ALBANIA Quel ritorno alla fede

cattolici_albaniaPubblicato su IL SEGNO della diocesi di Milano n.11 novembre 2005

Nel novembre del 1990, al culmine dell’agonia del regime comunista, nel Paese delle aquile la Chiesa riconquistava la sua libertà.

di Dario Paladini 

Il pesante portone di ferro al quale busso fino a quindici anni fa celava la caserma e le prigioni della polizia segreta albanese a Scutari. Oggi viene ad aprirci una suora clarissa gentile e sorridente. Quando al posto delle clarisse c’era la Segurimi, chi varcava quel portone iniziava a tremare di paura. Secondo alcune stime, in quelle prigioni, in quarant’anni, sono state uccise almeno mille persone e altre migliaia sono state imprigionate, torturate, interrogate per ore e ore.

Inizia qui il viaggio alla scoperta delle storie di tante donne e uomini albanesi che hanno vissuto il martirio fino in fondo. Cristiani e musulmani furono perseguitati per quarant’anni. Chiese e moschee furono trasformate in magazzini, cinema, palestre. Ogni credo religioso era vietato, punito col carcere e non di rado con la condanna a morte.

È un viaggio alla scoperta di storie poco conosciute, accadute sull’altra sponda dell’Adriatico. Esattamente quindici anni fa, il 4 novembre 1990, un prete e pochi altri osarono sfidare la polizia e il regime e celebrarono una messa nel cimitero cattolico di Scutari. Non furono arrestati, il regime era ormai in agonia e stava perdendo i suoi artigli. Per l’Albania era l’inizio del cammino verso la libertà.

Le suore ci conducono nell’ala riservata alle prigioni: sulle pareti si vedono ancora le incisioni lasciate coraggiosamente da alcuni prigionieri. C’è chi, cristiano, ha inciso nell’intonaco una croce o una chiesa, e chi, musulmano, ha invece tracciato una moschea o la mezzaluna. Le celle erano piccole, buie, senza riscaldamento.

Dai primi di settembre questo luogo di sofferenza è abitato da otto clarisse, metà albanesi e metà italiane. Dove per tanti anni sono riecheggiate le urla di dolore dei prigionieri, oggi c’è un luogo di preghiera e silenzio. È il primo monastero dedicato a Santa Chiara in Albania. «È un monastero che nasce sul sangue dei martiri della persecuzione», racconta una di loro. L’ala del monastero dove una volta erano le prigioni verrà ben presto aperta al pubblico: «Vogliamo che questa parte sia aperta perché diventi un memoriale di quello che l’Albania ha vissuto».

A poche centinaia di metri dal convento delle clarisse c’è la cattedrale di Scutari. Il regime l’aveva trasformata in una palestra. Lì incontro monsignor Zef Simoni, vescovo ausiliare di Scutari: «Fui arrestato nel 1976, insieme al mio vescovo monsignor Ernesto Çoba. Fummo arrestati perché monsignor Çoba continuava ad avere relazioni clandestine con l’ambasciata italiana per inviare in Vaticano periodici rapporti sulla situazione albanese. Fui condannato a 15 anni di carcere e mi mandarono nel campo di Spaç. Là c’erano circa 1700 prigionieri, quasi tutti ai lavori forzati nella miniera vicino al campo. Le condizioni di vita erano durissime, in particolare si soffriva la fame perché ci davano poco cibo, spesso immangiabile».

Monsignor Zef non rinnegò la propria fede. Come lui, tanti altri resistettero alle violenze fisiche e psicologiche: «Pregavo di sera sotto le coperte, per paura di essere denunciato da una delle tante spie infiltrate tra i prigionieri. Riuscivo però anche a fare un po’ di catechesi a coloro che me lo chiedevano e dei quali mi potevo fidare». Monsignor Zef riuscì anche nell’incredibile impresa di scrivere due libri: «Non sulla carta, ma mentalmente. Pian piano, giorno dopo giorno, ho memorizzato le frasi e quando finalmente sono stato liberato ho dovuto solo trascrivere quello che già era scritto nella mia mente».

Sempre a Scutari incontro suor Pina Shestani. È una suora stimmatina. Nel 1946 era una giovane novizia. Un giorno la polizia fece irruzione nel convento e rimandò tutte a casa. Chi si opponeva veniva arrestata.

«Da un giorno all’altro mi ritrovai fuori dal convento – ricorda -. Nonostante lo smarrimento e la paura di quei momenti, ricordo che però ero convinta e determinata a voler continuare la mia vita di consacrazione totale al Signore. Divenni una maestra delle scuole elementari, ma non rinunciai a portare l’Annuncio fra la gente. Facevamo tutto questo con grande prudenza. Visitavamo i sacerdoti, in alcuni casi anche nelle prigioni, e da loro ci facevamo consacrare le ostie che di notte fabbricavamo con un’apposita macchinetta che aveva una di noi. Riponevamo poi le ostie consacrate in piccole scatole tra i teli di lino nei cassetti della biancheria».

Suor Pina e le altre novizie poterono coronare il loro sogno di diventare suore solo nel 1991, quando la madre generale delle Stimmatine, suor Giovanna Pedali, da Roma venne in Albania alla ricerca delle suore sopravvissute.

«Sapevamo che qualcuna era ancora in vita – racconta -, anche perché negli anni precedenti con alcune di loro era intercorsa una corrispondenza epistolare: fingevano di scrivere a una loro zia abitante a Roma e noi rispondevamo a tono con altrettante lettere. Nel 1991, dopo che Madre Teresa di Calcutta aveva visitato il suo Paese natale e aveva ottenuto il permesso di aprirvi una casa, decidemmo di fare un viaggio alla ricerca delle nostre suore.  L’incontro avvenne per caso: la mattina dopo il nostro arrivo, la consorella che mi accompagnava uscì dalla casa delle suore di Madre Teresa, dove eravamo ospiti, e una signora le disse: sia lodato Gesù Cristo. Era suor Giorgina Bulgareci, una probanda del 1944».

Uno dei più lunghi noviziati della storia si era finalmente concluso.