Le ragioni della morte della democrazia

morte democraziaCorrispondenza romana n. 1370

del 17 dicembre 2014

di Tommaso Scandroglio

Ultime elezioni regionali: astensione record. Ultimi tre governi: non eletti dai cittadini. Quale è il minimo comun denominatore tra questi due fatti politici? La morte della democrazia.

Da una parte l’italiano medio non crede più al sistema rousseauniano «una testa un voto». Ha finalmente capito che per chi governa la sua testa e ciò che c’è dentro poco vale. Vale solo il suo voto, che è cosa diversa. Il famigerato partito dell’astensione ha raccolto sempre più tesserati nel tempo. Votanti delle politiche del’63: 96%. Votanti delle politiche del 2013: 72%.

Su altro versante i gestori della res publica hanno anche loro mandato al macero la dottrina democratica con i governi tecnici perché la democrazia – ammettiamolo – è solo un sistema per accaparrasi il potere, ma se questo puoi averlo scavalcando il voto popolare perché non tentare? Quindi il voto democratico ha valore se corrisponde alle aspettative di chi sta in alto. Negli altri casi è preferibile tornare all’oligarchia. Vedasi le decine di referendum dove la plebe decise per il bianco e Parlamento e Governo ossequiarono i risultati delle urne decidendo per il nero.

Insomma tutti parlano di democrazia, ma pare proprio che nessuno la voglia per davvero. I motivi che spiegano le urne vuote sono noti e sicuramente in parte validi:disaffezione dalla politica, sfiducia nei governanti, scollamento tra il sentito popolare e quello elitario di coloro i quali frequentano i palazzi del potere, malcostume “rubaiolo” di quest’ultimi, constatazione che nulla cambia a parte il nome dei partiti (ma non il nome dei politici) e via lamentandosi. Ma forse c’è dell’altro.

Facendo un poco di politologia all’amatriciana potremmo dire che la crisi della democrazia è anche da rinvenire in due aspetti che chiameremo “Il villaggio non globale” e “Ridateci i filosofi”. Partiamo dal primo: È di piena evidenza che più una comunità di persone cresce numericamente più è difficile conoscersi bene l’un l’altro (pare che un buon limite sia quello di 100 persone a comunità). Quindi potremmo dire che la conoscenza e la fiducia interpersonale è indirettamente proporzionale al numero di persone che compongono una comunità.

Ora il sistema di rappresentanza funziona soprattutto nelle comunità piccole. Perché?Per il motivo che io conosco bene il mio candidato, che questi conosce bene me e la situazione sociale che andrà a governare – anch’essa non complessa perché di ridotte dimensioni – e che soprattutto se il candidato sgarra o fa il furbo lo posso personalmente andare a strigliare. La democrazia ha reali difficoltà a funzionare invece nei villaggi globali come le nazioni. Prova ne è che alcuni piccoli comuni vantano spesso un’amministrazione così virtuosa che sarebbe realisticamente impossibile eguagliare a livello nazionale.

Secondo punto. Platone nella Repubblica scrive che al governo ci dovrebbero andare i filosofi. Chi sono i filosofi? I saggi. Pare banale chiederlo, ma a governare una intera nazione non vorremmo noi gente capace, prudente, amante della giustizia, che sa discernere con oculatezza cosa serve davvero per il bene comune? Nella mentalità politica corrente invece si è sostituito il saggio con il tecnico. Dato che si interpreta il bene comune come se fosse un business – tutti che lavorano e hanno la pancia piena dicendo addio a valori quali la famiglia e la vita che sono ben più importanti – e la Nazione come un’impresa – l’importante è l’efficienza dei servizi e il wellfare, mica l’educazione e la libertà religiosa – ecco che la figura del tecnico è la miglior risposta alla crisi.

Ma cosa c’entra il filosofo di Platone con la democrazia? C’entra eccome perché il saggio che dovrebbe governare potrebbe essere scelto molto difficilmente dalla base, sia perché questa il più delle volte saggia non è – ed ogni simile cerca il suo simile – sia perché il singolo guarda al suo utile privato, non ha la capacità, propria invece del saggio, di guardare al bene collettivo. Insomma il suo voto andrebbe a chi promette di rendere l’erba del suo giardino sempre più verde.

Il saggio invece prometterebbe anche lacrime e sangue perché il bene comune è impegno di tutti da lucrare anche con sacrifici personali, ricorderebbe che prima dei diritti vi sono i doveri, metterebbe al bando le leggi ingiuste che però a molti sembrano tanto giuste. E chi lo voterebbe uno così? Nessuno. Si darebbe il voto invece a chi saggio non è, ma forse scaltro sì. Però alla fine tale scaltrezza andrebbe a danno di tutti – come la storia delle democrazie ci spesso ci insegna – e questi tutti alla lunga non saprebbero più che farsene della parola “democrazia”. Meglio allora starsene a casa o andare al bar con l’amico filosofo il quale, con siffatta laurea in tasca, ha molto tempo libero dato che non riesce a trovare uno straccio di lavoro. Figurarsi fare il Presidente del Consiglio.