Occorre chiedere subito di abrogare il divorzio breve

divorzio-breveLa Croce quotidiano 14 maggio 2015

 Dal 26 maggio le coppie deboli saranno più esposte ad abusi

 Giuseppe Brienza

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 107 dell’11 maggio 2015 è stata pubblicata la legge 6 maggio 2015, “Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi”. Il “divorzio breve”, quindi, entrerà in vigore il prossimo 26 maggio, perché la nuova norma interviene direttamente sulla legge n. 898 del 1970 (c.d. Baslini/Fortuna), a suo tempo frutto di un lungo dibattito parlamentare. La legge che ha introdotto il divorzio nel nostro ordinamento, quattro anni dopo, fu oggetto di un generoso quanto inutile tentativo di abrogazione attraverso il referendum.

Le “magnifiche sorti e progressive” di una società senza amore e senza futuro, sono state quindi segnate in soli tre articoli, nei quali si presenta la possibilità di demolizione della famiglia italiana come una “vittoria”, una deregulation e, insomma, una nuova libertà da festeggiare.

La nuova legge prevede una consistente riduzione del tempo che deve passare fra la separazione e la richiesta per ottenere il divorzio: da tre anni a 6 mesi, se si tratta di una separazione consensuale. Se non c’è l’accordo delle parti sui termini della separazione, i tempi si allungano a 12 mesi (separazione giudiziale), indipendentemente dalla presenza o meno di figli e, la norma, anticipa anche il momento dello scioglimento della comunione dei beni tra i coniugi al momento in cui il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati.

Con la vecchia disciplina, invece, occorreva aspettare il passaggio in giudicato della sentenza di separazione. Benissimo, così almeno i divorziati sprint potranno godere di condizioni fiscali più favorevoli! Infatti, nel nostro Paese la tassazione del reddito familiare è penalizzante, come è stato documentato, rispetto a quella praticata a gay o single.

Dal provvedimento, durante la discussione a Palazzo Madama, era stata stralciata la norma che prevedeva il c.d. “divorzio immediato”, vale a dire senza nessun periodo propedeutico di separazione. Ma si tratta solo di una questione di tempo, dato che il baratro non ha mai fondo.

Fin dall’inizio il governo Renzi ha spinto sull’acceleratore sul “divorzio breve”, dato che nel 2014 erano state già adottate alcune misure per “snellire”, come la “negoziazione assistita” e gli accordi di separazione e divorzio davanti al sindaco (decreto legge n. 132/2014, convertito nella legge 162/2014).

Vale la pena (anche se è triste) richiamare e l’ipocrisia e la demagogia delle femministe e degli “umanitari” che, nel corso del dibattito al tempo della presentazione della legge Baslini/Fortuna, giustificavano il divorzio con la classica tattica del “caso pietoso”. Si trattava, infatti, di difendere l’incolumità delle donne violentate da mariti brutali o liberarle da clan familiari retrogradi. Allora come la mettiamo con la facoltà veloce e “low cost” introdotta con la legge 6 maggio 2015?

Del resto con la tattica del “caso pietoso” si è andati avanti ininterrottamente da 45 anni a questa parte, da ultimo con i “casi” di Englaro e Welby, uccisi con la pretesa di dare “dignità” alla loro vita (od a quella dei rispettivi “familiari”?).

Per introdurre nel 1970 il divorzio nel nostro ordinamento la tattica del “caso pietoso” batté sul numero elevato delle c.d. violenze intra-familiari. La tecnica è sempre la stessa, quella della disinformazione e, per giustificare un male, si chiede di introdurne un altro e generalizzarlo. Il successivo male, infatti, non può far altro che amplificare quello originario.

Le statistiche giudiziarie e criminali abbondano, per esempio, dei casi di violenze e di omicidi perpetrati fra ex coniugi, separati o divorziati che siano, dei quali le peggiori vittime sono, come sempre, i più deboli, cioè donne e bambini. Funziona così: si individuano uno o più “casi pietosi”, li si enfatizza quanto più  è possibile e li si usa come grimaldello per scardinare la  legislazione, soprattutto quando questa conserva un qualche legame con la legge naturale e cristiana.

Ricordiamo tutti la fine di Piergiorgio Welby, che consentì a tutti i fautori della “cultura di morte”, compreso l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di strumentalizzare la sua drammatica vicenda personale per promuovere la “legalizzazione” dell’eutanasia, che altro non è che l’omicidio e/o il suicidio “assistito”.

Accadde così anche con l’aborto nel 1978: l’opinione pubblica, scossa dai “casi pietosi” agitati dalla disinformazione mediatica e Radicale, lasciò che si approvasse quella legge 194 solo per  risolvere situazioni drammatiche ed eccezionali. Ma certo! Si trattava di una “tutela sociale della maternità”, peccato che, dopo pochissimo, l’eccezione sia divenuta la regola e, anche l’aborto, è diventato oggi “a richiesta”, cioè motivato da qualsiasi problema, o supposto tale, di ordine economico o psicologico. Fino a trasformarsi, come profetizzato da Giovanni Paolo II, “da delitto a diritto”…

L’introduzione del divorzio breve, come hanno scritto ai Senatori in una lettera (invano) inviata prima dell’approvazione della legge 6 maggio 2015 i responsabili dei “Comitati Sì alla famiglia”, allo stesso modo della Baslini/Fortuna e, poi, della legge 194/1978, pregiudica definitivamente «il futuro della nostra Nazione, il cui trend demografico è sempre più in calo, con un preoccupante parallelismo riscontrabile fra la contrazione delle nozze, religiose o civili, e la riduzione del numero dei figli».

Norme come quelle in vigore dal 26 maggio prossimo, insomma, si prestano come quelle sopra citate a manipolazioni ed abusi, soprattutto nei confronti dei coniugi deboli, anziani o migranti. Non sarebbe il caso di pensare ad un referendum abrogativo?