Laico cioè cristiano

Benedetto XV

Giacomo Della Chiesa – Benedetto XV

30 Giorni n.4-2006

Benedetto XV promosse la carità, la pace e la libertà dei figli di Dio attraverso il rispetto per le persone e per le istituzioni. Quarta e ultima puntata della rassegna dei papi che hanno preso il nome Benedetto

di Lorenzo Cappelletti

Dopo che l’ultima pagina del pontificato di Pio X (1903-1914) «era stata voltata da una mano onnipotente e invisibile», scrivevano i gesuiti di Etudes nel settembre 1914, «ci troviamo ora di fronte un’altra pagina ancora tutta bianca, il cui titolo menziona semplicemente il nome di un nuovo papa: Benedetto XV. Quali parole, quali atti registrerà domani la storia del papato? Che dirà la pagina bianca?».

Quella pagina è scritta ormai da quasi un secolo, ma non deve essere stata di facile decifrazione, se le biografie dedicate a Giacomo Della Chiesa, diventato papa Benedetto XV (1914-1922), parlano tuttora di un papa sconosciuto o addirittura misconosciuto.

«L’apparenza non mi è favorevole» scriveva d’altronde lui stesso con fine autoironia, in una lettera del 21 dicembre 1898 al suo antico collega dell’Accademia dei nobili ecclesiastici Teodoro Valfrè di Bonzo (parte di un prezioso carteggio pubblicato nel 1991 su Civitas dal compianto Giorgio Rumi). E basta guardare ai suoi ritratti, per quanto benevoli, per capire che non aveva le physique du rôle.

«Era di statura inferiore alla media e un po’ curvo», scriveva Francis MacNutt, un altro suo collega dell’Accademia, anzi «tutto in lui era ricurvo: naso, bocca, occhi e spalle – tutto era privo di disegno». Anche dal suo curriculum non sembrava emergere altro che un mediocris homo, come dirà il cardinal Agliardi alla vigilia dell’elezione a papa di Giacomo Della Chiesa. Diligente, certo, meticoloso, ma come un «mero burocrate», sempre secondo Agliardi.

Chi avrebbe immaginato che ci fosse un preciso disegno su quel “piccoletto”, come veniva chiamato in Curia, e che in lui vibrasse una fiamma di carità che a suo tempo gli avrebbe suggerito cose ragguardevoli? Eppure la storia della Chiesa avrebbe dovuto e dovrebbe insegnare che proprio lo stare alla forma tramandata – la specialità di Giacomo Della Chiesa – è stato decisivo, molto spesso più decisivo di virtù appariscenti, nel proteggere l’essenza della carità e della fede cristiana.

A differenza dei suoi predecessori e successori immediati sulla sede di Pietro (fatta eccezione per Pio XII), Giacomo Della Chiesa era un “cittadino”. Era nato nel 1854 in una famiglia di ascendenza nobiliare e di tenore di vita borghese in quella Genova che, come sa chi la conosce, è stata città per eccellenza fin dal primo Medioevo: alcune sue antiche torri ancora gareggiano con i moderni grattacieli che sempre là hanno fatto la loro prima apparizione in Italia.

Non solo cittadina, ma laica fu la sua formazione, tanto che, a detta di alcuni che pretendevano riferirsi a parole pronunciate dallo stesso Benedetto XV, non vantava chissà quale competenza teologica. In effetti dapprima si laureò in giurisprudenza presso l’Università di Genova, nel mentre frequentava da esterno i corsi di filosofia e di teologia del locale seminario. Corsi che avrebbe poi completati a Roma, alla Gregoriana.

Giacomo infatti nel 1875 giunge a Roma come alunno del Collegio Capranica, nel momento in cui la Città eterna si stava adattando a diventare la capitale dell’Italia unita. Sarà ordinato sacerdote il 21 dicembre 1878, in quello stesso anno in cui, dopo un pontificato di durata insuperata, a Pio IX (1846-1878) era succeduto Leone XIII (1878-1903). Nei due anni successivi frequenterà l’Accademia dei nobili ecclesiastici, la scuola della diplomazia pontificia.

Dall’ingresso in diplomazia all’episcopato bolognese

Due nomi, entrambi legati alla diplomazia leonina, da questo momento segneranno più di altri la biografia di Giacomo Della Chiesa: quello di uno straordinario maestro quale fu per lui Mariano Rampolla del Tindaro, il segretario di Stato di Leone XIII con cui si formò a partire dagli anni del suo apprendistato diplomatico fra il 1881 e il 1882; e quello di un pari grado quale fu il suo valente coetaneo Pietro Gasparri, nominato segretario per gli Affari ecclesiastici straordinari nel 1901 in contemporanea con la nomina di Giacomo Della Chiesa a sostituto.

Gasparri, che diventerà poi l’intelligente segretario di Stato di Benedetto XV, ne sarà anche il più significativo continuatore, conservando quell’ufficio durante il successivo pontificato di papa Pio XI (1922-1939). «Fatto quasi senza precedenti nella storia del papato», scrive John F. Pollard in una recente biografia dedicata a Benedetto XV. Eppure Gasparri, nel tratto, era agli antipodi rispetto a Della Chiesa.

A volte – scriveva don Giuseppe De Luca sull’Osservatore Romano il 19 novembre 1952, in un bellissimo ritratto dedicato al cardinale “pecoraio” nel centenario della sua nascita – «il suo sprezzo della forma giunse a estremi deplorevoli, di cui rideva lui per il primo». Cosa li univa dunque? Il punto di contatto fra i due ci piace rintracciarlo, oltre che nello scrupoloso attaccamento al rispettivo ufficio e nel pragmatismo di entrambi, in un sovrano distacco da sé. Infatti, se Gasparri, scrive De Luca nel medesimo articolo, «della forza che sentiva già nella sua natura, e in quell’altra forza che ebbe nelle sue mani quale uomo di governo, diffidò ininterrottamente come di armi pericolosissime», Benedetto, mutatis mutandis, non fu da meno.

Basta rileggere le sue parole al direttore di Civiltà Cattolica nel momento cruciale di poco precedente all’entrata in guerra dell’Italia: «Bisogna distinguere le opinioni personali del papa da ciò che è essenziale per la dottrina. Anche il suo contegno come papa non è imposto a tutti. Il papa è soprannazionale: non fa voti per il trionfo dell’Italia; ma se un cattolico italiano li facesse, non andrebbe contro il papa. Così egli non ha mai detto che la guerra di questa o quella nazione sia giusta o ingiusta». Parole citate da padre Sale nel volume appena uscito Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV.

Ma ritorniamo al cursus honorum di Giacomo Della Chiesa quando ancora non era Benedetto.

Quando Rampolla divenne nunzio a Madrid nel 1883, lo volle con sé e, una volta che come segretario di Stato fu richiamato a Roma nel 1887, di nuovo lo riportò con sé in Curia come minutante. Della Chiesa a lungo ricoprì fedelmente tale ufficio. E nel 1901, come abbiamo già detto, divenne sostituto.

Ma durante il pontificato di Leone XIII, con una rapidità ben più grande di Della Chiesa e di Gasparri, benché fosse molto più giovane, si era fatto strada un altro diplomatico, monsignor Raffaele Merry del Val, che, al momento della chiusura del conclave susseguente alla morte di papa Pecci, come ha ricordato di recente su queste pagine Gianpaolo Romanato (cfr. 30Giorni, n. 1-2, gennaio-febbraio 2006, pp. 86-91), verrà prescelto quale segretario di Stato da Pio X. Fra la sorpresa di tutti, compreso monsignor Della Chiesa, il quale l’8 novembre 1903 scriveva con molti punti esclamativi: «Domani avremo il Concistoro a cui terrà dietro, poco dopo, la nomina definitiva del segretario di Stato! chi l’avesse detto dieci anni fa!!!».

Rampolla fu messo subito da parte. Della Chiesa per un po’ restò al suo posto, ma anche lui al momento opportuno, nel 1907, fu destinato ad altra sede: la sede arcivescovile di Bologna. Certamente vi fu destinato per la stima che si aveva di lui, ma forse anche per vedere come se la sarebbe cavata in una diocesi retta fin lì dall’arcivescovo Domenico Svampa, sospettato di simpatie moderniste e democratico-cristiane per aver protetto fra gli altri don Giulio Belvederi e don Alfonso Manaresi.

Quanto monsignor Della Chiesa scrive con la solita sottile ironia nell’ottobre del 1907 all’amico Teodoro Valfrè di Bonzo (che lo credeva già in procinto di partire per la nunziatura di Madrid) sembra confermare che la destinazione a Bologna non dovesse essere scevra da tali intenzioni: «Non ho risposto telegraficamente al suo cortese telegramma di felicitazioni per la supposta mia nomina a nunzio di Madrid perché mi dispiaceva dare una pubblica smentita alla sua supposizione.

Il fatto è che io non sono né sarò nominato nunzio a Madrid perché il Santo Padre mi vuole… arcivescovo di Bologna. In questo desiderio del Santo Padre ho riconosciuto la volontà di Dio, perché nulla era più alieno da me che il pensiero della possibilità di divenir io arcivescovo di Bologna. Al primo annuncio della pontificia volontà sono stato scosso, e il pensiero della difficile situazione in cui dovrà trovarsi il povero arcivescovo di Bologna aumentò la mia commozione: ma il Signore che mi vuole a Bologna, non mi darà Egli le grazie necessarie per farvi un poco di bene?».

Negli anni del suo episcopato bolognese (su cui si può vedere ora un documentatissimo volume pubblicato da Antonio Scottà nel 2002) evidentemente la grazia di stato lo sostenne se agì non solo con prudenza ma anche con carità pastorale, dando subito luogo a una faticosa visita della diocesi e interessandosi della formazione catechistica e del seminario. Quanto alle tendenze moderniste o sospettate tali, pur applicando con diligenza le disposizioni che venivano da Roma – poteva fare altrimenti? –, non mancò mai di rispetto alle persone – che era quanto poteva fare.

Con tutto ciò fu creato cardinale solo nel maggio 1914, pochi mesi prima di entrare nel conclave da cui sarebbe uscito papa. Forse non è un caso che la berretta cardinalizia non giunse se non dopo la morte di Rampolla, avvenuta nel dicembre precedente. Non si voleva probabilmente che nel Sacro Collegio si ricostituisse e pesasse la loro intesa.

Nel frattempo era scoppiata la guerra, la Grande guerra. C’è stato chi ha detto che a causa di essa Pio X sia morto di crepacuore, ma anche chi, come Pollard, ha affermato che «lui e il suo segretario di Stato cardinale Merry del Val abbiano contribuito ad  affrettare la guerra suggerendo inopportunamente a Francesco Giuseppe che l’Austria aveva ragione e che doveva umiliare la Serbia».

In ogni caso, la maggior parte degli storici concordano che, nel conclave successivo alla morte di Pio X, più che considerazioni relative alla guerra appena scoppiata abbia avuto maggior peso il dibattito tutto interno fra una linea di intransigenza e un’altra di moderazione rispetto alle tendenze moderniste vere o presunte.

L’elezione a pontefice

Proprio perché rappresentava questa posizione più moderata, Della Chiesa, anche se giunto al cardinalato da pochi mesi, era fra i papabili e fu papa, nonostante la resistenza dall’inizio alla fine del conclave da parte di coloro che avrebbero voluto mantenere la barra sulla rotta dell’intransigenza.

Anche durante il suo pontificato costoro fecero spirare venti di fronda tanto più insidiosi quanto più spiravano da presso al Pontefice. Furono chiamati il “Vaticanetto”. Ancora due mesi prima della morte di Benedetto XV Merry del Val, criticandolo, scriveva in una lettera privata che bisogna «rifuggire dalle tattiche della politica umana […]. In un tempo in cui il mondo ha smarrito l’orientamento e cerca ansiosamente un ancoraggio che solo noi siamo in grado di offrire, non dovremmo farci trascinare dalla corrente e apparire come gente disposta a giocare coi principii».

Benedetto non se ne curò e non fece molti cambi. Se non nel caso della Segreteria di Stato, dove, muovendosi per conoscenza diretta di uomini e uffici, operò scelte decisive. Basti ricordare, oltre quello di Gasparri, chiamato al posto di Merry del Val come segretario di Stato dopo l’improvvisa morte di Ferrata, i nomi di Bonaventura Cerretti, di Pacelli, di Ratti, dello stesso Valfrè di Bonzo (e anche di Roncalli e di Montini che mosse allora i primi passi della sua carriera), tutti destinati a incarichi di rilievo durante il pontificato di Benedetto.

Che scelse questo nome non solo in riferimento al santo monaco di Norcia, ma anche, a suo stesso dire (sembra), a Benedetto XIV, che era stato suo predecessore tanto sulla sede bolognese che su quella romana a metà del Settecento: giurista come lui e come lui costretto a difendersi da chi voleva insegnare al papa la dottrina.

Carità e obbedienza sono le categorie chiave della sua prima enciclica programmatica Ad beatissimi del novembre 1914. D’altronde questa era stata la cifra che aveva contraddistinto l’operosità di monsignor Della Chiesa e che ne distinguerà il magistero e l’azione anche da papa. Categorie da far valere non solo ad intra (cosa ovvia e forse anche per questo tanto rara a essere praticata), ma anche ad extra, col ribadire, da una parte, il dovere di «mutuo amore fra gli uomini» e, dall’altra, il principio apostolico della soggezione a ogni autorità legittima.

È interessante rilevare che l’enciclica rintraccia la ragione ultima dell’amore vicendevole fra gli uomini nel fatto che Gesù Cristo ha versato il suo sangue per tutti. Il Papa lo ribadisce tre volte. Era appena scoppiata la guerra, e questa insistenza già suggeriva implicitamente quanto fosse inutile qualunque altro spargimento di sangue. La famosa Nota ai belligeranti del 1° agosto 1917, quella della «inutile strage» – che non a caso esordiva Dès le début («Fin dagli inizi del nostro pontificato…») –, non avrebbe fatto altro che esplicitare tale giudizio, consolidato da nuovi più barbari e sanguinosi sistemi di offesa, come quello apertamente richiamato dei bombardamenti aerei.

Lo scopo di quella Nota, peraltro, non era definire né denunciare, bensì offrire una concreta proposta di pace. «Fu la prima volta nel corso della guerra che una qualche persona o potenza avesse formulato uno schema dettagliato o pratico per una negoziazione di pace» (Pollard, 148).

Nella consapevolezza, espressa più volte dal Papa fin dalla Ad beatissimi, che la pace è la condizione perché si realizzi il reciproco amore fra gli uomini: «La pace è un grandissimo dono di Dio: fra le cose terrene non è dato ascoltare niente di più gradevole, né si può desiderare cosa più dolce: insomma non si può trovare niente di meglio» scriverà, citando Agostino, ancora nella Pacem Dei munus.

Ma il nazionalismo di molti governi, ostili a qualunque soluzione che non fosse quella sanguinosa delle armi, determinò il fallimento della proposta del 1917. Pesò in senso negativo anche la situazione di minorità in cui si trovava la Santa Sede dal punto di vista diplomatico. Il papa infatti non godeva più dal 1870 di alcuna sovranità e Merry del Val durante il pontificato precedente aveva favorito, se possibile, un crescente isolamento, quasi facendosi vanto di un arroccamento sui valori: con la Francia, ad esempio, non c’erano stati più rapporti dal 1906. Con la Gran Bretagna da tre secoli e mezzo!

Così a Benedetto XV (nonostante avesse riattivato quei rapporti e molti altri; ma con l’Italia non c’era stata ancora conciliazione) fu concesso giusto di fasciare le ferite prodotte dal conflitto, organizzando collette, scambi di prigionieri, raccolte di informazioni. Le lodi che poi gliene sono venute, a volte sembrano esprimere una riconoscenza direttamente proporzionale alla soddisfazione per la subalternità a cui tale azione era stata ristretta.

Neanche a guerra finita si consentì alla Santa Sede di partecipare alla Conferenza di pace di Versailles della primavera-estate del 1919. Eppure Benedetto e Gasparri erano forse i più acuti analisti, si direbbe oggi, e avrebbero portato un contributo alla pace se questo fosse stato lo scopo della Conferenza di pace. Tant’è vero che intravidero subito che le condizioni imposte ai vinti non avrebbero sopito le ostilità. Così come rilevarono l’impossibile autosufficienza delle nazioni emerse dalla dissoluzione dell’Impero austroungarico. «Una previsione di cui la storia, in modo fin troppo doloroso, ha dimostrato la correttezza», scrive Pollard.

Anche a proposito di un Medio Oriente ridisegnato dalla caduta dell’Impero ottomano, regnava grande preoccupazione in Vaticano: la coesistenza multireligiosa che in fondo quell’Impero aveva garantito, proprio ora stava cominciando a venire meno, come si legge in un bel saggio di Andrea Riccardi dal titolo rivelatore Benedetto XV e la crisi della convivenza religiosa nell’Impero ottomano.

Alcune lucide intraprese

Fin qui il primo versante del pontificato di Benedetto XV dominato dalla emergenza della guerra e durato ben oltre la fine di essa, come abbiamo visto. Il secondo, che cronologicamente in parte interseca il primo, è contrassegnato da alcune lucide intraprese.

Anche se non risalgono tutte al Papa come progetto o non sono direttamente opera sua, devono però a lui se sono diventate realtà: il Codice di diritto canonico, promulgato nel 1917, raccolta iniziata già sotto Pio X e dovuta in gran parte alla competenza e alla laboriosità di Gasparri; sempre nel 1917, il distacco da Propaganda Fide di un’autonoma Congregazione della Chiesa orientale (poi “delle Chiese orientali”) di cui il Papa stesso, proprio per l’interesse che vi annetteva, assunse la presidenza, e la creazione di un Istituto di studi sull’Oriente cristiano.

Atti apparentemente di solo taglio amministrativo, in realtà significativi di una concezione della cattolicità che tale non sarebbe senza le Chiese non latine, come ha ribadito, in un recente convegno svoltosi ad Anagni, l’attuale rettore di quell’Istituto di studi; l’apertura di una nuova stagione missionaria, inaugurata dalla enciclica Maximum illud che programmaticamente liberava l’azione dei missionari dall’intreccio perverso col nazionalismo e col colonialismo, che stava penalizzando soprattutto l’emergere di una gerarchia autoctona in Cina; e infine l’inizio timido ma reale dei primissimi colloqui ecumenici che presero il via a Malines con il benestare del Papa proprio alla vigilia della sua morte.

Riguardo poi all’Italia o meglio alla Questione romana, è attraverso il leale rapporto fra Benedetto e il vecchio compagno di scuola barone Carlo Monti, direttore generale degli Affari di culto e, in via riservata, incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede, che inizia quella “Conciliazione ufficiosa” che dà il titolo ai due volumi recentemente pubblicati del diario del Monti, ricco di «autenticità e di freschezza singolari», come scrive nella prefazione il cardinale Silvestrini.

Così come si deve a Benedetto e a Gasparri se nacque il Partito popolare italiano (l’Appello ai liberi e forti è del 18 gennaio 1919). Non nel senso che l’abbiano voluto. «Il Partito popolare sorse per generazione spontanea senza alcun intervento della Santa Sede né pro né contro», scriveva Gasparri nelle sue memorie.

Ma nel senso che nacque e si sviluppò secondo quelle coordinate di aconfessionalità e di riformismo che lo avrebbero consegnato all’Italia come un fattore decisivo del «maggior benessere della sua convivenza» per riprendere ancora parole di Gasparri. Questo sì che lo vollero, scrive padre Sale, anche contro quella parte di cattolici e di vescovi che «pensava alla creazione di un partito cattolico fortemente sottoposto alle direttive della gerarchia».

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Gli articoli precedenti di Lorenzo Cappelletti sui papi che hanno preso il nome Benedetto pubblicati su 30Giorni:

1) Nomen omen, n. 10, ottobre 2005, pp. 90-95;

2) Un “continuum” discontinuo, n. 11, novembre 2005, pp. 54-59;

3) Benedetti riformatori, n. 12, dicembre 2005, pp. 68-73.