l’interpretazione ora qua ed ora là. Il dogma richiede fin dall’inizio la fede della Chiesa, ma questa è un conoscere e non solo un interpretare. Ed è un conoscere delle verità metastoriche, che quindi non mutano. Questo ultimo punto – della metastoria – viene di solito negato da parte di chi sostiene la storicità dei dogmi, che quindi non avrebbero carattere di assolutezza.

Per comprendere in modo semplice questo punto possiamo farci, con Karl Löwith, una domanda: la Chiesa di adesso può dire di aver compreso il messaggio di Cristo “meglio” della Chiesa apostolica? Non aveva completamente torto Löwith quando sosteneva che nel cristianesimo non può esserci “progresso”. Il cattolico non può essere “progressista” [7].

I dogmi fanno la storia

Uno dei motivi per cui, in un certo senso, si può dire che il dogma sia storico è che i dogmi hanno fatto e fanno la storia. Essi non sono, come si pensa, verità astratte o puramente simboliche. Essi sono squarci di vita divina realissima che la provvidenza ci ha voluto rivelare. Essi mostrano come stanno le cose, nei cieli e sulla terra. Il loro contenuto è un contenuto di essere [8].

Nelle grandi crisi storiche dell’umanità, la Chiesa ha reagito con i propri dogmi, più che con misure contingenti. Ed è stato il riferimento ai dogmi a salvare l’umanità dalla degenerazione e dalla distruzione. In questo senso si può dire che la storia è fatta dai dogmi.

Il dogma ha sempre anche un contenuto reale e non può essere relegato nel mito. Il dogma nutre la Chiesa e la Chiesa è il Corpo di Cristo nella storia, Corpo che rimane in eterno [9]. Tra dogma e Corpo c’è una unità inscindibile, sicché il dogma non è presente solo nella coscienza del credente, ma si fa, per sua natura, storia reale e, quindi, civiltà. E’ il realismo della fede cattolica.

La Chiesa ha plasmato la civiltà cristiana occidentale con i suoi dogmi, definiti nei suoi Concili dogmatici e nelle definizioni del magistero Petrino. C’è oggi una generale sottovalutazione dell’importanza della dottrina nella vita della Chiesa in favore della prassi pastorale, che rischia di mettere in ombra questo importante aspetto. Vorrei fare a questo proposito due esempi storici.

Il primo di essi riguarda la Gnosi. La condanna dell’Arianesimo e la definizione della natura umana e divina di Gesù Cristo hanno contraddetto la Gnosi, espressione del razionalismo ellenistico. Il processo è stato lungo, ha coinvolto anche gli altri concili e il lavoro dei Padri e dei grandi Dottori. La partita non è stata ancora vinta, dato che accanto alla Gnosi dei primi secoli cristiani c’è una “Gnosi eterna”, ma senz’altro la lotta del dogma cristiano contro la Gnosi ha preservato la civiltà umana dalle catastrofi del Catarismo, dal rifiuto e dalla contemporanea esaltazione della materia, dalla distruzione del matrimonio e della famiglia, dal rifiuto dell’autorità politica. Ha prodotto i frutti di civiltà della giusta considerazione del male e della sofferenza, ha difeso dal nichilismo.

Mediante la difesa del Vecchio Testamento dall’attacco gnostico si è potuta preservare la visione positiva della creazione e la dimensione storico sociale della fede cristiana. Il battesimo ai bambini, le preghiere per i morti, il celibato sacerdotale, il culto delle immagini: quanti benefici hanno portato alla civiltà occidentale questi punti che sarebbero tutti stati eliminati da una eventuale prevalenza della Gnosi!

Quali danni avrebbero fatto il pauperismo, il pacifismo, il purismo radicale di tipo gnostico se avessero potuto diffondersi senza freni! Commentando la battaglia di Muret del 13 settembre 1213, nella quale Simone de Montfort, dopo aver assistito alla Messa celebrata da San Domenico, con mille soldati mise in fuga l’esercito aragonese che appoggiava gli Albigesi con 40 mila uomini, Jean Guitton afferma: «Muret è una di quelle battaglie decisive nelle quali si è giocata la sorte di una civiltà. La maggior parte degli storici trascura stranamente questo fatto» [10].

Il secondo esempio riguarda Pio IX e la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria nel 1854. La definizione del dogma nasceva da una lettura teologica degli eventi della rivoluzione liberale. Secondo Pio IX tutti gli errori contemporanei nascevano dalla negazione del peccato originale e quindi della inconciliabilità tra Dio e il peccato. Il fine della vita doveva essere il progresso dell’uomo e del mondo, l’uomo moderno doveva diventare autonomo ed autosufficiente, liberandosi dalla tutela della Chiesa, la religione era solo utile al progresso civile e a questo doveva essere subordinata. Negato il peccato originale, però, non c’è più posto per Cristo, per la Chiesa e per la grazia.

Davanti a questa visione delle cose, Pio IX volle invece ribadire l’inconciliabilità tra Dio e il peccato del mondo e che il fine principale del mondo e della storia non è la celebrazione del progresso umano ma è la gloria di Dio. E questo fece proclamando il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria “vincitrice gloriosa delle eresie”.

Le violente vicende cui dovette assistere Pio IX facevano parte del disegno di emancipare l’ordine naturale da quello soprannaturale. Pio IX era del parere che con questo progetto non si potesse scendere a patti, che non lo si potesse “cattolicizzare”. Ecco allora la genesi dell’enciclica Quanta cura e del Sillabo, che non vanno staccati dal profondo significato teologico della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, ma visti, insieme al Vaticano I, come la risposta di Pio IX al peccato moderno.

Non a caso tutti e tre gli avvenimenti avvennero l’8 dicembre: nel 1854 la proclamazione del dogma, nel 1864 la Quanta cura e il Sillabo e nel 1970 l’apertura del Vaticano I [11]. Come si sa, qualche anno dopo, nella grotta di Massabielle, a Bernadette la Signora disse: “Io sono l’Immacolata Concezione”.

La costruzione della civiltà occidentale è stata fatta dai dogmi. Il dogma era la principale fonte per contrastare l’apostasia dell’Occidente dal Cristianesimo, apostasia che ormai era diventata dogmatica. Il Movimento cattolico, che nasce dai dogmi, ha sempre tenuto conto di questo. Vorrei ricordare che l’8 dicembre – festa dell’Immacolata Concezione – è sempre stata la festa dell’adesione all’Azione Cattolica, ossia il momento in cui la militanza cattolica nella società faceva esplicito e liturgico riferimento al dogma.

L’eresia e la storia

Quanto abbiamo finora detto può essere anche rovesciato al negativo. La dimenticanza del dogma va oggi di pari passo con la sottovalutazione dell’eresia. Come sarebbe astratto il dogma così sarebbe astratta l’eresia. Condannare l’eresia è oggi inteso come la condanna della libertà di pensiero. Se il dogma si evolve storicamente, l’eresia è la molla necessaria della sua evoluzione dialettica. L’eresia è l’elemento critico negativo, necessario perché si giunga al positivo. E’ sorprendente come oggi i cattolici non considerino più le reali ripercussioni di male, di sofferenza, di disordini anche storici e sociali che le eresie comportano. La convivenza del dogma con l’eresia, della verità con l’errore oggi è considerata normale e perfino auspicabile, anche dentro la Chiesa.

Questa osservazione ci porta ad un aspetto dogmatico di fondamentale importanza, quello del peccato originale. Siccome esso sarà oggetto di un intervento specifico in futuro, qui ne accenniamo solo e lo facciamo in relazione a Maria. Nei dogmi cattolici, i dogmi mariani hanno una singolare importanza: Ella è il creato come l’aveva pensato il Creatore,  è la donna, l’uomo, la famiglia, e quindi la società umana, come l’aveva pensata il Creatore, è l’umanità ri-creata, come l’ha pensata il Salvatore.

Nel libro “Memoria e identità”, uno degli ultimi grandi libri di teologia della storia, San Giovanni Paolo II parla di Maria in modo singolare. Con il peccato originale «L’uomo era rimasto solo: solo come creatore della propria storia e della propria civiltà, solo come colui che decide di ciò che è buono e di ciò che è cattivo, come colui che esisterebbe ed opererrebbe come se Dio non fosse» [12].

E’ evidente come questa situazione descritta da Giovanni Paolo II sia propria in modo particolare dell’uomo della modernità. Da ciò derivano tutte le ideologie del male e «questo avviene perché è stato respinto Dio come Creatore e perciò quale fonte della determinazione di ciò che è bene e di ciò che è male» [13]. Il limite posto al male è la Redenzione: «Solo la misura del bene immesso da Dio nella storia mediante il mistero della Redenzione è di una grandezza tale da corrispondere pienamente alla verità dell’essere umano.

Nel Vangelo rifulge una luce che si riversa in tutta l’esistenza umana nella sua dimensione temporale e si riverbera di consegu4enza sul mondo creato. Cristo, mediante la sua resurrezione, ha per così dire giustificato l’opera della creazione e, in particolare, la creazione dell’uomo, nel senso che ha rivelato la giusta misura del bene inteso da Dio all’inizio della storia umana» [14].

Ora, su tutto questo Maria meditava nel suo cuore. La memoria materna di Maria è anche la memoria materna della Chiesa, la Tradizione (175) da cui nasce la sua essenziale identità. Questa memoria è anche memoria dell’uomo e «la Chiesa cattolica custodisce in sé la memoria della storia dell’uomo sin dall’inizio … La Chiesa è madre che, a somiglianza di Maria, serba nel suo cuore la storia dei suoi figli, facendo propri tutti i problemi ad essa connaturali [15].

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[1] CREPALDI, Giampaolo (con Stefano Fontana), La Dottrina sociale della Chiesa. Una verifica a dieci anni dal Compendio (2004-2014), Cantagalli, Siena 2014, specialmente il capitolo II: “La Dottrina sociale della Chiesa in difficoltà”, pp. 25-46.

[2] Per Karl Rahner la rivelazione coincide con la storia della rivelazione e questa coincide con la storia della salvezza (RAHNER, Karl, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, sezione V). Anche Joseph Ratzinger, in alcuni scritti dei primi anni Sessanta, aveva concesso molto alla storicità dei dogmi: RATZINGER, Joseph, Il problema della storia dei dogmi nella teologia cattolica, in ID., Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaka Book, Milano, 2005 (seconda edizione), pp. 109-130; ID., La storicità dei dogmi, Ivi, pp. 131-142.

[3] PIO X, Pascendi dominici gregis. Sugli errori del modernismo, Introduzione di Roberto De Mattei, Prefazione di Luigi Negri, Cantagalli, Siena 2007.

[4] DE MATTEI, Roberto, Apologia della tradizione. Poscritto a “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”, Lindau, Torino 2011.

[5] «In confronto all’assoluta novità dell’unico evento di Cristo non può esserci effettivamente nulla di nuovo» (LÖWITH, Karl, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 193).

[6] ANGELINI, Giuseppe, Evangelii Gaudium. La conversione pastorale e la teologia, “Teologia” XXXIX (2014) 4, p. 495: «Supporre che l’essenza della Chiesa sia nota da sempre, e si tratti quindi poi soltanto di applicarla a circostanze esteriori e mutevoli, è ingenuo. La Chiesa è misero mai adeguatamente noto. Esso si rende manifesto nel presente attraverso le forme storiche e pratiche del suo realizzarsi».

[7] LÖWITH, Karl, Significato e fine della storia cit., p. 134.

[8] GARRIGOU-LAGRANGE, Reginald, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, a cura di Antonio Livi e Mario Padovano, Casa editrice Dante Alighieri, Roma 2013.

[9] Ratzinger, Joseph, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo cit., p. 74.

[10] Guitton, Jean, Il Cristo dilacerato. Crisi e concili nella storia, Cantagalli, Siena 2002, p. 166.

[11] Cf R. de Mattei, Pio IX e la rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena 2012.

[12] GIOVANNI PAOLO II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005, p. 21.

[13] Ivi, p. 23.

[14] Ivi, p. 37.

[15] Ivi, p. 178.