Attenti, spesso gli alfieri del progresso rinnegano la democrazia

progressoArticolo pubblicato su Il Messaggero
25 luglio 1995

di Domenico Settembrini

In Naufraghi senza spettatore. L’idea di progresso (Il Mulino) Paolo Rossi polemizza contro la deformazione, a opera dei postmoderni del concetto di modernità, a partire dalla sua connotazione fondamentale: l’idea di progresso. Questa idea si modella in effetti su quella di un accrescimento cumulativo del sapere umano, che rappresenta il portato della rivoluzione scientifica. Occorre ricordare, però, che per gli “esponenti della rivoluzione scientifica” – da Bacone a Boyle, da Galileo a Newton – il progresso delle conoscenze, di per sé non costituisce affatto una garanzia automatica di progresso in generale.

Al contrario: ai loro occhi anche l’avanzamento del sapere, e il potere sulla natura che ne consegue, “hanno valore solo se realizzati in un ampio contesto che concerne la religione, la morale, la politica”. Inoltre per i suoi fondatori lo sviluppo della scienza comporta il rifiuto del concetto classico e rinascimentale di “iniziazione”, per cui il sapere non si basa più sulla distinzione rigida tra i pochi illuminati e “la folla dei semplici e degli ignoranti”, ma scaturisce dal processo del dubbio, della critica e della dimostrazione pubblica, cui, in linea di principio almeno, tutti sono ammessi a partecipare. Si tratta – come è evidente – di un “progresso” irrinunciabile, sia per la costruzione del sapere che, più in generale, per il destino della civiltà e della democrazia.

Secondo i suoi critici postmoderni, invece, la modernità sarebbe caratterizzata da una fede dogmatica nelle magnifiche sorti e progressive della nostra specie; fede che non solo non ammette alternative o dubbi critici, ma incita addirittura alla “lotta” contro le forze della conservazione, per secondare e accelerare la realizzazione, comunque inevitabile, dell’ordine provvidenziale. Per estirpare dalle radici il fanatismo e il totalitarismo di questa religione secolarizzata, che ha insanguinato la Terra, risulterebbe pertanto necessario – così ragionano i postmoderni – rifiutare anche la modernità, dal cui humus, altrimenti, essa tornerebbe a rigenerasi.

Rossi riconosce che, nella versione palingenetica, l’idea di progresso “appartiene irrimediabilmente al passato”. A suo giudizio, però, il fatto che i postmoderni siano convinti che il progresso della scienza e della tecnica sia “condizione sufficiente per la creazione della società ideale” corrisponde non alla realtà ma all’immagine distorta che essi se ne sono fatta, proiettando all’indietro l’ideologia positivista del progresso.

Questo mito del progresso, sviluppatosi solo tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento, a opera di pensatori come Turgot, Condorcet, Saint-Simon, Comte, è connotato, esso sì, da un fideismo cieco nella ragione. Una fede che, anche nel “breve periodo” in cui si è effettivamente manifestata, appare però “incrinata da un mare di dubbi”:

Innumerevoli, infatti, sono le voci che tra Ottocento e Novecento, da Zola a Freud, da Taine a Lombroso, hanno espresso in migliaia di pagine “l’oscura apprensione di un crepuscolo dei popoli”. Tanto che nel 1930 c’era chi poteva scrivere che “soltanto i marxisti osano ancora asserire che il futuro possa essere predeterminato dalla volontà degli uomini”.

In realtà -ed è questo l’unico rilievo che ci sentiamo di fare – nella fondazione, nella diffusione, nella degenerazione totalitaria della concezione “hegeliano-comtiana” della storia come progresso, Marx e i suoi discepoli hanno avuto un ruolo altrimenti determinante, di quanto non appaia da questo lavoro del Rossi.

A chi, se non ai marxisti, si deve infatti se in molti paesi, tra cui l’Italia, questa religione aberrante del progresso ha potuto sopravvivere ben oltre la scoperta dei lager e dei gulag, fin quasi al crollo del comunismo? Non a caso tra i postmoderni si trovano molti ex marxisti, i quali sono passati dall’abbandono della mitologia del progresso “allo sgomento di fronte a un mondo non più controllabile” e di qui al “rifiuto dell’intelletto, della scienza, della tecnica, dell’industria”.

In tal modo hanno riscoperto motivi e pensatori della rivolta contro il mondo moderno, tipica del tradizionalismo e, più in generale, della cultura di estrema destra. Dalla commistione delle culture delle due estreme nasce così una miscela che potrebbe rivelarsi altrettanto, se non addirittura più avversa, di quanto ciascuna di esse, separatamente presa, già non fosse, nei confronti della cultura di cui si alimenta la democrazia liberale.

Quella democrazia che – secondo le conclusioni ineccepibili di Rossi – “è prevalentemente (anche se non esclusivamente) legata a una filosofia (l’empirismo) che non dà brividi lungo la schiena, che è nata in polemica con l’entusiasmo, che insiste sui limiti del possibile, sulla provvisorietà delle soluzioni, sulla loro parzialità e rivedibilità, che preferisce compromessi alle decisioni carismatiche”.

Questo perché la democrazia è costretta a vivere “perennemente nel contrasto fra la ricerca del consenso e la necessità di misure impopolari, fra la necessità delle competenze (che sono di pochi) e la necessità del controllo dei molti sulle decisioni dei pochi”.