Tre anni e un mistero

8 settembreIl Sabato 10 novembre 1990

Che cosa accadde in Italia tra il ’40 e il ’43? L’ultimo lavoro di De Felice spazza via la retorica. Raccontando verità inedite su Mussolini

di Franco Bandini

Dopo quello di «colei che attende all’angolo della strada», il mestiere senza dubbio più facile è quello di critico storico: specie se il critico prende la parola non su una pubblicazione specialistica, ma dalle colonne della «grande» stampa quotidiana. Il meccanismo è semplice: basta premettere «che non si può entrare nel merito data la ristrettezza dello spazio», per esser poi liberi di accumulare contro il volume in uscita una scelta selezione di contumelie, tutte accomunate dal minimo comun denominatore di non aver più nulla a che vedere con la vera critica storica.

E’ il caso di alcune critiche all’ultima fatica di De Felice, presentata la scorsa settimana a Roma: alla quale va intanto riconosciuto il merito di aver affrontato il periodo 1940-1943 della tragica vicenda italiana con una ricerca di inusitata vastità, della quale gli storici futuri dovranno necessariamente tener conto.

Si potrà magari discutere della veridicità totale o parziale di un singolo documento, senza però mai dimenticare che nella critica storica del nostro tempo domina una tipica deviazione schizoide; se un documento è a carico di Mussolini o della dirigenza politico-militare di quegli anni, lo si sbandiera come oro colato. Se putacaso è a discarico, le cautele e le riserve non sembrano mai troppe.

E ciò sia detto non soltanto per il singolo documento, ma addirittura su sezioni della realtà molto più ampie, come per esempio lo stato psicologico del popolo italiano nel 1942 e dintorni.

Quell’estate del ‘42

De Felice sostiene che in quell’anno «il disagio per la guerra non fu rilevante»: giudizio che può stupire tutti, compresi i giovani critici d’oggi, ma non me e quant’altri come me, avevano a quell’epoca attorno ai vent’anni. Nell’estate 1942, mio padre e mia madre erano come sempre in vacanza al Forte, e così erano in vacanza al mare o ai monti decine di migliaia di italiani della piccola e media borghesia. Forse centinaia di migliaia se si tiene conto anche dei figli di operai delle colonie del regime sparse in tutta Italia.

Dal fronte russo io scrivevo ai miei segnalando che sarei arrivato in licenza per esami al Politecnico di Milano a novembre, chiedendo anche di organizzare in casa una grossa festa con i miei amici ed amiche. Nel gennaio 1943, uscì Americana, di Vittorini e fu un grosso avvenimento. I cinema ed i teatri erano strapieni, la borsa nera florida, ma non ancora proibitiva, i bombardamenti rarissimi e piuttosto inefficaci.

Del resto, a confortare i rilievi di De Felice sta il fatto che nel suo complesso la nazione era stata fino a quel momento assai poco provata: in due anni abbondanti di guerra avevamo perduto un fulmine di prigionieri, ma pochissimi caduti. Forse meno di quanti non ne perdiamo oggi sulle autostrade nello stesso periodo di tempo.

Dunque, stupore e critiche son fuori luogo. Ma il fatto è –per esempio- che nozioni del genere rendono improponibile che i «grandi» scioperi della primavera del 1943 abbiano avuto una base politica. E questo scotta appunto coloro per i quali è essenziale retrodatare al possibile i «fermenti» antifascisti in Italia.

E vorrei ben vedere che in una collettività come quella italiana non ci sian stati gli stessi malumori, insofferenze, sfiducia e progetti di cambiamenti radicali che furono propri di tutte le nazioni in guerra, dalla Russia di Stalin alla Gran Bretagna di Churchill, il quale proprio nell’estate del 1942 dovette affrontare la più grave crisi politica o psicologica interna di tutta la guerra.

La battaglia decisiva

Un riequilibrio di questo tipo, basato sui fatti e sui documenti è ormai d’obbligo per chiunque voglia scrivere di storia. De Felice ha dunque il merito di aver ristretto, e da molto tempo, il margine delle esercitazioni retoriche che han dominato sin qui. Ridotte appunto alle invettive e alle stroncature in funzione di questo lento ma costante accumulo di tessere del mosaico che non possono più essere ignorate.

E’ anche giusto rivelare che dall’altra parte un simile accumulo non si è verificato affatto, tutto essendo rimasto fermo più o meno al grossolano disegno schizzato più di quarant’anni fa su linee ideologiche che appaiono oggi improbabili ed anzi in nervosa agonia. Ciò che essenzialmente si può ricevere dalle 1.575 dei due tomi del De Felice è la certezza, ormai, della irrimediabile insufficienza non solo della classe politica fascista, ma anche di quella culturale della nazione a valutare correttamente le quantità politico-militari realmente in gioco in quel difficile conflitto. E ne faccio un solo esempio.

Nel momento in cui Vittorio Emanuele prese la decisione di dimettere Mussolini, verso la fine del giugno 1943, non si era ancora aperta in Russia la più grande e decisiva battaglia che avrebbe dovuto stabilire il futuro a lungo termine su quel fronte, ed a ben vedere su tutta la guerra. Oggi sappiamo che Stalingrado, febbraio 1943, non aveva in realtà portato ad alcune decisione, e che anzi aveva esposto l’Armata Rossa a perdite gravissime, nonché alle grandi difficoltà di passare da un atteggiamento difensivo a quello offensivo, per il quale non era preparata.

La battaglia per il saliente di Kursk, iniziatasi il 4 luglio, sarebbe perciò stata la prova di banco essenziale: se la Wermacht fosse davvero arrivata a distruggere il più e il meglio delle forze avversarie nella sua gigantesca tenaglia, non vi è alcun dubbio che all’Est si sarebbe giunti almeno ad una pace «bianca», che avrebbe reso nuovamente disponibili le riserve centrali tedesche per il fronte italiano, qualunque cosa fosse ivi avvenuta nel frattempo.

Mussolini e l’Urss

E’ in fondo straordinario, e per molti versi alquanto misterioso che tutte le decisioni  fondamentali della monarchia  e degli stessi gerarchi fascisti, siano state prese «prima» di questo scontro gigantesco, benché  non ci volesse molto acume  a valutare di quanto avrebbe mutato i termini dell’equazione una eventuale vittoria tedesca. Potrebbe perfino farsi luogo l’idea – che però De Felice non avanza – che uno dei sussidi cercati da Stalin di fronte alla prospettiva di una nuova catastrofica sconfitta, sia proprio il colpo di Stato italiano.

Su questa linea c’è ancora molto e moltissimo da scavare, ma ho la netta sensazione che essa possa rivelarsi feconda per le successive analisi di avvenimenti, come il colpo di Stato ed il successivo armistizio, che rimangono, nonostante tutto, assai ambigui. Specie se si parte da quell’acquiescenza mussoliniana che De Felice spiega nelle sue componenti: ma con un’avvertibile perplessità di fondo.

Il fatto è, ed il professor De Felice mi consenta di segnalarglielo, che alcuni elementi interamente nuovi, o almeno del tutto ignorati sin qui, sembra ora spingano a guardare con maggior attenzione ai rapporti pressoché clandestini che Mussolini ebbe da molto tempo prima della guerra con l’Unione Sovietica.

Tutti sanno che fino al 1933 l’Armata Rossa allevò con molta sollecitudine sul proprio territorio, ed in contrasto col disarmo sancito a Versailles, le forze armate tedesche. Ma ancor oggi nessuno sa che il ricostruttore dell’agonizzante Marina militare sovietica, dal 1934 al 1940, e forse 1941, fu Mussolini. Cedemmo ai russi, già nel 1935, i piani costruttivi dei nostri incrociatori «Montecuccoli»: e ne nacque la classe «Kirov», di sette e forse 10 unità.

Subito dopo, cedemmo anche quelli degli incrociatori pesanti classe «Zara», da cui figliarono i cinque  (e forse sette)  «Ciapaiev». Poi quelli dei caccia «Camicie nere», ed i russi ne allestirono 42. Infine, costruimmo a Livorno, proprio nel periodo più duro della guerra di Spagna, il supercaccia «Takent», l’unità più veloce del mondo, come capostipite di 6 unità, cinque delle quali divennero, per ragioni che non si conoscono, i «Capitani romani» della nostra flotta.

Il lato più stupefacente fu che mantenemmo per anni a Leningrado e Nikolaief nostre commissioni di ingegneri navali per aiutare i russi nei problemi costruttivi di tante e così moderne navi: per le quali fornimmo apparati motori, artiglierie, apparati di puntamento e radio. Il tutto su una base di accordi che dovettero necessariamente esistere, ma dei quali non si è mai trovata traccia. Silenzio, io penso, assai sospetto.

Manovre contro la Grecia

Le 200 mila e passa tonnellate che i russi costruirono con il nostro aiuto determinante, non crearono troppi problemi né nel Baltico, né nel Pacifico. Ma nel Mar nero si, specie nei riguardi della Turchia e della Grecia. E questo deve esser forzatamente messo in relazione con gli avvenimenti del 1940, quando attraverso conversazioni che Mario Toscano ha messo puntualmente in luce da gran tempo, si realizzò, sia pure per breve momento, una specie di collusione tra i progetti staliniani «contro» la Turchia e la Grecia, in vista di un controllo sugli Stretti, ed una netta con sensualità di mussoliniana: stupefacente perché dimostra che le origini della campagna contro la Grecia ebbero concause sin qui non investigate, e stupefacente perché presuppone canali di comunicazione non ancora emersi alla luce dopo cinquant’anni.

Il 25 giugno 1940 Molotov convocò il nostro ambasciatore Rosso e gli lesse un appunto, nel quale, senza troppe perifrasi, si diceva che la Russia era interessata a riavere dalla Turchia la Georgia ed Armenia turche, strappatele nel 1917, a ottenere il controllo degli Stretti, e a far ottenere alla Bulgaria, contro la Grecia il suo sbocco sull’Egeo. Non mi pare affatto un caso che quattro giorni dopo, la stampa italiana abbia cominciato ad agitare lo «slogan» della malafede ellenica.

Come tutti i saggi storici, l’opera di De Felice, spazzando via le ricostruzioni di comodo, regolando il fuoco di quella che dovrebbe essere l’impassibile macchina fotografica della storia, imprime un grande passo avanti alla conoscenza spassionata di quel convulso periodo. E se rimangono degli interrogativi, essi ben vengano: uno dei caratteri della nostra epoca è l’eccezionale complessità dei suoi parametri, politici, militari, economici, psicologici e clandestini. L’unica cosa che dobbiamo davvero temere è di non farcela come individui, ad esplorarli tutti.