II contributo della religione alla qualità del matrimonio

ORIENTAMENTI PEDAGOGICI novembre-dicembre 2006

L’autore, inserendosi nel ricco campo di ricerche anglosassoni su! contributo della religione ai benessere delle persone che la vivono con coerenza, documenta con i dati di tali ricerche che essa contribuisce a rendere il matrimonio più stabile e più soddisfacente rispetto alla sua forma «alternativa» e cioè alla coartazione. In seguito riporta i dati empirici che fanno emergere i notevoli limiti della coabitazione in quanto essa è in contrasto con le finalità stesse della vita in comune come la stabilità, la soddisfazione e il progresso ne! loro reciproco rapporto di coppia, I risultati tratti dagli studi, condotti con metodo rigoroso, possono essere per i giovani che progettano la vita in comune un’occasione per riflettere e per i genitori e i ministri di culto religioso per acquisire valide informazioni.

Summary

The author, enters into the rich field of Anglo-Saxon researches on the contribution of religion for the well being of persons who live with coherence, and documents with the data of these researches that religion contributes to make matrimony more stable and more satisfying compared with its «alternative» form, i.e. living together. Successively, he refers to the empirical data that show the remarkable limitations of living together in so far as it is in contrast with the very aims of living together like stability, satisfaction and progress in their reciprocal relationship as couples. The results drawn from the studies, which were conducted with strict methodology, con help young couples who plan to live together to reflect over it, and for parents and far clergy to get some valid information.

Klement Polàcek
(Università Salesiana, Roma)

1. Premessa

In due studi abbiamo esaminato l’apporto della religione alla qualità della vita umana. In uno (Polàcek, 2000) abbiamo cercato di verificare il suo apporto allo sviluppo dei giovani mentre nell’altro (Polàcek, 2007} abbiamo cercato di stabilire il contributo della religione al benessere fisico e psichico di soggetti di ogni età.

A tale scopo abbiamo esaminato le ricerche nelle quali è stato verificato l’effetto degli indici della religiosità come la partecipazione al culto su svariati comportamenti come la delinquenza, l’uso di droghe e simili, per stabilire il suo specifico contributo al benessere delle persone che appartengono a determinate confessioni e attivamente partecipano al culto nelle rispettive modalità. In entrambi gli studi abbiamo riportato i risultati delle ricerche che hanno confermato la funzione protettiva della religione contro la delinquenza, l’uso di droghe, il suicidio, i rapporti sessuali prematuri e la funzione promozionale della salute fisica e psichica, della stima di sé, della gestione degli stati di ansia e di depressione e del fronteggiare la situazione delle adolescenti madri e dei loro figli.

In questo contributo intendiamo esaminare l’effetto della religione sulla qualità del matrimonio. Utilizzeremo, salvo qualche eccezione, gli studi pubblicati nel 2000. Prima di inoltrarci nell’esame dei dati sarà opportuno esporre brevemente le ragioni, facendo riferimento a Mahoney et al. (2001), per le quali la religione esercita la sua influenza positiva sulle persone che la vivono e la praticano.

2. Le ragioni del positivo effetto

Ogni volta che si raccolgono dati empirici su un determinato fenomeno devono essere anticipate razionalmente alcune sue conseguenze ipotetiche. In altre parole, è necessario spiegare perché un determinato effetto debba verificarsi. Per esempio, l’effetto protettivo della religione contro l’uso delle droghe deve trovare la sua motivazione specificamente religiosa per essere considerata come la sua vera causa.

Senza una plausibile spiegazione del fatto, lo stesso risultato empirico può essere dovuto a una associazione puramente casuale tra la variabile comportamentale della religiosità (partecipazione al culto) e l’astenersi dall’uso delle droghe. Naturalmente non ogni comportamento deve essere giustificato specificamente in quanto alla base di vari comportamenti vi sono motivazioni più generali, come per esempio fumare, abusare di alcol e usare la droga.

In tal senso occorre intendere le ragioni addotte da Mahoney et al. (2001), i quali situano il fenomeno religioso nel suo ambito sacrale e trascendente: rapporto con Dio, vita ultraterrena, presenza del divino nel mondo (miracoli), straordinaria forza dei testimoni (martiri). Tutto questo trova la collocazione razionale nelle varie confessioni dalle quali ha poi origine la pratica religiosa: partecipazione al culto, lettura delle fonti (Bibbia, Corano), formazione degli atteggiamenti basati su tali fonti e sulle tradizioni consolidate, indissolubilità del matrimonio, fedeltà coniugale, mutuo aiuto dei membri della comunità dei credenti.

Le varie confessioni, proseguono gli autori, formano nei membri forti convinzioni sulle finalità ultime dell’esistenza umana e cercano di dare spiegazioni sull’esistenza del male fisico e morale e sul significato del dolore. Tutto questo si riflette sul comportamento dei rispettivi membri nei rapporti sociali. Inoltre, varie confessioni danno consigli pratici su come impostare e condurre la propria esistenza su valide basi (matrimonio come vincolo stabile), offrono norme per una vita sana, indicano come evitare dannose abitudini (alimentazione, uso e abuso di sostanze).

In quanto al matrimonio, nella tradizione giudeo-cristiana l’insegnamento è molto esplicito: il matrimonio è indissolubile e il credente deve subordinare i bisogni personali alle leggi divine. Tale insegnamento inibisce atteggiamenti favorevoli al divorzio e nello stesso tempo potenzia le risorse per rendere stabile il matrimonio. A chi si adegua a tale insegnamento la comunità offre sostegno; chi si mette in contrasto con esso subisce la disapprovazione della medesima. La religione offre ai coniugi anche valide motivazioni per approfondire i rapporti, per potenziare l’amore, disponendosi ai reciproci sacrifici per mantenere saldo il vincolo, la reciproca fedeltà e il compimento dei doveri assunti.

Mahoney et al. (2001) concludono che la religione è una realtà potente nella vita umana e che non può essere ridotta a una semplice variabile sociologica. Essa è un fattore fondamentale nel matrimonio e come tale deve essere considerata anche dai politici e dagli operatori sociali nel suo insostituibile ruolo individuale e sociale.

2.1. I risultati delle ricerche

Chiarite le ragioni del positivo effetto della religione sull’esistenza dei membri delle varie confessioni, esponiamo i dati di alcuni recenti studi su tale argomento. Un’attenzione particolare merita lo studio di Mahoney et al. (2001), in quanto basato sui dati di un considerevole numero di ricerche condotte da numerosi ricercatori. I risultati di tale studio saranno poi integrati da alcuni studi singoli.

Da qualche decennio al matrimonio nella sua forma sacramentale o giuridica (matrimonio civile) si è associata la coabitazione delle coppie in forma più o meno stabile senza nessun vincolo formale. Dato che molte coppie coabitanti concludono la coabitazione con il matrimonio celebrato nelle specifiche confessioni oppure secondo il rito civile, cercheremo di stabilire in base ai dati empirici quale effetto eserciti la coabitazione sul matrimonio che la segue e quale grado di soddisfazione essa offra alle coppie in coabitazione.

Esamineremo pure il matrimonio nella sua trasformazione generazionale per capire meglio la sua incidenza sulla qualità del matrimonio stesso. La qualità del matrimonio viene valutata tanto nei suoi aspetti negativi (divorzio, violenza) quanto in quelli positivi (stabilità, soddisfazione). Esaminiamo ora i risultati del primo studio.

Mahoney et al. (2001) hanno eseguito la metaanalisi (1) su 94 studi condotti tra il 1980 e il 1999 sull’effetto della religiosità e la qualità del matrimonio. Hanno scelto tale periodo in quanto avveniva la secolarizzazione e hanno voluto accertare se anche durante essa la religione esercitava ancora influenza sul matrimonio. Gli studi sono stati condotti prevalentemente negli Stati Uniti su soggetti appartenenti alla religione cattolica, ad alcune confessioni protestanti e alla religione ebraica per confrontarli con soggetti non appartenenti a nessuna confessione.

La religiosità dei coniugi è stata valutata in base all’appartenenza a una confessione, alla partecipazione al culto, al tempo dedicato alla preghiera e alla cosiddetta omogamia e cioè l’appartenenza dei coniugi alla stessa confessione. La qualità del matrimonio è stata considerata nella stabilità (in quanto opposta al divorzio), nella soddisfazione del matrimonio, nel coinvolgimento nel matrimonio (potenziando il reciproco rapporto), in base ai conflitti verbali e alla violenza tra i coniugi. Esaminiamo i dati seguendo gli indicatori del matrimonio.

2.1.1. Divorzio

I coniugi appartenenti alle comunità cattoliche e protestanti hanno divorziato in numero minore rispetto ai soggetti non appartenenti a nessuna comunità religiosa. Il coefficiente che indicava la differenza tra gli uni e gli altri è risultato piuttosto basso (r = -.082) ma, dato l’elevato numero dei soggetti, è risultato statisticamente molto significativo; espresso in percentuali ha divorziato il 62% dei soggetti non appartenenti a nessuna confessione rispetto al 49% degli appartenenti. L’effetto maggiore è risultato per la partecipazione al culto (r = -.125) con il 60% e 44% per i due gruppi.

La frequenza al culto più assidua si opponeva maggiormente al divorzio come la scarsa partecipazione al culto di uno dei due coniugi accresceva la probabilità di divorzio. Un altro elemento che contrastava il divorzio è stata la omogamia. I coniugi della medesima confessione (cattolici e gruppi cristiani conservatori) hanno divorziato in percentuale minore rispetto ai coniugi di confessioni diverse.

Come si può vedere da questi dati è possibile cogliere solo le tendenze generali e molto approssimativamente in quanto gli indici sono calcolati su gruppi confessionali molto eterogenei (cattolici, protestanti di differenti confessioni). Con ciò si spiega anche l’alta percentuale (il 49%) dei divorziati appartenenti alle varie confessioni. Nonostante ciò la convergenza di tali risultati è impressionante.

2.1.2. Soddisfazione del matrimonio

La partecipazione al culto dei coniugi ha avuto un effetto molto modesto sulla soddisfazione del matrimonio (r = .074). Sembra che la semplice partecipazione al culto di una determinata confessione contribuisca poco alla soddisfazione del marito e della moglie con il loro matrimonio. Gli autori notano però che, se viene rilevato un impegno personalizzato al culto (preghiera, lettura della Bibbia), tale effetto cresce sensibilmente (r = .15).

2.1.3. Coinvolgimento nel matrimonio

Come detto precedentemente, il coinvolgimento indica intensa partecipazione al matrimonio con un forte desiderio di coltivarlo e potenziarlo reciprocamente. Tra la religiosità e il coinvolgimento nel matrimonio è risultata notevole correlazione (r = .191). Inoltre con l’aumento della religiosità cresceva anche il coinvolgimento. In alcuni studi l’indice superava notevolmente l’indice medio (.191) ammontando al valore di .25 e in qualche caso anche a .30, confermando il rapporto effettivo tra le due variabili (religiosità e coinvolgimento).

2.1.4. Conflitti verbali

Nonostante le esortazioni che i coniugi sentono durante le celebrazioni religiose di controllare la loro impulsività, l’effetto, stando ai dati delle ricerche, è nullo. In qualche singolo studio è stato riscontrato che i coniugi di religiosità più elevata sono stati più collaborativi e hanno gestito in modo più costruttivo i loro disaccordi (Mahoney et al., 1999).

In quanto alla violenza in famiglia, visti i pochi studi pubblicati, non è stato possibile valutarne l’effetto della religiosità.

2.1.5. Valore delle ricerche

Nonostante le difficoltà metodologiche, Mahoney et al. (2001) sostengono che alcuni importanti risultati sono emersi dall’analisi dei 94 studi. L’intensa religiosità e la omogamia religiosa dei coniugi risultano correlate in modo consistente (positivamente o negativamente) e stabile con l’indice di divorzio, con una maggiore soddisfazione del matrimonio, con un più profondo coinvolgimento nel rapporto stesso.

Conviene pure sottolineare, proseguono gli autori, che i risultati emersi dalla metaanalisi sono stati replicati con campioni nazionali o regionali, utilizzando per di più indici di religiosità piuttosto generali. I risultati sono stati ottenuti con coniugi di svariata provenienza (sociale, etnica, culturale e professionale) e quindi non possono essere dovuti a campioni selezionati.

È stato tenuto conto anche delle variabili età, istruzione e livello sociale per accertare se l’effetto positivo non fosse dovuto a esse anziché alla religiosità. Benché gli indici riportati esprimessero solo un moderato effetto della religiosità sul benessere dei coniugi, essi risultarono altamente significativi a causa dell’elevato numero dei campioni utilizzati (in vari casi di parecchie migliaia). In sintesi, i dati confermano pienamente che la religiosità rende il matrimonio qualitativamente migliore.

2.1.6. Studi singoli

I dati della metaanalisi possono essere completati con alcuni recenti studi singoli che non sono stati utilizzati nella metaanalisi.

Tremblay et al. (2002) hanno esaminato un centinaio di coppie stabili da molti anni (l’età media degli sposi era 41 anni). Tremblay ha verifìcato l’effetto della religiosità tenendo conto della sua intensità (bassa, media e alta) e della soddisfazione del matrimonio. L’autore ha notato che alla religiosità alta (intensa) corrispondeva anche la soddisfazione più intensa del matrimonio. Fiese e Tomcho (2001 ) hanno formato un campione di 120 famiglie: coniugi sposati in media da nove anni con almeno un figlio in età prescolare.

I coniugi per il 50% erano cattolici e per il 30% protestanti. I dati sono stati raccolti con l’intervista e con un breve questionario. È stata rilevata anche la provenienza dei coniugi dalla loro famiglia per accertare la continuità nella loro vita religiosa. Dai dati è emerso con evidenza che la partecipazione d’insieme dei coniugi al culto è stata maggiormente correlata con la soddisfazione del matrimonio. La continuità generazionale della pratica religiosa ha poi esercitato un ulteriore beneficio sul loro matrimonio.

Csarny et al. (2000) hanno esaminato la religiosità di 380 adulti, in prevalenza cattolici, nelle seguenti componenti: tempo dedicato alla preghiera, partecipazione al culto, presenza di Dio nella loro vita, e altre ancora. Gli autori hanno raccolto anche le informazioni sulla soddisfazione articolata in tre aspetti: soddisfazione della vita, soddisfazione del matrimonio e soddisfazione nei rapporti intimi. I tre indici della religiosità sono risultati correlati positivamente con i tre della soddisfazione e nello stesso tempo la religiosità era in netta opposizione con razzismo, con esperienze extraconiugali e con pratiche sessuali di lieve o di notevole devianza.

Sullivan (2001) ha cercato di chiarire se nel caso di un matrimonio infelice la religiosità dei coniugi avrebbe potuto compensare la mancata soddisfazione. A tale scopo ha seguito per cinque anni sessanta coppie appartenenti a tre confessioni (protestanti, cattolici e ebrei). Il modello compensativo non è stato confermato. La pratica religiosa, per quanto intensa, non può supplire alla mancata soddisfazione nel matrimonio. Per il resto, Sullivan ha riscontrato gli stessi benefici della religiosità sul matrimonio riscontrati nella metaanalisi sopra riportati.

I risultati dei quattro studi sono allineati ai dati della metaanalisi e rinforzano ulteriormente l’effetto positivo della religiosità sul benessere dei coniugi nel loro matrimonio.

2.1.7. Omogamia

Abbiamo già parlato dell’effetto positivo dell’omogamia sulla qualità del matrimonio e ora conviene esaminarla in modo più dettagliato. Prima di tutto si tratta di una omogamia religiosa che consiste nel fatto che il marito e la moglie appartengono alla medesima religione o confessione e partecipano insieme alle funzioni religiose. È stato detto che essa esercita una benefica influenza sul matrimonio sotto gli aspetti già sopra esposti. La omogamia ha poi il suo prolungamento nei figli, creando una continuità generazionale nella pratica religiosa.

Negli ultimi decenni l’omogamia è calata notevolmente e di conseguenza è diminuita anche la sua influenza sul matrimonio. Infatti è noto che è avvenuta una trasformazione strutturale della società con una progressiva secolarizzazione della vita pubblica. Nello stesso periodo sono avvenuti anche cambiamenti nel ruolo di genere, è aumentata la presenza delle donne nelle professioni, si sono trasformati i rapporti tra membri della famiglia, si è realizzato un progressivo declino nell’accettazione degli insegnamenti delle autorità religiose ed è sorto un notevole divario tra la pratica religiosa del genitori rispetto ai loro figli.

Di conseguenza anche l’omogamia ha subito una trasformazione intergenerazionale. Dagli studi precedenti a tale periodo risultava che la qualità del matrimonio in buona parte dipendeva dall’omogamia che consisteva nell’intensità della religiosità dei coniugi, nell’accordo tra la fede religiosa e la congiunta partecipazione al culto.

È stato anche notato che la qualità del matrimonio diminuiva quando avveniva l’opposto e cioè quando i coniugi appartenevano a differenti confessioni e di conseguenza non partecipavano insieme al culto, oppure quando uno dei due era religiosamente indifferente.

Myers (2006) ha voluto esaminare l’effetto della omogamia sulla qualità del matrimonio nel periodo dal 1980 al 1997 nella sua trasformazione. Egli ha tratto i dati da una ricerca longitudinale della durata di 17 anni intitolata Maritai Instability over the Life Course. Durante i 17 anni si sono formate cinque onde generazionali. Il campione è stato composto da 2.033 persone sposate (non necessariamente coppie).

L’iniziale rilevazione dei dati del campione è stata effettuata nel 1980 e quella finale nel 1997. Tra i due termini (iniziale e finale) sono state condotte altre tre rilevazioni a distanza di tre o cinque anni. Man mano che i figli dei genitori del campione crescevano venivano raccolti anche i loro dati.

I coniugi (o i singoli sposi) hanno risposto a un breve questionario per pronunciarsi sul loro matrimonio — se soddisfacente o meno — e su altri dieci aspetti del loro rapporto. E stata esaminata anche la stabilità del matrimonio in quanto propendevano o meno al divorzio. Anche l’omogamia è stata valutata per mezzo dei dati ottenuti da un questionario per stabilire se i coniugi erano della stessa confessione, se si comportavano secondo gli insegnamenti dati e se partecipavano alle funzioni religiose insieme. Le ulteriori informazioni riguardavano il ruolo di genere e la distribuzione dei compiti in famiglia. Riportiamo ora i risultati.

L’omogamia religiosa ha esercitato la sua influenza in modo consistente sulla felicità e sulla stabilità del matrimonio. La felicità e la stabilità aumentavano in rapporto alla maggiore partecipazione dei coniugi al culto insieme. L’effetto positivo dell’omogamia ha subito però un notevole calo sulla qualità del matrimonio dal 1980 in poi in quanto, per le ragioni sopra esposte, è calato il numero dei coniugi con l’identica confessione come pure la frequenza della partecipazione al culto.

Il deterioramento dell’omogamia ha avuto una ripercussione negativa sulla felicità delle coppie e sulla stabilità del loro matrimonio. Nello stesso periodo (dagli anni ’80 in poi) è diminuita anche la partecipazione congiunta alle funzioni religiose dei coniugi. Il positivo effetto dell’omogamia è diminuito notevolmente nella qualità del matrimonio dei figli delle coppie con le quali è partita la ricerca. I figli si sono mostrati molto critici verso gli insegnamenti impartiti dalle autorità delle tre confessioni (protestante, cattolica ed ebraica).

Il calo è risultato evidente nella soddisfazione e nella stabilità del matrimonio. Nonostante ciò l’effetto positivo sul matrimonio continuava a sussistere (benché in minore intensità) anche dopo che sono state considerate le variabili che hanno provocato la trasformazione strutturale della società e precisamente: il genere, la professione e la situazione della famiglia. In altre parole, l’effetto positivo dell’omogamia così forte nel periodo precedente agli anni ’80 non è dipeso da tali variabili, ma dalla pratica religiosa dei coniugi. Myers (2006) ha riassunto i dati della sua ricerca in quattro punti:

1. Il positivo rapporto tra omogamia e la qualità del matrimonio si è indebolito progressivamente dal 1980 in poi.

2. L’indebolimento dell’effetto della omogamia è stato causato dal cambiamento intergenerazionale.

3. L’indebolimento dell’effetto è dipeso principalmente da tre cause: dall’atteg­giamento critico delle giovani generazioni nei confronti delle autorità religiose; dal calo nella partecipazione al culto e dalla trasformazione della società nei ruoli e nei rapporti nella famiglia.

4. Nonostante ciò la omogamia, dove viene praticata, continua a esercitare la sua positiva influenza sul matrimonio anche nelle nuove generazioni.

La situazione che si è creata negli ultimi decenni e le conclusioni di Myers dovrebbero far riflettere gli educatori e in modo particolare i giovani che fanno i loro progetti per la vita.

3. Coabitazione

Abbiamo constatato il benefico effetto della religione sul matrimonio, dovuto ai principi religiosi che lo proteggono dallo scioglimento e ne potenziano la qualità. Con il calo della religiosità e della partecipazione al culto sono diminuiti anche i matrimoni e si è diffusa progressivamente la coabitazione, particolarmente tra le giovani coppie. La coabitazione è in netto contrasto con l’insegnamento delle principali confessioni e non viene ammessa neppure come fase preparatoria al matrimonio.

L’esame della coabitazione può mettere in risalto meglio il contributo che la religione da alla qualità del matrimonio. Riporteremo perciò come essa è in se stessa e poi esamineremo il suo effetto sul matrimonio in quanto molte coppie coabitanti si sposano.

3.1. La qualità della coabitazione

Dato che la coabitazione si è molto diffusa negli ultimi decenni, è stato possibile raccogliere ricchi dati in base ai quali viene concluso quanto segue in modo pressoché concorde sui suoi effetti: la qualità della vita delle coppie che coabitano è minore rispetto alle coppie sposate; l’instabilità della vita d’insieme è maggiore in quanto il numero delle coppie che coabitano e si separano è maggiore rispetto al numero dei divorzi degli sposati; le coppie che coabitano, rispetto a quelle sposate, sono afflitte da frequenti litigi, dall’interazione negativa, dalla scarsa comunicazione e dallo scarso impegno di coltivare il loro rapporto (Brown et al., 2006).

In base a queste constatazioni la coabitazione risulta una modalità in netto contrasto con gli obiettivi di una vita comune stabile, soddisfacente, basata sui progetti a lungo termine e sul potenziamento del mutuo rapporto. Molte coppie che coabitano se ne rendono conto e hanno intenzione di sposarsi perché considerano la coabitazione un periodo di prova per decidere in seguito se contrarre o meno il matrimonio (religioso o civile).

3.2. L’effetto della coartazione sul matrimonio

A prima vista sembrerebbe che la coabitazione, pur presentando i problemi suesposti, se si conclude con il matrimonio non porta nessuno strascico e quindi non produce nessuna conseguenza. Brown et al. (2006) hanno voluto verificare se le coppie che si sono sposate dopo una breve o lunga coabitazione hanno evitato i rischi della loro precedente coabitazione come la scarsa soddisfazione nel rapporto e lo scioglimento del vincolo con il divorzio.

Naturalmente gli autori hanno tenuto conto, nella verifica delle variabili demografiche, delle specifiche situazioni della coabitazione e poi del matrimonio (religioso o civile). Tra le coppie che hanno coabitato e poi si sono sposate e quelle che hanno continuato a coabitare avrebbero dovuto esservi delle notevoli differenze nella soddisfazione e nella stabilità.

Prima di passare all’esposizione del metodo e dei risultati del loro studio è opportuno esporre l’iniziativa di alcuni professionisti americani (avvocati, giudici, psicoterapeuti), i quali, ispirandosi al Defense of Marriage Act, hanno cercato di utilizzare le leggi di alcuni Stati per proporre ai giovani che intendevano sposarsi (con un qualsiasi rito) di scegliere il cosiddetto covenant marriage per arginare il tanto diffuso divorzio.

Per covenant marriage si può intendere un patto solenne tra un uomo e una donna di considerare il loro vincolo indissolubile e da vivere in reciproca fedeltà. Per i cattolici il matrimonio religioso è già tale ma anche le coppie di altre confessioni, persino quelle religiosamente indifferenti, potrebbero contrarre il covenant marriage. Il covenant marriage si eleva sul matrimonio standard (comune) celebrato nelle varie confessioni con differenti riti, compreso quello civile.

Prima di fare il solenne patto i futuri coniugi devono prepararsi al matrimonio con cura e durante il rito devono promettere che nelle loro crisi ricorreranno al sacerdote, ministro, pastore o rabbino per avere il necessario sostegno. Devono anche promettere che faranno il possibile per tenere saldo il loro vincolo per tutta la vita. Il divorzio è ammesso solo per cause contemplate dal diritto e l’incompatibilità di carattere non è motivo sufficiente per divorziare.

Esporremo il metodo e i risultati della ricerca e useremo le abbreviazioni CM per covenant marriage e MS per matrimonio standard.

3.3. Metodo e risultati

Brown et al. (2006) hanno scelto 389 coppie per seguirle per cinque anni, raccogliendo le informazioni per mezzo dell’intervista in tre tempi diversi a distanza di alcuni mesi e denominandole «onde». Per mezzo dell’intervista hanno cercato di accertare la stabilità del matrimonio, la soddisfazione reciproca e il rischio di divorziare.

E’ stata rilevata anche la «dipendenza» dei coniugi dal matrimonio (tenere il matrimonio in grande considerazione e volerlo potenziare) per evitare il rischio di divorzio. Sono state raccolte anche informazioni sui fatti avvenuti prima del matrimonio: problemi finanziari, uso di sostanze dannose, debiti, malattie, precedenti legami affettivi e i fatti emersi durante il matrimonio: differenze confessionali, importanza della religione, nascita del figlio durante la coabitazione oppure dopo il matrimonio.

I risultati ottenuti da Brown et al. (2006) danno la risposta sull’effetto della coabitazione sul matrimonio che l’ha seguita. Prima di tutto le coppie che hanno scelto CM hanno coabitato in percentuale minore delle coppie che hanno contratto il MS. Mentre il 66% delle coppie standard hanno coabitato prima del matrimonio, solo il 29% dei coniugi del CM ha coabitato.

Tra le coppie che hanno coabitato e poi hanno scelto il CM, l’instabilità del matrimonio è risultata doppia rispetto alle coppie che non hanno coabitato. Le coppie che non hanno coabitato sono risultate essere più soddisfatte del matrimonio delle coppie che hanno prima coabitato.

La dipendenza dal matrimonio (tenere il matrimonio in grande considerazione e volerlo potenziare) è risultata maggiore nelle donne che non hanno prima coabitato rispetto a quelle che hanno coabitato, ma questo non valeva per gli uomini. Mentre il 20% dei coniugi che ha coabitato e in seguito ha contratto il CM ha divorziato, solo il 10% delle coppie che hanno scelto il CM hanno divorziato.

Come si vede da questi dati la coabitazione esercita la sua negativa influenza anche sul matrimonio che segue dopo la coabitazione. Esporremo i motivi per cui viene scelta la coabitazione e non il matrimonio con i dati di una recente ricerca. Intanto riportiamo la conclusione di Brown et al. (2006) i quali sostengono che le coppie che si decidono per la coabitazione, anche se poi la terminano con il matrimonio, intendono investire in esso minore sforzo e minori risorse personali. L’effetto della coabitazione è tale, concludono gli autori, che neppure il CM elimina del tutto i suoi effetti negativi.

3.4. Cause dell’effetto della coabitazione

Dush, Cohan e Amato (2003) hanno voluto chiarire le ragioni per le quali la coabitazione in se stessa è inferiore al matrimonio (in quanto a soddisfazione e stabilità) e perché esercita una influenza negativa sul matrimonio che la segue. Per dare la risposta a questa domanda gli autori hanno tratto i dati da una ricerca longitudinale di 1425 coniugi che si sono sposati tra il 1964 e il 1980 e tra il 1981 e il 1997.1 due periodi sono stati scelti appositamente in quanto nel primo periodo la coabitazione è stata rara mentre nel secondo si è estesa notevolmente.

Con la scelta dei due campioni gli autori intendevano chiarire le ragioni per cui la coabi­tazione è meno stabile e meno soddisfacente del matrimonio. Essi hanno supposto che dal confronto dei dati ottenuti dai due campioni (chiamati coorte) avrebbero potuto capire se l’effetto sul matrimonio fosse dovuto a una specifica struttura di personalità dei coabitanti oppure all’esperienza stessa della coabitazione.

Dush, Cohan e Amato (2003) hanno motivato la prima supposizione con la nota constatazione che quando un fenomeno si diffonde non è più soggetto alle sanzioni e alla disapprovazione sociale e perde con ciò le sue conseguenze negative. In altre parole, le coppie coabitanti non dovrebbero sentirsi differenti rispetto alle coppie sposate e perciò vivrebbero la loro vita d’insieme serenamente e con soddisfazione. La seconda supposizione è fondata sulla natura stessa della coabitazione che, non essendo un legame che garantisce la stabilità (come nel matrimonio), non può essere gratificante.

Dal confronto dei dati dei coniugi delle due coorti (del primo periodo con quello del secondo) di coppie che prima del matrimonio hanno coabitato è emerso che non sono state riscontrate delle differenze significative in quanto entrambi i gruppi risultavano insoddisfatti del matrimonio e hanno divorziato in numero maggiore rispetto ai coniugi che non hanno coabitato prima del loro matrimonio. Gli autori hanno pure notato che tale risultato non è cambiato neppure dopo che hanno tenuto in conto i fattori demografici.

Dato che non è avvenuta nessuna riduzione dell’effetto negativo della coabitazione tra le due coorti, Dush, Cohan e Amato (2003) hanno sostenuto che è la stessa coabitazione che causa tale effetto. Indipendentemente dalle caratteristiche di personalità, la coabitazione per sua natura mina la qualità della vita insieme.

L’assenza di un legame stabile crea l’incertezza sul futuro della vita in comune e la probabilità che fa vita in comune si dissolva riduce lo sforzo per superare le difficoltà che sorgono normalmente in ogni rapporto di coppia. Alla luce dei dati empirici gli autori concludono che non vi è nessuna probabilità che le negative conseguenze della coabitazione spariranno quando essa si diffonderà maggiormente.

4. Conclusione

In due precedenti studi abbiamo riportato che la religione esercitava il suo ruolo protettivo contro i comportamenti nocivi e nello stesso tempo contribuiva a promuovere il benessere fisico e psichico di tutti quelli che la vivevano con coerenza. In questo studio abbiamo voluto estendere la verifica del suo duplice effetto (protettivo e promozionale) sul matrimonio. Accanto alla verifica della religione sul matrimonio abbiamo voluto esaminare la qualità di una forma «parallela» al matrimonio e cioè la coabitazione.

È noto che la coabitazione consiste nel vivere insieme di una coppia senza alcun vincolo formale ed è in netto contrasto con l’insegnamento delle principali religioni (cattolica e ebraica) e in parte anche con le confessioni protestanti e per questa ragione è in stretto rapporto con la religione. In quanto essa viene considerata come alternativa al matrimonio, il confronto tra le due modalità della vita di insieme della coppia può mettere in risalto i pregi dell’uno e i notevoli limiti dell’altra.

Dagli studi esaminati è emerso con evidenza che la religione contribuisce notevolmente alla qualità del matrimonio rendendolo più stabile, promovendo la reciproca soddisfazione dei coniugi e coinvolgendoli più profondamente nel loro rapporto. Un notevole contributo a tale effetto positivo è venuto anche dall’omo-gamia nel suo duplice aspetto: nell’appartenenza dei coniugi alla stessa confessione e nella loro assidua partecipazione alle funzioni religiose.

Lo sforzo dei ministri di culto (sacerdoti, pastori, rabbini) da sempre è stato quello di scoraggiare i matri­moni misti. I dati delle ricerche ne hanno confermato la validità. Sfortunatamente, come ha bene documentato Myers (2006), l’omogamia è in progressivo calo sia nella convergenza delle confessioni dei coniugi come pure nell’intensità e nella frequenza di partecipazione al culto ma dove essa è praticata continua a esercitare la sua positiva influenza sul matrimonio anche delle giovani generazioni.

In base alle ricerche la coabitazione è emersa negativa in se stessa e anche quando si conclude con il matrimonio (religioso o civile) mina la sua stabilità e lo rende meno soddisfacente. Sembra che essa bruci l’entusiasmo giovanile che non viene più recuperato neppure con il matrimonio. Infatti dalla ricerca di Dush, Cohan e Amato (2003) è emerso che nella maggior parte delle coppie gli stessi motivi per i quali i due hanno optato per la coabitazione (non volersi assumere l’impegno per tutta la vita, lo scarso desiderio di potenziare il rapporto con una impegnativa maturazione) si protraggono anche nel matrimonio provocando i noti effetti negativi.

Importante è anche il fatto che l’ipotesi degli autori citati, secondo la quale la coabitazione estendendosi avrebbe perso i suoi effetti dannosi, non è stata confermata e il suo effetto è rimasto uguale nei due periodi della loro ricerca; si dimostra così che essa è negativa per sua natura. Gli autori riconoscono che non vi è nessuna probabilità che con la sua estensione le conseguenze negative spariranno.

Dai risultati esposti può essere tratto qualche consiglio operativo. Prima di tutto i genitori devono rendersi conto dell’importanza della religione nel progetto di matrimonio dei loro figli. Nella parte introduttiva dello studio sono stati esposti gli insegnamenti sul matrimonio che dovrebbero essere delle guide anche nella progettazione dei giovani per la vita d’insieme. Per salvaguardare i figli dalla scelta della coabitazione, l’unico modo è quello di vivere intensamente la reli­gione nella forma istituzionale. Dalle ricerche è pure emerso che più intensa è la partecipazione al culto e maggiore è il suo effetto sul matrimonio nelle sue note componenti fondamentali.

In quanto al rischio di scegliere la coabitazione come forma di vita in comune, è ben noto che chi imbocca tale strada abbandona presto la partecipazione alle funzioni religiose, mentre la coppia che contrae il matrimonio accrescerà la pratica religiosa. I ministri di culto che svolgono la loro opera tra la gioventù dovrebbero illustrare le conseguenze negative della coabitazione ed esporre con chiarezza che solo un vincolo religioso può rendere stabile e soddisfacente la vita d’insieme di due persone.

Note

1) La metaanalisi è un metodo statistico con cui vengono esaminate le ricerche dei vari autori su un determinato argomento per riassumere i principali dati ottenuti e per integrarli in modo da offrire un quadro aggiornato sull’argomento. Le ricerche vengono scelte in base a precisi criteri e il risultato dell’analisi viene espresso con l’indice d oppure con il coefficiente di correlazione r. Maggiori sono i due indici e con maggiore probabilità sarà confermata l’ipotesi che i due o più gruppi si differenziano effettivamente e la differenza

Bibliografia

Brown S.L. et al. (2006), Links between premarital cohabitation and subsequent marital quality, stability, and divorce: A comparison of covenant versus standard marriages, «Social Science Research», voi. 35, pp. 454-470.

Csarny R.J. et al. (2000), An evaluation of the incremental validity of the Spiritual Experience Index-Revised. In J.M. Greer e D.O. Mobert (a cura di), Research in the racial scientific study of religion, Stamford, JAI Press, vol. l, pp. 117-131.
Dush C.M., Cohan C.L. e Amato P.R. (2003), The relationship between cohabitation and marital quality and stability: Change across cohorts?, «Journal of Marriage and the Family», vol. 65, pp. 539-549.
Fiese B.H. e Tomcho T.J. (2001), Finding meaning in religious practices: The relation between religious holiday rituals and marital satisfaction, «Journal of Family Psychology», vol. 15, pp. 597-609.
Mahoney A. et al. (1999), Marriage and the rote of proximal and distal religious constructs in marital functioning, «Journal of Family Psychology», vol. 13, pp. 321-338.
Mahoney A. et al, (2001), Religion in the home in the 1980s and 1990s: A meta-analytic review and conceptual analysis of links between religion, marriage, and parenting, «Journal of Family Psychology», voi. 15, pp. 559-596.
Myers S.M. (2006), Religious homogamy and marital quality: Historical and generational patterns, 1980-1997, «Journal of Marriage and the Family», vol. 68, pp. 292-304. Polàcek K. (2000), L’apporto della religione allo sviluppo umano, «Orientamenti Pedagogici», vol. 47, pp. 495-504. Polàcek K. (2007), // contributo della religione al benessere fisico e psichico: Conferme empiriche.
In M. Sodi (a cura di), Ubi Petrus ibi Ecclesia: Sui «sentieri» del Concilio Vaticano II, Roma, LAS, in corso di stampa.
Sullivan K.T. (2001), Understanding the relationship between religiosity and marriage: An investigation of the immediate and longitudinal effects of religiosity on newlywed couples, «Journal of Family Psychology», vol. 15, pp. 610-626.
Tremblay J. et al. (2002), Valeur prévisionnelle de la différentiation de soi et des stretégies religieuses d’adaptation dans l’elude de la satisfaction coniugale, «Revue Canadienne des Sciences du Comporteraent», voi. 34, pp. 19-27.