Un libro scomodo

jihad_coverper Rassegna Stampa

Rino Cammilleri

Se oggi l’Occidente deve convivere con la minaccia del terrorismo islamico ed è costretto a scusarsi continuamente per ogni parola “sbagliata”, lo si deve alla politica di Clinton e a quella europea nella ex Jugoslavia. A quel tempo, come si ricorderà, al governo da noi c’era D’Alema, che mandò i nostri caccia a bombardare i serbi.

Di fatto, l’amministrazione Clinton in quella guerra fu tirata quasi controvoglia dall’indecisione europea, e già aveva dato scarsa prova bellica di sé nell’operazione Restore hope in Somalia, quando bastarono le «tecniche» (mitragliatrici montate su furgoncini) dei «signori della guerra» a far scappare i marines, come mostrò in qualche modo il regista Oliver Stone nel suo film Black Hawk Dawn. La fuga dell’Occidente dalla Somalia abbandonò quel pezzo d’Africa alle odierne «corti islamiche» che applicano a tappeto la shari’a.

Nel caso della ex Jugoslavia fu ancora peggio, perché quelli che si opponevano alle milizie musulmane furono combattuti, diplomaticamente e militarmente, dall’Onu, la Nato, la Ue e gli States. E’ quanto sostiene un libro tedesco che ha fatto scalpore, Wie der Dschijad nach Europa kam (edizioni NP Verlag), di Jürgen Eslässer, poi tradotto in Francia da Xenia Editions col titolo Comment le djihad est arrivé en Europe, cioè «Come la jihad è giunta in Europa».

Riporta l’autore che già nel gennaio 1997 al Congresso americano venne presentato un rapporto, suggerito dal capo dell’antiterrorismo Clarke, che accusava l’amministrazione Clinton di aver permesso che in Europa si installassero estremisti provenienti dall’Iran e altri Paesi musulmani, con ciò favorendo l’internazionale terroristica di matrice islamica.

Nel rapporto si arrivava a chiedere la messa in stato d’accusa del Presidente (empeachment), cosa che però non ebbe luogo (quasi ci riuscì, invece, lo scandalo sessuale Lewinski). Oggi, ricorda l’agenzia «Corrispondenza romana», Bill Clinton gira il mondo per tenere conferenze simil-pacifiste, ma Eslässer punta il dito proprio contro la sua politica di allora, perché gli attentati terroristici a New York, a Madrid e Londra sono stati tutti organizzati da gruppi musulmani formatisi nella guerra di Bosnia, nella quale l’egiziano al-Zawahiri, oggi capo militare di al-Qaida, faceva da fornitore di armi. Insomma, le premesse di quanto accade oggi vanno ricercate nei due conflitti balcanici, quello in Bosnia (1992-95) e quello fra Serbia, Kosovo e Albania (1995-99).

Una politica non solo poco lungimirante ma a tutt’oggi suicida, perché la colpa di quella crisi venne caricata addosso alla sola Serbia e l’Occidente prese di fatto le parti dei musulmani «perseguitati», aiutando formazioni guerrigliere come l’Uck albanese. Queste organizzazioni, finanziate da non pochi Paesi islamici, arruolarono veterani provenienti dalla guerriglia afghana e da quella palestinese. Dopo la dipartita delle forze armate occidentali esse si distinsero nella persecuzione e talvolta anche nel massacro delle comunità cristiane rimaste nella regione.

Sulla distruzione sistematica di chiese, monasteri e opere d’arte cristiane (e loro sostituzione con moschee) calò il sipario del silenzio, e proprio da parte di quei politici e diplomatici, nonché dei media, che non avevano esitato a denunciare le malefatte serbe (quando non le avevano letteralmente inventate, come nel caso della presunta strage nel mercato di Sarajevo). Così, bombardando i serbi per costringerli a ritirarsi dalle loro province kosovare e macedoni, di fatto si sgombrò il campo dall’unico ostacolo alla formazione di veri e propri stati musulmani nel cuore dell’Europa.

Negli anni Settanta l’Occidente finì col favorire l’avanzata dei musulmani in Libano e il pesante protettorato siriano su di esso. Negli anni Novanta favorì il successo delle milizie islamiche appoggiate dall’Iran, dalla Siria e perfino dal quella Turchia che oggi preme per entrare nella Ue. Nel 2006 praticamente costringe addirittura il Papa a scusarsi per aver criticato l’islam. Peccato che Bush jr. non abbia figli maschi cui lasciare la presidenza.