Cina, gli operai fuggono dal partito

Cina-operaipubblicato su  Il Corriere della Sera
del 10 maggio 2005

di Fabio Cavalera

PECHINO – Alla scuola che forma i dirigenti comunisti lo ammettono. Il partito è alle prese con una severa crisi di identità e di fiducia. È una crisi che a medio-lungo termine minac­cia l’equilibrio della società cinese. La realtà, del resto, non può essere negata. Un documento – la radiografia della Cina del 2004 pubblicata da poco dalla Accademia delle scienze, l’istituto di analisi che affianca il governo – contiene affermazioni inusuali.

Leggiamone un paio: «Sebbene i membri del comitato politico centrale parlino spesso di servire il popolo o di agire per il bene del popolo spesso occupano il loro posto senza un senso di responsabilità per il popolo». E ancora: «Riguardo la rettitudine nei comportamenti politici, l’atteggiamento dei membri del comitato è piuttosto ambiguo e complicato».

Dietro ai pesanti silenzi o dietro ai titoli del “Quotidiano del popolo” del tipo «mantenere il ruolo avanzato degli iscritti del Pcc» o «valorizzare il grande spirito dei lavoratori modello» si nasconde una profonda inquietudine. Così profonda che le strutture del partito hanno cominciato a interrogarsi sul futuro che le attende. La ragione di tale inquietudine è che la capacità di interpretare i nuovi sentimenti della società cinese si è indebolita e ha raggiunto livelli di guardia. C’è innanzitutto uno scontro di generazioni.

Dice l’analisi della Accademia delle scienze: «Le opinioni dei nuovi membri del partito sembrano non essere del tutto conformi a quelle dei vecchi membri del comitato politico centrale». Ma poi si aggiungono tensioni inedite alla rigidità burocratica della organizzazione. Rivela la “radiografia che il 20 per cento dei quadri dirigenti del partito chiede maggiore democrazia interna. E che il 45,5 per cento dei quadri comunisti ritiene essenziale la riforma del sistema politico e del sistema istituzionale.

Il partito unico, il padrone della Cina, è davanti a una realtà che si presenta, secondo quanto afferma un dirigente della scuola dei dirigenti, con diverse facce. Le possiamo così riassumere: 1) calano le adesioni nel mondo operaio e contadino; 2) all’opposto crescono – e di molto – le iscrizioni fra gli imprenditori e nelle file della neo alta borghesia cittadina; 3) infine il ceto medio urbano, «ceto medio conservatore di tipo occidentale» (lo definiscono in questo modo i sociologi della Accademia) con il quale il partito aveva stretto un patto di scambio – nuove libertà di mercato contro stabilità sociale – si sta allontanando dalla politica perché non sente rappresentate le sue spe­ranze di tranquilla opulenza.

I segnali di allarme sono sparsi ma tanti. Duri i capitoli di accusa, sostenuti anche dentro il partito. Le idee contano poco. Conta ben altro. È il partito delle auto blu. Alla ultima as­semblea nazionale del popolo un delegato si è alzato per ammonire che le spese destinate alle auto di rappresentanza stanno esplodendo. È’ il partito delle poltrone. I genitori invitano i figli a iscriversi al partito solo perché regala un impiego. È il partito degli imprenditori che sfidano il mercato e hanno bisogno di appoggi influenti. Ed è il partito della corruzione.

Circolano nell’apparato comunista alcuni numeri che fotografano il suo stato di salute morale. Da otto anni in qua, dopo il quindicesimo congresso, il partito ha scoperto un caso di corruzione al mese a livello ministeriale, un caso di corruzione al giorno a livello centrale medio-al­to, quindici casi di corruzione al giorno a livello distrettuale. Una cifra enorme «Come è possibile reggere l’urto della modernizzazione che richiede capacità di mediazione se si perde di vista l’interesse generale e si pensa al conto in banca?». Domanda che in tanti si pongono.

Quei sessantotto milioni di iscritti ingannano. Il numero in termini assoluti appare altissimo, in termini percentuali (5 per cento della popolazione) dimostra invece sia la natura dirigistica del partito sia la disaffezione fra i ceti medi e le tradizionali aree di adesione. Già nel 2003 il Pcc era vecchio (solo il 15 per cento degli iscritti aveva meno di 35 anni). Un iscritto su due era operaio o contadino. Il 17 per cento era composto da colletti bianchi, il 21 per cento da militari e funzionari dello Stato. Ma negli ul­timi due anni le percentuali si sono differenziate e il modello fondato a Shanghai nel luglio 1921 è ora definitivamente superato.

Sia nella composizione sociale sia nei valori che rappresenta. Ci sono tre dati che consolidano queste considerazioni. Proven­gono da una ricerca svolta dal dipartimento lavoro del comitato centrale del Pcc, dalla associazione della industria e del commercio, dalla associazione per la ricerca sulle aziende private. Il primo dato dice che un imprenditore su tre ha la tessera del Partito comunista.

Il secondo dato afferma che fra le maggiori spese a carico delle aziende private vi sono quelle catalogate come «pubbliche relazioni e buon rapporto con i funzionari gover­nativi». Traduciamolo con «corruzioni». Il terzo dato sottolinea come 9 imprenditori su 10 spingano per «protezione del patrimonio privato».

I tre dati confermano che il Partito comunista cinese ha conservato la sua funzione di perno del sistema ma che la testa e il cuore sono stati trapiantati. Il risultato finale è (accerchiamento esterno e il grave disagio interno. Premono e protestano gli operai e i contadini. Premono i ceti medi disillusi.

Premono gli imprenditori che utilizzano la politica per tornaconto personale. È un processo intenso quello che sta scuotendo la politica cinese, una volta segreta e inaccessibile, oggi un po’ meno. Deng Xiaping aveva riconosciuto il diritto alla ricchezza spezzando il dogmatismo dell’uguaglianza. Oggi la modernizzazione si è tal­mente spinta in là da rendere attuale un dubbio: quanto riuscirà a durare la versione autoritaria di un partito al quale la globalizzazione ha estirpato i geni delle origini ma al quale sta offrendo, seppure minacciati dalla degenerazione delle corruzioni e dal vecchio assolutismo, inediti germogli di democrazia