Chi ha “fatto gli italiani” dopo i guasti dell’unità (titolo redazionale)

Tommaseo_coverRubrica VIVAIO (375) pubblicata su Avvenire
11 ottobre 1990

di Vittorio Messori

Alcuni anni fa, la Rizzoli ristampava le oltre 13.000, fittissime pagine del Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo. Spesso, per ristorarmi, prendo a caso uno di quei venti volumi per leggerne qualche “voce”; non ne rimango mai deluso. Si sa che al rigoroso lavoro di filologo, il grande Dalmata unì i suoi umori, le sue simpatie letterarie e politiche, il suo bisogno di apostolato cristiano, così che quel Dizionario non è solo opera di consultazione ma anche di avvincente lettura.

Nel Programma, scritto pochissimi mesi dopo la proclamazione dell’unità d’Italia, nel 1861, l’editore – il celebre Luigi Pomba, fondatore della ancora oggi fiorente UTET – scriveva che quella pubblicazione rappresentava «un’impresa che può dirsi a buon diritto un vero nazionale monumento».

A più di un secolo di distanza, conferma Gianfranco Folena, predatore della ristampa recente: «Fra i tanti monumenti, per lo più orridi, sorti in quegli anni è questo senza dubbio il più valido, forse il solo pienamente degno, che l’Italia abbia eretto alla sua Unità, il Classico dei Classici pensato da un grande scrittore-filologo, bilancio globale della storia linguistica, civile e letteraria dell’Italia pre-unitaria offerto all’Italia unita».

Riconoscimento di uno studioso laico che suona, oggi, di particolare attualità: in effetti, questo monumento («il più valido, forse il solo pienamente degno») all’Unità italiana fu eretto da un cattolico tormentato ma sincero, da un uomo di fede intrepida, malgrado le umanissime cadute, come il Tommaseo, il quale in apertura del primo dei molti volumi del Dizionario volle una frase: «la lingua è uno de’ più forti vincoli che stringano alla Patria».

L’Italia fu fatta proprio allora, secondo le celeberrime parole di Massimo d’Azeglio, ma restavano da fare gli italiani. In quest’opera di costruzione mostrò i suoi limiti, se non la sua impotenza, la casta – ristretta, oligarchica, spesso faziosamente anticlericale se non irreligiosa e persecutrice dei credenti – che aveva fatto quella Italia.

Con onestà pari all’amarezza scriveva a Giosuè Carducci Ferdinando Martini, uno dei grandi notabili politico-culturali del ceto dirigente dell’Italia massonica e che fu anche ministro dell’istruzione: «Abbiamo voluto distruggere e non abbiamo saputo nulla edificare».

Qualche decennio prima, Costantino Nigra, uomo di loggia anch’egli, diplomatico carissimo a Cavour, scriveva al Conte a proposito del personaggio più esemplare del movimento nazionale: «Ce Garibaldi n’est ben qu’à détruire», non è capace che di distruggere. In effetti, bravo nella guerra – anzi, nella guerriglia o dove la lotta si risolvesse con qualche assalto pittoresco – Garibaldi distrusse ma non riuscì a nulla combinare quando si trattò di ricostruire.

La sua carriera parlamentare è una serie di progetti fantastici, come quello di togliere il Tevere a Roma e di deviarlo lontano dalla città per evitare le inondazioni, secondo un suo personale piano che, a parte l’impossibilità tecnica (tutto, in effetti, finì con imbarazzate parole degli esperti veri che lo rimandarono a Caprera) avrebbe privato la Città eterna del suo fiume. Eletto nel Collegio di Roma, non demorse e perorò altri progetti assurdi.

L’inconcludente carriera parlamentare dell’uomo simbolo del Risorgimento è esemplare di ciò che avvenne dopo il periodo eroico: favorevoli circostanze avevano permesso di distruggere e sette diversi Stati in cui l’Italia si divideva, travolgendo per sempre una straordinaria varietà sociale, economica, culturale. Ma quando si trattò di passare a una nuova costruzione, le cose si fecero amare: e le conseguenze le paghiamo tutt’ora. fatta l’Italia, nel senso legale, statuale; ma non gli italiani, non la gente reale.

Per ritornare là da dove eravamo partiti, ecco che a quest’opera di edificazione della nazione, all’attività di costruzione del Paese si diedero uomini come il Tommaseo, credente in un cattolicesimo non solo combattuto dai vincitori ma irriso, dichiarato anzi anacronistico e ormai morente. mentre – distruggendo, anche qui, vestigia storiche preziose e dilapidando gli scarsi fondi di un Paese in miseria – si elevavano i colossali altari alla nuova religione nazionalista come quel monumento a Vittorio Emanuele II che ingombra senza rimedio il cuore di Roma; mentre si pensava che con il marmo e il bronzo di statue equestri si sarebbe creata l’unità degli animi, ecco che il cristiano Tommaseo alla Patria dava il decisivo strumento linguistico.

Ecco che un altro credente senza rispetti umani come Manzoni regalava agli italiani il libro che, mentre contribuiva anch’esso – e potentemente – all’impegno, patriottico per eccellenza, di fissare una lingua d’uso comune al contempo proponeva una prospettiva religiosa sulle cui basi costruire.

Erano le stesse basi evangeliche riproposte da quel «pentito» della rivoluzione che era Silvio Pellico, con quel Le mie prigioni che solo una deformazione interessata poteva far credere omogenee al patriottismo come era inteso dalla casta vincitrice. Ecco che, con un altro incredibile best-seller popolare come Il Bel Paese, un prete, Antonio Stoppani, aiutava gli italiani a conoscere una terra «loro» soltanto per sentito dire, in realtà sconosciuta e sentita spesso come estranea.

Per citare ancora dalla lettera di Ferdinando Martini a Carducci: «Dopo il male che noi, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto, siamo in grado di provvedere ai rimedi? A chi predichiamo noi? Noi borghesia volterriana, siamo noi che abbiamo fatto i miscredenti, ora, alle plebi che chiedono poule au pot perché non credono più nell’al di là, ritorneremo fuori a parlare di un Dio che ieri abbiamo negato? Non ci prestano fede; parlo delle plebi delle città e de’ borghi, le quali di un Dio senza chiese, senza riti, senza preti non sanno che farsi.

A tutto il male che noi – non tu ed io: noi come ceto – abbiamo fatto per spensierata superbia, le tombe sono troppo scarso compenso. la scuola doveva, nelle chiacchiere de’ pedagoghi, sostituire la chiesa. Bella sostituzione! Te la raccomando!…».

A quelle “plebi”, a quell’Italia reale, a quegli italiani del 98 per cento che non votavano tentavano di provvedere – spesso perseguitati, banditi, soppressi nelle loro opere sociali – quei cattolici che il sistema aveva costretto a non essere «né eletti né elettori». Quei credenti “intransigenti” che, preclusa loro la via dello Stato, si erano davvero gettati nella società: per quel solo periodo di “Risorgimento” e di “Postrisorgimento”, la Chiesa conta (ma le cifre sono continuamente mutevoli, e al rialzo) qualcosa come 31 santi, 61 beati, 350 servi di Dio e venerabili. Quattrocentoquarantadue nomi che non sono che la proverbiale punta dell’iceberg di un’incredibile mobilitazione di tutta intera la Chiesa per fare gli italiani dove l’Italia legale – chiusa nei suoi borghesi, elitari miti e riti – aveva fallito.

Lo storico scozzese Denis Mack Smith ha scritto, intervenendo sulle polemiche di queste settimane causate dal solo sospetto che si volesse toccare il Risorgimento “ufficiale”: «I commenti della stampa hanno mostrato, con la rabbia dei toni, che è stato toccato un argomento che trova nervi ancora sensibili».

Sensibili, forse, ad una verità rimossa e negata: che, cioè, sia ancora tutta da scrivere una storia dell’Italia unita dalla parte della gente. Una parte dove – dai luoghi della cultura sino a quelli del bisogno dei più miseri – non si trovano quasi che cattolici. Quelli che costruirono e ricostruirono , in nome di una fede antica, iò che le nuove “religioni dell’uomo” avevano demolito.