L’eutanasia è un diritto?

eutanasiaArticolo pubblicato su Studi Cattolici

 Autonomia, dignità, pluralismo

di Etienne Montero

La legge obbedirà alla propria natura e non alla volontà del legislatore, ed essa darà inevitabilmente i frutti che vi abbiamo seminato.
(G. K. Chesterton)

Sembra che in Belgio vada crescendo il consenso a favore di una certa legalizzazione dell’eutanasia “su richiesta”. Ci si starebbe incamminando verso un’apparente soluzione di compromesso, che consiste nel rifiutare a un tempo la depenalizzazione pura e semplice dell’azione eutanasica e la proibizione sic et simpliciter di ogni forma di eutanasia.

Si caldeggia la conservazione simbolica del divieto penale (con l’incriminazione dell’omicida), mentre si autorizzerebbe la pratica dell’eutanasia purché vengano rispettate certe condizioni e procedure [1].Solo l’eutanasia praticata senza il consenso del paziente per motivi sociali o economici resterebbe, in via ipotetica, sottoposta al diritto penale.

La legalizzazione presenterebbe il vantaggio della chiarezza: metterebbe fine all’ipocrisia dell’attuale situazione di tolleranza, consentendo all’eutanasia di uscire dalla clandestinità, così da assicurarne un controllo più efficace e di prevenirne gli abusi.L’eutanasia è una questione particolarmente delicata, della quale non si possono qui richiamare tutti gli aspetti. La nostra attenzione si soffermerà in particolare su un problema.

La richiesta del paziente appare chiaramente come un elemento essenziale nel tentativo di giustificazione filosofica, politica e giuridica dell’eutanasia volontaria. Per valutare l’opportunità di legalizzazione dell’eutanasia sembra dunque cruciale esaminare da vicino la cosiddetta tesi “dell’autonomia”. Sarà questo il filo logico del nostro discorso [2]

La tesi può essere formulata come segue: la legalizzazione dell’eutanasia su richiesta s’impone perché la scelta sul momento e sulle modalità della morte deriva dall’autonomia individuale, che dev’essere rispettata in una democrazia pluralista, nella quale nessuno può imporre agli altri le proprie convinzioni [3]

Attraverso la discussione delle principali argomentazioni prospettate dai partigiani della legalizzazione dell’eutanasia volontaria, le nostre riflessioni si limitano a considerare l’argomento dell’autonomia, spesso invocato – con il pretesto del pluralismo – a favore dell’eutanasia.

L’accanimento terapeutico

Si ha ragione di reclamare la legalizzazione dell’eutanasia per impedire l’accanimento terapeutico? In via preliminare è opportuno rispondere brevemente a questo interrogativo per dissipare un malinteso e delimitare correttamente la vera posta in gioco della discussione.

Per legittimare l’eutanasia si presenta spesso l’immagine del malato terminale in preda ad atroci sofferenze, ulteriormente accresciute suo malgrado a motivo dell’accanimento medico – che non ha più niente di “terapeutico” – dall’équipe curante. Eppure questa situazione non ha alcunché di fatale.

Da una parte, il medico è tenuto non solo a ripristinare lo stato di salute, ma anche ad alleviare il dolore. A tale scopo egli può (e deve) somministrare calmanti o analgesici, anche se questi hanno l’effetto, ovviamente non voluto, di abbreviare la vita del paziente [4]. Si suppone, senza dover indugiare, che il lettore sappia che allo stato attuale della medicina quasi tutte le sofferenze fisiche possono essere adeguatamente mitigate; almeno in via di principio, perché in pratica il mondo medico è troppo poco preparato al controllo dei sintomi e alla cura del dolore.

D’altra parte, l’accanimento “terapeutico” non è richiesto né moralmente né giuridicamente. La deontologia medica, la morale e il diritto obbligano il medico, né più né meno, a combattere il dolore e a prodigare cure ordinarie, utili e proporzionate. In compenso, egli non è affatto tenuto a intraprendere o a prolungare una cura inutile o sproporzionata nel caso in cui il beneficio ottenibile appaia molto fragile rispetto ai disagi, alle costrizioni o al costo che i mezzi posti in atto implicherebbero per il paziente [5].

Ai fini del nostro studio ci atterremo alla seguente definizione di eutanasia, proposta dal Comitato consultivo di Bioetica: “Atto praticato da un terzo che pone intenzionalmente termine alla vita di una persona su richiesta della medesima”. L’eutanasia in senso stretto suppone dunque, per definizione, l’intenzione di sopprimere la vita; perciò essa si distingue da altre iniziative mediche, come l’opportuna somministrazione di analgesici allo scopo di alleviare il dolore (anche a rischio di abbreviare la vita) e la decisione di rinunciare a cure inutili o eccessive.

Presentare la legalizzazione dell’eutanasia come il rimedio contro l’accanimento terapeutico e le prolungate sofferenze che l’accompagnano, scaturisce da un deplorevole equivoco.

Le distinzioni qui indicate sono relativamente ben assodate in teoria. È chiaro che esse sono decisamente meno nette nella pratica. I princìpi, per quanto raffinati siano, sono sempre connotati da una certa distanza rispetto alla diversità e alla complessità delle situazioni e dei disagi individuali. È cosa evidente. Tuttavia, è giocoforza ammettere che l’ignoranza di queste distinzioni concettuali falsa completamente il dibattito circa l’opportunità di legalizzare l’eutanasia.

Alla luce dei criteri sopra richiamati, si comprende intuitivamente che staccare un apparecchio respiratorio o togliere una sonda alimentare (per far posto a estreme cure di conforto) non implica sempre e necessariamente un atteggiamento eutanasico. Quegli atti possono rientrare, se del caso, nell’ambito della missione generale della medicina: tutto dipende dalle circostanze e dalle intenzioni.

Ma la più grande confusione regna a questo riguardo, sia nell’opinione pubblica sia presso la maggior parte degli stessi medici. Proprio di questo infatti si tratta: la confusione è assenza di chiarezza, coacervo di nozioni imprecise, nebbia intellettuale che confonde le frontiere… In sana democrazia sarebbe deplorevole farne un pretesto o un argomento a favore della legalizzazione dell’eutanasia.

L’osservazione dimostra comunque l’interesse di un ampio dibattito pubblico sul tema. Senza fare posto all’eutanasia, non escludiamo che sia possibile e opportuno chiarire in taluni testi, per una maggiore sicurezza giuridica, i diversi casi figurati

Il diritto di morire in dignità

Il diritto di morire in dignità è uno dei principali argomenti utilizzati per promuovere la legalizzazione dell’eutanasia. Sinteticamente, è possibile presentarlo come segue: grazie ai progressi della medicina, si dispone oggi di numerosi mezzi per prolungare la vita delle persone gravemente ammalate.

Il rovescio della medaglia è che a volte si verificano interminabili agonie, che non fanno altro che aumentare e protrarre lo stato di decadimento del malato terminale. Di fronte a queste situazioni dolorose, la legge dovrebbe permettere che una persona possa essere aiutata a morire. Invece di subire una degradazione insopportabile, essa potrebbe così morire in dignità. Tale rivendicazione appare, in maniera emblematica, nella denominazione sociale di diverse associazioni che militano in favore della depenalizzazione dell’eutanasia.

Si assiste qui a una deformazione del linguaggio che non deve trarre in inganno. Il “diritto a una morte dignitosa” è un’espressione eufemistica per designare il “diritto di essere messi a morte” da altri. Con il legittimo pretesto di rifiutare l’accanimento medico, la frase stigmatizzata garantisce il gesto di dare concretamente la morte ad altra persona. È pertanto evidente che quest’ultimo caso non può essere assimilato al fatto di lasciare sopraggiungere la morte, astenendosi dal mettere in atto mezzi inutili e sproporzionati al solo scopo di prolungare una vita senza speranza di miglioramento.

Una corretta valutazione morale e giuridica esige che si distinguano chiaramente queste due ipotesi irriducibili.

Nel medesimo ordine di idee, l’espressione “aiutare a morire” e gli abituali richiami alla “compassione” o alla “solidarietà” suggeriscono altruismo, spirito di servizio, generosità… Questa terminologia, che suscita incontestabilmente simpatia, non viene con troppa facilità scomodata allo scopo evidente di far recepire più agevolmente l’inaccettabile?

Anche qui il linguaggio diviene una trappola, perché una cosa è aiutare un paziente a morire (badando a fargli compagnia nella sua angoscia, a dare sollievo al suo dolore, a portargli conforto…), altra cosa è farlo morire. La causa della morte differisce a seconda del caso considerato. Quando un medico decide di non iniziare o di cessare una cura ormai inutile o sproporzionata, il paziente morirà in conseguenza della patologia mortale di cui soffriva; al contrario, se il medico somministra una sostanza letale, è questo atto a costituire la causa della morte del paziente.

Così pure c’è una differenza di intenzione: nel primo caso, si cerca di risparmiare al paziente delle sofferenze inutili a rischio di affrettarne la morte; nel secondo, l’intenzione è di provocare la morte del paziente per eliminare la sofferenza. L’intenzione segna pertanto la differenza tra la medicina palliativa e l’eutanasia.

Il medico che pratica l’eutanasia toglie consapevolmente e volontariamente la vita al proprio paziente, e la vera questione è di sapere se il riferimento al concetto di dignità consente di giustificare un tale atto.

Ogni persona ha effettivamente il diritto di morire in dignità. Tutti sono concordi nel riconoscerlo. Il diritto a un’autentica morte dignitosa implica diverse prerogative legittime: il diritto del malato a mantenere un dialogo e un rapporto di fiducia con chi lo ha in cura e con le persone che gli sono intorno; il diritto di conoscere la verità sul proprio stato; il diritto di beneficiare delle tecniche mediche disponibili che consentono di alleviare il dolore; il diritto di accettare o di rifiutare gli interventi ai quali lo si vuole sottoporre; il diritto di rinunciare ai rimedi eccezionali o sproporzionati in fase terminale

Quale concetto di dignità?

Di contro, il preteso diritto a essere “messo a morte” dal proprio medico è di tutt’altra natura. Esso poggia su una nuova e pericolosa concezione della dignità umana. Ciò merita la massima attenzione. In realtà, la nozione classica di dignità, del resto molto antica nella riflessione filosofica, viene abbandonata a favore di una nozione più recente, la qualità della vita. Avviene uno scivolone semantico: dalla “dignità della persona”, intesa come una qualità di ordine ontologico, alla “qualità della vita”.

La dignità diviene una nozione molto diffusa, eminentemente soggettiva e relativa. Soggettiva, perché ciascuno sarebbe il solo giudice della propria dignità. Relativa, nel senso che la qualità della vita è un concetto a geometria variabile, suscettibile di un’infinità di gradi e misurabile secondo i criteri più disparati.

Un esempio concreto e significativo – la proposta di risoluzione del Parlamento europeo elaborata sulla base di un rapporto del dottor Léon Schwartzenberg sull’assistenza ai moribondi (aprile 1991) – permette di illustrare in che misura venga modificato il senso conferito al termine “dignità”.

In quel documento si afferma a più riprese che “la dignità è il fondamento della vita umana”. Orbene, questa dignità, lungi dall’essere intangibile appare al contrario come uno stato instabile assoggettato alle vicissitudini della vita e della salute. Apparentemente, un soggetto può dunque perdere la propria dignità e, con essa, la propria umanità.

“Che cos’è allora questa dignità che si perde?”, s’interroga France Quéré. “È evidentemente la dignità di chi sta bene, quella della vita piena, sicura di sé. I criteri della dignità sono conferiti dai ruoli sociali, dal riguardo degli altri, dagli onori, dalla carriera, dalla coscienza padrona di sé […]. Si noterà che la malattia non è la sola a togliere la dignità: la miseria, la delinquenza, perché non dovrebbero avere lo stesso effetto?” [6].

Il documento dianzi citato afferma con insistenza che “il dolore fisico attenta alla dignità” e che “la malattia toglie ogni dignità all’esistenza”. E l’ultimo paragrafo dell’esposizione dei motivi arriva alla conclusione: “È la dignità che definisce una vita umana. Quando, alla fine di una lunga malattia contro la quale ha lottato con coraggio, il malato chiede al medico di interrompere un’esistenza che ha perduto per lui ogni dignità, e il medico decide, in piena coscienza, di recargli aiuto e di lenire i suoi ultimi momenti consentendogli di addormentarsi in pace e definitivamente, questo aiuto medico e umano (talvolta chiamato eutanasia) è rispetto per la vita” [7].

Il sillogismo è chiaro: la dignità è il fondamento della vita umana e la malattia toglie la dignità, ovvero una vita indegna non è più una vita umana; ne segue che il gesto eutanasico, lungi dall’attentare alla vita umana, è rispetto per la vita. Un siffatto ragionamento è implicito nello spirito di parecchi fautori della legalizzazione dell’eutanasia, ne siano consapevoli o no.

Questo approccio è fondato su una nuova nozione di dignità rapportata alla “qualità della vita”. Tale espressione è nondimeno equivoca. È vero che le condizioni di vita possono essere più o meno dignitose, così come possono esserlo le circostanze che accompagnano l’avvicinarsi della morte. Sul piano psicologico, è innegabile che il malato che assiste impotente alla propria degradazione può provare il sentimento di una dignità diminuita. È certo che si deve fare di tutto perché la vita e la morte di ciascuno siano le più dignitose possibili. Ma, in ogni caso, la persona in quanto tale ha sempre la medesima dignità ontologica, intangibile e inviolabile.

Il significato della parola “dignità” non è facile da cogliere concettualmente, perché essa designa una qualità semplice, irriducibile. Più intuitiva che razionale, e da sempre riservata alle persone, la nozione di dignità rimanda all’idea di eccellenza, di preminenza… e comporta un atteggiamento di venerazione e di rispetto assoluto. Così Kant ha ben messo in evidenza la distinzione fondamentale tra la nozione di dignità (“valore intrinseco”), propria delle persone, e quella di prezzo (“valore relativo”) che caratterizza le cose [8]. Tradizionalmente, tranne che nel pensiero di autori quali Nietzsche e Marx, la dignità è invocata come una qualità che non è solo da costruire, ma da rispettare in modo incondizionato.

Questa dignità non è fondata su una qualche circostanza, ma sul fatto semplice ed essenziale di appartenere al genere umano. E inscritta nell’essere stesso di ogni uomo. Non è la dignità a costituire il fondamento della vita umana, ma è la vita umana a fondare la dignità: quest’ultima deve essere riconosciuta a ogni uomo per il solo fatto di esistere.

Vita senza valore vitale?

I fautori dell’eutanasia, che si richiamano alla nozione di “qualità della vita”, ritengono che certe esistenze siano diventate senza valore o che, in alcune situazioni, l’uomo non sia più tale. In un simile caso, l’atto eutanasico, lungi dall’imparentarsi con l’omicidio, appare come un favore elargito a colui la cui vita ha perduto ogni dignità. Un ragionamento di tal sorta può servire a giustificare, oltre all’eutanasia dei malati terminali, anche quella delle persone incapaci di esprimere la propria volontà (come i dementi), nonché l’infanticidio dei neonati minorati. Questa idea si avvicina pericolosamente alla nozione di “vite senza valore vitale” (lebensunwerte Leben) sulla quale poggiava il programma di eutanasia di sinistra memoria.

Anche se questo genere di accostamento è irritante (e qui evocato non senza una certa riluttanza), non bisognerebbe troppo presto gridare alla commistione. Si avrebbe torto a respingere troppo disinvoltamente lo spettro dei crimini nazisti, in considerazione del fatto che essi furono l’effetto di una ideologia totalitaria ben lontana dalle nostre concezioni politiche. La storia insegna, invero, che le migliori democrazie non sono al riparo da derive totalitarie [9]. L’eugenismo, in particolare, rappresenta una tentazione permanente degli uomini di scienza [10].

Questi pericoli non si situano su un piano immaginario. La legalizzazione dell’eutanasia volontaria è la prima tappa di un processo logico ineluttabile. Per farla accettare, si giura che sarà applicata solamente in certi casi limite, prospettati all’opinione pubblica a motivo del loro carattere particolarmente drammatico per la sensibilità comune. Ma, una volta ammesso il principio, si viene naturalmente foggiando una mentalità che banalizza l’atto di eutanasia. Non appena il divieto sia tolto, quello che un tempo era proibito diventa prassi corrente, fino ad apparire a poco a poco piuttosto normale. L’evoluzione verso eutanasie praticate senza il consenso del paziente, per compassione o per motivi socioeconomici, si situa nello scenario delineato in precedenza.

Dal momento in cui si considera che la vita umana non possiede un valore intrinseco, come opporsi seriamente e durevolmente a questa sorta di ampliamento, reso più probabile dal fatto che le nostre società devono affrontare l’invecchiamento crescente della popolazione e la crisi dello Stato sociale?

L’esperienza olandese insegna che non si tratta di congetture gratuite e senza fondamento. Si sa che nei Paesi Bassi l’eutanasia e la cooperazione al suicidio sono sempre formalmente incriminati nel Codice penale (artt. 293 e 294). Tuttavia, nel 1993, nel quadro di modifiche apportate alla normativa sui funerali, il potere amministrativo è stato autorizzato a predisporre uno specifico formulario da compilare da parte del medico in caso di decesso avvenuto a seguito di cooperazione nel suicidio o per “cessazione attiva della vita”.

Dal 1995 questa regolamentazione è stata interpretata con notevole flessibilità in modo da coprire nuove situazioni: malati non terminali in stato di disagio meramente psichico e pazienti incapaci di esprimere la propria volontà (specialmente neonati…). Poco tempo fa il governo ha deciso di istituire cinque commissioni regionali e una nuova procedura intesa a limitare il controllo giudiziario cui è attualmente sottoposta la pratica dell’eutanasia.

Finora il medico che aveva compiuto un atto di eutanasia doveva riempire un questionario da inviare al Pubblico Ministero. D’ora innanzi, il formulario dovrà essere inviato, tramite medico legale, a una commissione regionale composta da un giurista, un esperto di etica e un medico che, dopo la verifica delle circostanze del decesso, invia un rapporto al Pubblico Ministero.

Recentemente è stata depositata una nuova proposta di legge intesa alla completa depenalizzazione dell’eutanasia. Come si può costatare, il classico argomento del cosiddetto “piano inclinato” può acquisire autorevolezza non solo dalla forza della logica, ma anche dai fatti dell’esperienza.

Occorre però rendersi conto che la nuova concezione della dignità umana che si viene delineando, sulla quale poggia la legalizzazione dell’eutanasia, non è neutra sul piano filosofico. Alcuni vorrebbero far credere che, privilegiando il rispetto delle autonomie individuali (ciascuno è giudice della propria dignità e decide circa il momento della propria morte), la legalizzazione sia la sola soluzione ammissibile in uno Stato pluralista e laico. Non è affatto così: inserendo in un testo di legge – volto a strutturare i comportamenti – il principio dell’eutanasia, anche se volontaria, il legislatore avalla la contestabile nozione di “qualità della vita” e la impone a tutti [11]

L’approccio proposto contraddice, d’altronde, la filosofia moderna dei diritti dell’uomo, fondata sulla nozione classica di dignità: in virtù della semplice sua appartenenza al genere umano, l’uomo possiede una dignità intrinseca, dalla quale derivano certi determinati diritti. Così il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – adottata (non a caso) all’indomani della seconda guerra mondiale – afferma che vi è una dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana.

Esso precisa pure che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali quanto a dignità e diritti” (art. 1) e che ciascuno può valersene “senza alcuna distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di ogni altra opinione, di nazionalità o di estrazione sociale, di fortuna, di nascita o di qualsiasi altra situazione” (art. 2). Questa nozione oggettiva di dignità è una garanzia contro l’arbitrio e l’abuso. Non la si dovrebbe abbandonare alla leggera.

Nonostante l’attrattiva che essa può esercitare, la concezione soggettivistica appare superficiale. L’immagine che ciascuno si forma della propria dignità non è forse largamente tributaria dello sguardo degli altri? Coloro che stanno intorno ai malati e l’intera società non sono forse in buona parte responsabili della coscienza che i malati stessi possono avere della propria dignità? La legalizzazione dell’eutanasia, lungi dal procurare il supplemento di dignità preteso, non contribuisce forse ad affievolire il nostro senso di responsabilità di fronte ai malati?

Infine, un’ultima considerazione: sul piano etico (e non più ontologico) la “dignità” non si trova soprattutto nel modo in cui si affronta la morte? La persona che si assume sino al termine la sua condizione umana, ivi compreso lo spettacolo del proprio decadimento, e che, a questo scopo, attinge alle proprie risorse per far fronte alla prova finale, non ha forse maggiore dignità di quella che chiede di esser messa a morte? È difficilmente comprensibile che una morte dignitosa possa consistere soprattutto nel vedersi somministrare una sostanza letale. Se la dignità fosse a tal punto tributaria di fattori e di aiuti esterni, l’argomentazione sull’autonomia non sarebbe seriamente inficiata?

All’insieme di queste considerazioni si potrà obiettare che esse non sono decisive in quanto si tratta, in definitiva, di legalizzare unicamente l’eutanasia volontaria, per rispetto della giusta autonomia personale alla quale ciascuno aspira. Questa tesi dell’autonomia merita pertanto un esame più approfondito

Il rispetto dell’autonomia

I fautori della legalizzazione dell’eutanasia su richiesta sostengono che questa è un atto libero che, come tale, consente di riaffermare la dignità di una volontà libera e autonoma contro la cieca necessità. Ma è poi così evidente che la decisione di morire promani dall’autonomia del malato terminale?

Si è visto che certi partigiani dell’eutanasia si basano, almeno implicitamente, sull’idea che la malattia e la sofferenza possono comportare a tal punto una perdita di dignità che l’interessato non è più veramente una persona umana: perciò non si potrebbe più parlare di autonomia, quando l’autonomia sarebbe la precisa giustificazione dell’eutanasia. Del resto, difficilmente si comprende come l’affermazione dell’autonomia, da un lato, e il rispetto di essa, dall’altro, possano consistere nella soppressione di questa medesima autonomia.

Al di là di questi paradossi, a proposito dei quali si può dissertare all’infinito, è plausibile ritenere che la fondatezza della tesi dell’autonomia supponga la coesistenza di tre condizioni. Queste possono essere formulate, interrogativamente, come segue:

1) la richiesta di eutanasia è veramente espressione della volontà profonda del paziente?

2) il medico si ritiene giustificato a praticare l’eutanasia, solamente o in ogni caso fondamentalmente, perché il paziente lo domanda?

3) è vero che la legalità dell’eutanasia su richiesta riguarda esclusivamente gli interessati, e non concerne il resto della società?

L’approccio considerato sembra eccessivamente teorico, se non ideologico. Le persone interessate non pongono generalmente il problema in questi termini; esse cercano solamente di sfuggire al loro sgomento. Del resto, non è ipocrita fare tanto assegnamento sulla libera espressione di una persona che, si suppone, è in pieno smarrimento, in preda a indicibili sofferenze? Questo stato rende illusoria una decisione veramente libera da parte sua, così come è piuttosto indecoroso insistere sulla libera scelta del depresso che si trovi sul punto di suicidarsi.

Numerosi psicologi analizzano i “suicidi mancati” come segnali di angoscia. Per analogia di situazione, si può temere che, depenalizzando l’eutanasia, numerose “richieste d’aiuto” siano male interpretate da chi si affretterà ad assistere il candidato all’eutanasia. Si vuol favorire il gesto fatale, col rischio di dare sovente la più deleteria delle risposte a una domanda malamente formulata?

Inoltre, bisogna poter decifrare correttamente una richiesta di eutanasia, posto che un simile desiderio possa realmente esserci. Una tale aspirazione – così opposta al potente istinto di sopravvivenza, di autoconservazione – non trae generalmente origine da un dolore fisico insopportabile (di solito controllato, o in ogni caso controllabile, contrariamente alle idee che ci siamo fatti), ma dalla sofferenza, veramente angosciosa, legata a mancanza di attenzione, di affetto, di sollecitudine, di significato.

Questo è il nocciolo del problema: salvo eccezioni, la nostra medicina controlla la tecnica, ma si mostra spesso incapace di accompagnare il malato, dandogli conforto e calore umano. A volte, la famiglia e quanti stanno intorno al malato non fanno di meglio su questo piano, per indifferenza o per egoismo.

È facile rimuovere il problema reclamando per il medico l’autorizzazione a uccidere, su richiesta, in totale impunità. Non sarebbe più coraggioso mettere in discussione il nostro approccio con la medicina e riflettere sul modo di umanizzarla? L’affermazione alquanto sentenziosa dell’autonomia del malato non può essere intesa come un modo di dichiararsi estraneo alla fatale decisione e quindi senza responsabilità?

Autonomia: ragione ultima del “diritto” all’eutanasia?

A ben riflettere, è possibile dubitare che un medico si ritenga giustificato nel praticare l’eutanasia solamente perché l’interessato formula una richiesta in tal senso. Di fatto, se il medico accede a simile richiesta, è perché egli giudica che la vita del suo paziente non abbia più un valore intrinseco. In ogni caso, il fondamento inavvertito dell’eutanasia è l’idea secondo la quale certe vite umane non valgono, o non valgono più, la pena di esser vissute. La decisione di praticare l’eutanasia non poggia mai sulla sola volontà del malato; essa consegue sempre a un giudizio di valore sulla qualità della vita.

Supponiamo che un giovane chieda, nella sua angoscia, che lo si aiuti a morire. Si accederà alla sua richiesta o ci si dispiacerà che la legge penale si opponga a questo gesto di compassione e di solidarietà? Occorre dunque modificare la legge per consentire, in tutti i casi analoghi, di prestare il proprio concorso nel mettere a morte le persone che ne fanno richiesta?

Per il momento, senza dubbio, ciascuno risponderà negativamente a questi quesiti. Perché? Si è così poco attenti a rispettare l’autonomia di quelle persone? C’è da scommettere che si sarebbe anche inclini a dissuaderle, cercando di farle ragionare, di confortarle. Il rispetto dell’autonomia altrui non è il movente ultimo del nostro atteggiamento; questo è legato a un giudizio di valore; nel caso specifico, si pensa che la vita del giovane in buona salute valga la pena di essere vissuta.

A rigor di logica, se il rispetto dell’autonomia è sufficiente a giustificare l’eutanasia, non si vede perché subordinarne la legittimità ad altre condizioni (atto praticato da un medico su un malato incurabile in fase terminale). Si alzano già delle voci, naturalmente, per raccomandare l’attenuazione delle condizioni [12].

Quanti ritengono che un malato terminale che chiede l’eutanasia agisca in maniera sensata e dignitosa, al contrario del giovane depressivo o del disoccupato disperato, in realtà ragionano in base a un paradigma implicito: certi stati o certe malattie sono incompatibili con una vita dignitosa, mentre la decisione di morire di una persona in buona salute non merita di esser presa in considerazione.

Se l’autonomia è effettivamente la ragione ultima per giustificare il diritto all’eutanasia, non bisogna astenersi dal giudicare e rispettare i motivi di qualunque persona desiderosa di darsi la morte? Non è forse vero che ognuno è libero di apprezzare la qualità della vita e la sua dignità secondo i propri criteri?

È falso ritenere che la richiesta di eutanasia rappresenti una scelta meramente privata, che non riguardi nessuno all’infuori dell’interessato e non nuoccia in alcun modo agli altri. Kant respinge l’idea di un simile diritto su se stessi, in quanto l’uomo è responsabile dell’umanità nella propria persona.

Giustificazioni del tipo: “La mia vita mi appartiene, ne faccio quello che voglio” portano a una concezione fittizia e caricaturale della proprietà privata. Anche nel diritto che attiene ai beni non si concepisce alcuna proprietà senza riferimento sociale [13]. È vero che la mia vita mi appartiene in un certo senso; ho su di essa un incontestabile dominio naturale; ne segue che, di fatto, posso decidere di sopprimermi [14].

Di qui a sostenere l’esistenza di un diritto di proprietà su se stessi, che conferirebbe a ciascuno il diritto di disporre della propria vita in maniera assoluta, c’è un passo che il nostro umanesimo giuridico impedisce di effettuare [15].

Il diritto di disporre della propria vita mediante l’aiuto di un altro vanta minore forza ancora. Salta all’occhio che la legalizzazione dell’eutanasia colpisce il legame sociale. Verranno coinvolti tutti i cittadini dal momento in cui l’esercizio dell’arte di guarire subirà una non trascurabile modifica: a quel punto il corpo medico si troverà investito di un nuovo potere, quello di amministrare la morte.

Bisogna ripeterlo: la legalizzazione dell’eutanasia non è solamente una questione di etica e di scelta personali. Lungi dall’essere una questione meramente privata, l’eutanasia si riverbera sull’etica socio-politica. Se ne può quindi perfettamente concepire la proibizione senza urtare il pluralismo caratteristica delle nostre democrazie moderne, alfine di salvaguardare interessi pubblici ritenuti superiori. In concreto per:

1) Proteggere tutti i malati della società. Infatti si può temere che il paziente, lungi dal ritrovarsi pienamente libero e autonomo nelle sue decisioni, sarà più facilmente incline a cedere di fronte alle pressioni esercitate dalle persone circostanti. Non c’è forse il rischio che si colpevolizzi del fatto di costituire un peso per gli altri, di gravare finanziariamente sulla società, se si ostina a vivere e a rifiutare di far valere il suo “diritto” all’eutanasia?

Quel diritto non sarà percepito, in molti casi, come un (crudele) dovere. Tanto più che il paziente non potrà più contare sul baluardo della legge per proteggersi. Come ha scritto un autore, “stretto è il margine fra una società che si ritiene eticamente tenuta a onorare le richieste di eutanasia e quella che finisce, sotto diverse pressioni più o meno consapevoli, col suscitarle” [16].

2) Proteggere l’integrità morale della professione medica. La legalizzazione dell’eutanasia rischia di ritorcersi anche contro i medici, inducendo, in quelli che la praticano, assuefazione e banalizzazione. Rischia di rovinare il rapporto di fiducia nonché il dialogo tra i medici e i loro pazienti. Fra i medici favorevoli all’eutanasia numerosi sono coloro che si rifiutano di praticarla: questa resistenza non è il segno che l’eutanasia è equivoca?

3) Proteggere le persone vulnerabili da abusi, negligenze o errori ed evitare che si scivoli verso forme di eutanasia non richiesta. Di più, dato il ruolo simbolico della legge, è chiaro che tutti sono interessati dall’abolizione di un divieto così importante, che induce un indebolimento generale del rispetto per la vita. Il riconoscimento legale – sotto qualunque forma – dell’eutanasia verrebbe a esprimere che, nella coscienza collettiva, il valore di certe vite è messo in dubbio

Fatto & diritto

Il fatto che l’eutanasia si pratichi regolarmente, nella clandestinità e con totale impunità, non è una ragione sufficiente per depenalizzarla?

Il ragionamento scaturisce dalla confusione tra fatto e diritto. Il diritto non indica ciò che è, ma ciò che deve essere. Se il diritto dovesse limitarsi a prendere atto del fatto compiuto, non avrebbe più alcuna funzione normativa e perderebbe la sua ragion d’essere. L’adattamento del diritto al fatto è un mito duro a morire. Non è possibile dimostrarne qui la vacuità, l’effetto depauperante e la pericolosità. Altri autori (C. Atias e D. Linotte) vi si sono cimentati con incontestabile successo: le loro riflessioni meritano di esser considerate.

Ci limiteremo a riprendere due osservazioni. La necessità di adattare il diritto al fatto potrebbe pretendere una certa legittimità se fosse possibile stabilire scientificamente sia i fatti cui la norma del diritto è invitata a sottomettersi, al registro dei quali si adegua volentieri la pubblica opinione, sia la mancata applicazione o l’inefficacia del diritto positivo precedente. Ma nessuna di queste due categorie di dati può essere interpretata in modo rigoroso.

Come attestano gli esempi analizzati da C. Atias e D. Linotte, è impossibile scoprire scientificamente la posizione esatta della popolazione a proposito della legalizzazione di un comportamento fino ad allora proibito. La questione dell’eutanasia non sfugge alla regola, tutt’altro. Malintesi, falsi problemi e forzature linguistiche connotano la maggior parte delle discussioni sul tema [17].

D’altronde, la mancata applicazione di una norma giuridica ha sempre un’origine ambigua. Essa deriva da una scelta delle autorità politiche e giudiziarie, senza dubbio dettata dalla loro percezione della convinzione della maggioranza. Di più, ogni regola di diritto è parzialmente inefficace: la questione è dunque di definire la soglia di inefficacia, tale da giustificare l’abolizione della regola. Si suggerisce forse di sopprimere la normativa sui diritti d’autore con il pretesto che le contraffazioni di opere protette (fotocopie di lavori letterari, pirateria sui materiali telematici, ecc.) sono oggi innumerevoli?

Al contrario, il legislatore ha cercato di migliorare e completare la legge per combattere meglio le frodi in questo campo. E neppure si pensa necessariamente di eliminare il Codice stradale o la legislazione fiscale, nonostante le numerose infrazioni – spesso impunite – a quei testi normativi. Il mito che abbiamo denunciato non consente dunque di eludere il dibattito sulla questione di fondo.

D’altra parte, si cerca frequentemente di squalificare coloro che sono per il mantenimento del divieto e della sanzione penale in caso di trasgressione, rimproverando loro di essere a favore dello statu quo. Si tratta allora di sviluppare un’azione politica tesa a una migliore assistenza ai malati in fase terminale.

Questa finalità comporta che si adottino misure positive intese a migliorare la formazione di tutto il personale curante circa il modo di affrontare l’approssimarsi della morte (istituzione di corsi di medicina palliativa, accompagnamento dei malati, padronanza dei mezzi di controllo dei sintomi e del dolore), a stanziare fondi più consistenti per trovare cure attenuanti, ecc. Per il momento, vista la gravità dei problemi da risolvere, la legalizzazione dell’eutanasia non appare come una soluzione di comodo preconfezionata?

Pluralismo & compromessi

Per legittimare la legalizzazione dell’eutanasia si richiama spesso la necessità del compromesso in una società pluralista. Il rifiuto dell’eutanasia, presentato come volontà di imporre agli altri una convinzione di carattere religioso o confessionale, si tradurrebbe nel mancato rispetto dei princìpi della democrazia pluralista.

L’inconsistenza dell’obiezione è già stata sottolineata in precedenza: lungi dall’essere neutrale, la posizione “liberale”intende anch’essa inserire nella legge – e imporre a tutti [18] – una concezione ben precisa della vita, della persona e della dignità. Questa concezione contraddice effettivamente la visione cristiana (constatazione che può, a giusto titolo, essere considerata irrilevante in una società pluralista), ma nega anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la cui ispirazione è scarsamente sospettabile di confessionalismo.

D’altronde, c’è forse bisogno di sottolineare che il pluralismo non ha nulla a che vedere con il relativismo o la neutralità sul piano etico e politico? “Ogni legge penale ha la funzione di affermare i valori morali e sociali” [19] e, si aggiunga, di imporli a coloro che non li rispettano di buon grado. Il tracciato della linea divisoria fra ciò che concerne l’etica (privata) e il diritto non è neutro, ma poggia inevitabilmente su un giudizio etico preliminare. La vera questione è quindi sapere dove fissare i limiti.

Paradossalmente è impossibile, in effetti, delimitare i rispettivi ambiti della morale e del diritto senza avanzare sul terreno della morale. L’inclusione o l’esclusione di un certo problema dal campo del diritto implica necessariamente una opzione morale. A questo riguardo, l’argomento dell’autonomia, utilizzato per giustificare la privatizzazione di principio di tutte le questioni etiche, non può che apparire piuttosto dogmatico.

Nel nome di una sedicente neutralità, il legislatore è invitato ad astenersi sui temi etici, che vengono demandati all’autonomia e alla coscienza individuale di ciascuno: pertanto, in una democrazia pluralista, la frontiera tra l’etica privata e l’etica pubblica (e dunque il diritto) non dovrebbe essa stessa costituire oggetto di un pubblico dibattito rettamente argomentato?

Infine, che cosa pensare della necessità, spesso invocata, del compromesso, che condurrebbe all’accettazione dell’eutanasia nei soli “casi limite”? Raramente conviene che una legislazione sia pensata a partire da casi limite. Al contrario, il buon legislatore si guarderà bene da quello che in sociologia giuridica è chiamato “effetto macedonia”, cioè quella nefasta tendenza a foggiare una norma generale sulla base di un caso eccezionale o marginale.

Alla generalità della legge non va chiesto di contemplare tutte le ipotesi possibili, ivi comprese quelle “limite”. Seguendo questa logica fino in fondo, la soluzione ideale sarebbe l’abolizione pura e semplice del diritto penale, in forza della considerazione che ogni regola pone più o meno problemi ai limiti del campo di sua pertinenza.

Lo Stato di diritto – fondato sulla separazione e il controllo reciproco dei poteri – impedisce al legislatore di promulgare delle “leggi su casi particolari”, sostituendosi così al giudice, allo stesso modo in cui fa divieto a quest’ultimo di emanare “sentenze di regolamentazione”. A corti e tribunali spetta il compito di valutare le situazioni complesse nelle quali un medico potrebbe ricevere noie per aver posto in essere un atto che è al limite fra la legittima rinuncia all’accanimento medico e l’eutanasia.

A questo riguardo, fra altri meccanismi, la valutazione dell’opportunità dell’azione giudiziaria e la presa in considerazione di un’eventuale causa di giustificazione consentono già ora di far fronte a casi che esulano dalle norme.

Non si può negare che certi malati terminali sono in una situazione “limite”, veramente tragica. Tuttavia, sarebbe assurdo sacrificare la norma all’eccezione. La nozione di stato di necessità è, da lungo tempo, recepita nel diritto penale per affrontare situazioni di eccezione [20]. Nella fattispecie, lo stato di necessità permette di giustificare il medico che si sforza di combattere il dolore, a rischio di abbreviare la vita del suo paziente (necessità sedativa) [21]. Se il medico è animato dalla sola intenzione di lenire le sofferenze del suo paziente, la decisione di somministrare le “ultime” dosi di morfina – che può supporre saranno fatali – non è comparabile al gesto eutanasico [22].

La tesi dell’autonomia, invocata in appoggio alla legalizzazione dell’eutanasia su richiesta, appare semplicistica. Essa porta a dislocare il dibattito sul terreno delle considerazioni ideologiche, buone per uno scambio di vedute fra gente in buona salute, ma ben lontane dal vissuto reale dei malati terminali. Chi non si avvede che una richiesta di eutanasia, lungi dall’essere la pretesa lucida affermazione di una volontà libera e autonoma, denota generalmente il desiderio ambivalente di sfuggire a certe sofferenze, a meno di non essere, ancora più in radice, un segno di angoscia, una domanda di relazione?

La risposta adeguata a questa richiesta, che tutti converranno sul carattere per lo meno misterioso, sarà l’iniezione letale? Certuni pensano di si, convinti dell’estremo umanesimo della soluzione. E plausibile dubitare della pertinenza di un tale approccio, troppo semplicistico per essere veramente degno dell’uomo

Conclusione

La tesi dell’autonomia viene altresì presentata come la sola accettabile in uno Stato laico e pluralista. Tutto avviene come se la legge, rinviando ciascuno alla propria autonomia, non prendesse posizione. Ragionamento specioso. La legalizzazione di una qualsiasi forma di eutanasia viene a inscrivere in un testo legislativo una visione antropologica – una concezione della dignità – ben precisa e a imporla a tutti.

L’affermazione del valore incondizionato e della dignità ontologica di ogni vita umana non ha carattere confessionale più di quanto l’abbia l’affermazione dell’assenza di un suo valore intrinseco. Sostenere che “la vita umana fondi la dignità” non è asserzione neutra sotto il profilo filosofico, così come non lo è la pretesa che “la dignità sia fondamento della vita umana”.

La legalizzazione dell’eutanasia su richiesta non rimanda solo e un po’ troppo semplicisticamente all’autonomia dei singoli, ma interessa la società nelle sue fondamenta e perciò riguarda ogni cittadino. Dall’istante in cui il gesto eutanasico richiede il concorso di un altro, nel caso specifico un medico, viene coinvolto il legame sociale. Chi non vede che, pretendendo di investire il corpo medico del potere di praticare l’eutanasia, sono tutti i malati e tutti i medici a essere interessati dalla nuova permissione legale?

Non sarebbe preferibile che il legislatore serbasse la proibizione, rinunciando così a venire incontro a certe aspirazioni individuali in nome di legittimi beni superiori, quali la protezione del legame sociale e dell’integrità della professione medica, come pure quella dei malati?

Quanto alle soluzioni prospettate come compromessi, esse non dovrebbero venire analizzate ingenuamente come tali. Dischiudere una porta all’eutanasia significa in realtà accettare l’idea che la dignità umana ha valore relativo e soggettivo. Si toccano qui i limiti della cultura del compromesso.

Senza volerne negare gli innegabili vantaggi in molteplici ambiti, è giocoforza costatare che ciò non è sempre possibile. Nella fattispecie, non si può gestire così un’opzione fondamentale, refrattaria al compromesso. Bisogna scegliere: la dignità è una qualità ontologica della persona umana o essa attiene solamente alla qualità della vita? Rinunciare al primo corno dell’alternativa a vantaggio del secondo è una vera e propria scelta sociale, della quale non si dovrebbero minimizzare le conseguenze.

Note

[1] Nel suo parere del 12 maggio 1997, il Comitato consultivo di Bioetica del Belgio segnala che “la discussione in commissione ristretta è stata contrassegnata da una dinamica che privilegia l’esame della proposizione n. 3”, la quale prevede una “regolazione procedurale preliminare delle decisioni mediche più importanti concernenti la fine della vita, ivi compresa l’eutanasia”.

[2] Non si esaminerà quindi la situazione del paziente capace, ma incosciente, che ha firmato una “dichiarazione (o direttiva) anticipata” (chiamata anche “testamento di vita”), né quella delle persone incapaci di diritto.
[3] Il diritto all’autonomia o all’autodeterminazione come fondamento del diritto all’eutanasia volontaria è costantemente invocato in tutti i dibattiti, e in particolare in occasione delle giornate di riflessione sull’eutanasia organizzate dal Senato belga il 9 e 10 dicembre 1997.
[4] Sul piano della morale ci limitiamo a segnalare che nel 1957 papa Pio XII prese posizione sugli analgesici, raccomandandone l’uso, in mancanza di altri mezzi efficaci, nonostante l’immagine decisamente negativa dei “narcotici” a quel tempo. Cfr Pio XII, “Problémes religieux et moraux de l’analgesie”. La Documentation Catholique, 1957, n. 1247, col. 337-340. Questo insegnamento è stato successivamente confermato.
[5] La Chiesa cattolica rifiuta nettamente, e da lungo tempo, l’accanimento terapeutico. Cfr Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 2277-2279; Congregazione per la Dottrina della fede, “Dichiarazione sull’eutanasia”, 5 maggio 1980.
[6] F. Quéré, “Une dignité indigne de l’homme”, Ethique. La vie en question, n. 6-7, 1992/4-1993/1, p. 74.
[7] Corsivo nostro.
[8] Cfr E.Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, MI 1982, p.133-4.
[9] Per un costruttivo chiarimento, M. Schooyans, La derive totalitaire du liberalisme. Mame, Paris 1995.
[10] Migliaia di persone, uomini e donne, non sono forse state sterilizzate coattivamente in nome della purezza della razza nordica, o con motivazioni sociali, secondo i termini di una legge elaborata tra le due guerre? Analoghe leggi di sterilizzazione forzata sono state adottate, in maniera perfettamente democratica, dalla maggior parte dei Paesi scandinavi, ma anche dal Canada e da diversi Stati americani. Nel suo Le désir du gène (F. Bourin, Paris 1992), J. Testart si impegna a confutare quanti ritengono che la volontà di sopprimere gli individui non conformi sia legata a un’ideologia totalitaria e che la democrazia, di per sé, ci protegga dalle derive eugeniche. Il suo proposito, fondato su talune pratiche di procreazione medicalmente assistita, si rivela oggi premonitore sotto molteplici aspetti.
[11] B. Matray, “La mort euthanasiée n’est pas la mort humaine”, Ethique. La vie en question, n. 6-7, 1992/4-1993/1, p. 79.
[12] Per esempio, l’intervento al Senato belga di E. Vermeersch, il 9 dicembre 1997: “Mi riesce ostico accettare la tesi secondo la quale l’eutanasia non sarebbe attuabile che nella fase terminale. In realtà, è difficile determinare esattamente questa fase e, in certi casi, la situazione del paziente è senza via d’uscita non solamente sul piano medico, ma anche sul piano psicologico”.
[13] È noto, infatti, che occorre sempre una licenza di costruzione per edificare (fosse pure un semplice muretto o una terrazza) nel proprio giardino o per modificare, sia pure di poco, l’aspetto della facciata della propria casa.
[14] Il suicidio non è mai stato riconosciuto come un diritto dell’uomo; anzi, è stato espressamente respinto come tale dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nonostante le diverse proposte fatte in tal senso.
[15] Costante è il rifiuto della nostra tradizione filosofica e giuridica a riconoscere l’esistenza di uno ius in se ipsum (nonché il suo corollario, il potere di disporre di sé a proprio piacimento): da Aristotele a Kant, da Ulpiano a Savigny, passando per Descartes, Rousseau e tanti altri.
[16] B. Matray, op. cit., p. 79. È sintomatico che nei Paesi Bassi il crescente successo di alcuni centri ospedalieri sia dovuto all’ostentato rifiuto di praticare l’eutanasia.
[17] Alcune persone si dicono favorevoli all’eutanasia passiva, mentre l’espressione corretta della loro posizione sarebbe il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Spesso è solo la paura di soffrire che spinge molte persone a dichiararsi a favore dell’eutanasia. Bisogna onestamente convenire che il dibattito è falsato. Siamo pronti a scommettere che, nelle inchieste, la percentuale dei cittadini favorevoli all’eutanasia si rivelerebbe nettamente inferiore se il quesito loro posto contemplasse l’ipotesi che il dolore possa essere dominato.
[18] Infatti ogni legge – particolarmente in un àmbito come questo – presenta un rilievo strutturante e simbolico che riguarda e interessa tutti i cittadini; essa convoglia valori morali, sociali e culturali che avranno l’effetto di impregnare l’atmosfera che tutti dovranno respirare, lo vogliano o no.
[19] J. Messini, “Réflexions d’un juriste”, Journ. proc., n. 276, 1995, p.13.
[20] Lo “stato di necessità” è una nozione forgiata dalla giurisprudenza. Esso consente di giustificare la persona che è indotta a trasgredire la legge penale – perché non può fare diversamente – allo scopo di salvaguardare un bene superiore. La nozione stessa sta a significare che, tra due mali, è possibile scegliere il minore, anche se questo costituisce di per sé un’infrazione, a condizione che l’atto posto in essere sia proporzionato al bene che si vuoi tutelare o al male che si vuole evitare. L’esempio tipico è quello del chirurgo che amputa la gamba cancrenosa del paziente senza incorrere nella condanna per lesioni personali. Ricordiamo che tutta l’attività medica è giustificata dalla necessità terapeutica. L’atto medico lesivo si giustifica perché viene effettuato, in situazione di necessità, a scopo curativo, sempre che l’intervento sia proporzionato al male da scongiurare.
[21] Di fronte a un duplice dovere – sedare la sofferenza, da una parte, e rispettare la vita, dall’altra -, il medico deve infatti scegliere. È ammissibile che, nell’adempimento del suo dovere, il medico corra il rischio di affrettare indirettamente la morte del paziente, purché abbia soppesato adeguatamente la proporzione tra la mitigazione della sofferenza e il rischio di abbreviare la vita. In siffatta ipotesi, l’eutanasia è fuori luogo.
[22] Il richiamo allo stato di necessità non appare invece pertinente per giustificare l’atto eutanasico stricto sensu. In questo caso, infatti, la preoccupazione di alleviare la sofferenza viene confrontata con l’omicidio. Come potrebbe lo stato di necessità discolpare il medico che toglie la vita per sopprimere la sofferenza, se il valore sacrificato è il bene supremo, condizione e radice di tutti gli altri beni?