Quelli che furono contro

Bautzen_Stasi

Il carcere di Bautzen

Articolo pubblicato su MILLENOVECENTO n.22 agosto 2004

Gli italiani e la Germania est/2 – Le vittime della Stasi

di Anna Maria Minutilli *  

Al centro della Laussitzer Berge, nella Sassonia orientale tra lande e laghi solitari a 60 Km a est di Dresda, si erge una graziosa cittadina di 53 mila abitanti: Bautzen. Il suo nome, però, provoca immediati accostamenti con quello del famoso carcere qui situato, detto «miseria gialla» dal colore dei mattoni gialli con cui è stato costruito: accanto a esso, ne esisteva un altro ai tempi della Ddr: Bautzen II, nella Maettingstrasse, il penitenziario «riservato» della Stasi.

Qui il servizio segreto comunista rinchiudeva i prigionieri accusati dei reati più diversi: c’erano gli oppositori del regime, socialisti ribelli e comunisti che avevano rinnegato l’ideologia stalinista, c’erano i collaboratori dell’apparato segreto della Stasi che si erano resi colpevoli di qualche delitto comune e che venivano usati come spie o agenti provocatori e c’erano naturalmente le spie e gli agenti dei servizi segreti occidentali.

I detenuti non sapevano assolutamente niente l’uno dell’altro, poiché erano rinchiusi in celle di isolamento. Negli anni cinquanta l’isolamento e la segretezza erano perfetti: di tutto ciò che succedeva dietro le mura del penitenziario speciale non trapelò quasi niente all’esterno (7).

COL PASSARE DEL TEMPO gli avversari del regime politico non furono più soltanto automaticamente quelli che avevano portato una certa uniforme, ma iniziarono a essere anche stranieri che vivevano o visitavano il territorio della Germania dell’est. Il regime si sentiva forte, con un amico come l’Unione Sovietica alle spalle, e così venivano violati gli articoli delle convenzioni internazionali, con i prigionieri che confessavano , grazie a metodi di tortura molto sofisticati, compreso l’abuso sistematico della psichiatria nei confronti degli avversari del regime e le torture di ordine psicologico che ne distruggevano l’equilibrio mentale.

Ancora negli anni settanta i politici dissidenti venivano accolti, una volta scontata la pena, in istituti psichiatrici dove si provvedeva a “curarli” affinché la società fosse protetta da questi elementi. Dentro le mura furono detenuti anche diversi italiani che della Ddr conobbero l’aspetto più truce.Il primo caso fu quello di una donna.

Elena Scascia nacque a Berlino-Shmargendorf il 28 agosto 1935. Suo padre, originario di Bari, aveva lavorato, dal 1935 al 1963, presso il consolato generale italiano a Berlino, sua madre era tedesca.Elena Sciascia fu condannata a sette anni e sei mesi di reclusione, ridotti dal governo a due anni e mezzo, in seguito a interventi di personalità e organizzazioni italiane. Il suo crimine fu di aver accettato di prendere contatto a Berlino ovest con un intermediario che doveva aiutare a fuggire in occidente una sua amica tedesca che voleva assolutamente abbandonare la Ddr.

La Sciascia trovò questa persona che però richiese la cifra di 30 mila marchi per questa operazione: a quel punto l’amica dovette desistere dal suo piano di fuga in occidente. Dunque il fatto di avere semplicemente preso contatto, sia pure senza esito, con l’intermediario di Berlino ovest, fu sufficiente perché il tribunale emettesse nei confronti della Sciascia un verdetto di reità per «tratta di uomini contro lo Stato» con la conseguente condanna.

Gli anni che la Sciascia scontò, escluso l’isolamento, furono solo due, ma non per l’interessamento dell’Italia. Fu la Repubblica federale tedesca a pagare 80 mila marchi di riscatto e a ottenere il suo rilascio.

IL SECONDO CASO RIGUARDA L’ITALIANO GRAZIANO BERTUSSIN: nato nel 1943, era emigrato giovanissimo in Germania per lavorarvi, approdando a Berlino ovest. Visitava spesso il settore orientale di Berlino, perché vi aveva trovato alcuni amici e dove pare una volta avesse fotografato illegalmente l’ambasciata albanese (questa fu l’accusa).

Arrestato dalla Stasi, forse perché costretto o forse per leggerezza giovanile o spirito di avventura, commise l’errore di accettare di diventare una spia per conto di quel servizio segreto, promettendo di procurare materiale e informazioni sui segreti occidentali di Berlino ovest.

Bertussin fornì alcune storie inventate, ma la Stasi lo scoprì e lui dovette subirne le conseguenze. Con torture fisiche e psicologiche e sotto la minaccia costante della condanna a morte venne costretto a una falsa confessione: dovette cioè dichiarare di essere stato tenente del servizio segreto italiano, reato per il quale venne condannato a 10 anni di reclusione in quanto «spia».

Benito Corghi

Di quei dieci anni, ne scontò poi solo quattro e mezzo a Bautzen II. Il caso più tragico, di cui però la responsabilità non fu della Stasi ma dei dirigenti stessi della Ddr che diedero l’ordine di sparare, fu quello dell’autista italiano Benito Corghi, che trasportava regolarmente delle merci dalla Ddr in Italia.

Durante uno dei suoi viaggi Corghi, una volta passata la frontiera si accorse di dovere ritornare al posto di controllo della Ddr per ritirare un documento mancante. Poiché girare il suo grosso camion gli appariva troppo faticoso, pensò bene di percorrere a piedi i pochi metri di autostrada che lo separavano dalla frontiera. ma l’autostrada era vietata ai pedoni e così Corghi fu preso a fucilate senza che avesse neppure il tempo di capire perché: nella Ddr si poteva morire così.

Questo tragico episodio accadde nell’agosto del 1976 e fu ampiamente denunciato dalla stampa internazionale. Il quarto caso vede protagonista Vittorio Palmieri, un montatore elettricista romano emigrato in Germania agli inizi degli anni sessanta. Anch’egli, come gli altri stranieri, godeva di una certa libertà di transito attraverso gli sbarramenti del muro.

Il 28 febbraio 1962 fu arrestato per la prima volta alla stazione della metropolitana sopraelevata della Friedrichstrasse a Berlino est per opera di un certo Dietrich, uno «spione scout», con il compito di tendere trappole a stranieri di passaggio a Berlino est per metterli nelle mani della polizia, in modo che questa potesse poi costringerli a diventare altrettanti informatori.

Questo Dietrich gli si era presentato come giornalista e lo pregò di fargli un favore: consegnare all’abitazione di un certo mister Wilson, nel quartiere occidentale di Zehlendorf, un pacchetto contenente un libro: calmieri accettò, convinto di fare una cortesia ad un amico che non poteva attraversare il muro. Con il pacchetto sotto il braccio, si presentò alla frontiera mostrando il suo passaporto per tornare a casa; invece venne fermato e gli fu chiesto cosa contenesse quel pacchetto. Calmieri rispose che conteneva soltanto un libro.

Uno dei Vopos aprì il pacchetto mostrandogli trionfalmente il contenuto: come grandi lenzuola, dinanzi agli occhi dell’ignaro Calmieri, si spiegarono carte e mappe con tanti cerchietti rossi disegnati a matita intorno a città o quartieri di città. Un altro agente continuò la trafila di accuse imputandogli di essere una sporca spia al servizio degli americani. quelli erano gli obiettivi militari sovietici di Jena, Dresda e Lipsia.

SUBITO DOPO ALL’ATTONITO PALMIERI legarono le mani e lo fecero stare per più di due ore con le braccia alzate, poi lo rinchiusero in una cella.  Non potè avvalersi neppure della presenza di un avvocato: fu allora che Calmieri capì di essere stato vittima di un tranello: quel Dietrich altro non era che un agente della Stasi. Il mattino dopo gli fu offerto di collaborare come spia: in alternativa c’era il carcere.

Per timore Palmieri accettò di collaborare, ma dopo poco tempo riuscì a fuggire e decise di diventare un Fluchthelfer, termine tedesco per indicare chi aiutava i tedeschi dell’est a fuggire in occidente. La sua odissea però non era finita: un suo compagno di sventura, un olandese, Armant Vlet, gli confidò che un tedesco di 33 anni, un certo Zeugen Siefert, voleva fuggire in occidente per riunirsi ai suoi figlioletti che già vi si trovavano. Accettò di aiutarlo.

Il 30 maggio del ’62, tre mesi dopo il suo primo arresto, incontrò con Vlet, l’aspirante profugo sulla Karl-Marx-Allee: ma questi li pregò di rinviare l’operazione all’indomani, perché aveva dimenticato alcuni importanti documenti. Quella stessa notte andò a raccontare tutto alla polizia comunista. la sera dopo, quando furono fermati al ceck point Charlie, i vopos (8) aprirono il portabagagli, scoprirono il profugo e li arrestarono per grave attentato alla sovranità della Ddr.

Fu rinchiuso nel carcere di Pankow e solo dopo ripetute richieste, accompagnate da gesti disperati, fu aperto il processo , questa volta con un avvocato difensore d’ufficio, tal Gaul. La sua difesa fu questa: «Gli italiani sono quasi tutti analfabeti, perciò questo giovane ha sbagliato per ignoranza e per insufficiente preparazione culturale» (9). Questa accurata arringa fruttò all’avvocato Gaul 200 marchi occidentali, sborsati dal consolato generale italiano di Berlino.

Palmieri fu rinchiuso per più di tre settimane in una cella di segregazione alta 180 cm. mani e piedi legati sempre: spesso non lo slegavano neppure per soddisfare i bisogno corporali. Un giorno la tazza si ruppe, ne nascose un frammento e si tagliò le vene dei polsi e con il sangue scrisse sul muro il suo nome, la data di nascita e il nome della sua città, Roma. Lo salvarono le guardie. Poi per mesi e mesi visse fra i detenuti comuni a Rommelsburg, non sperando più niente, senza sapere quale fosse stata la sua condanna, poiché la sentenza non gli era mai stata notificata. Finché il primo giugno del ’64 riacquistò la libertà.

MA QUELLI CITATI NON SONO CERTO CASI ISOLATI: numerosi nostri connazionali, specie operai a Gastarbeiter (lavoratori ospiti) hanno scontato pene fra due e 10 anni nelle carceri di Ulbricht. 300 mila erano lavoratori italiani nella repubblica di Bonn negli anni sessanta e come stranieri potevano transitare più facilmente attraverso i varchi del muro comunista. Le gite a Berlino est erano frequenti, quasi tutti avevano la loro piccola fraulein, particolarmente sensibile a un astuccio di rossetto o a una boccetta di profumo. Facile tendere delle trappole, spaventare i più ingenui fino a farli diventare spie per i comunisti e, per chi si rifiutava, avevano luogo processi il cui esito era scontato in partenza.

Spesso le autorità italiane erano informate di queste tragedie, anche se con ritardo di anni: ma a quanto pare preferirono stendere una pesante coltre di silenzio. Un certo Winfried Esch, condannato a dieci anni da un tribunale russo subito dopo la rivolta operaia di Berlino est, uscì dal carcere nell’estate del ’61, portando con sé un lungo elenco di prigionieri politici che erano con lui a Bautzen II.

Fra nomi francesi, olandesi, spagnoli figuravano anche due italiani: Pasquale e Antonio Crveres di Porto d’Ischia. Per loro una pena di tre anni, per avere tentato di condurre a Berlino ovest una ragazza della zona comunista. Ma altri scomparivano per mesi e anni catturati senza motivo dalla polizia politica di Ulbricht.

Così il vicentino Nereo Dal Molin, arrestato al varco Ceck point Charlie il 24 marzo 1962: era in compagnia di un amico appena giunto dall’Italia e si apprestava a condurlo in visita a Berlino est. Fu trattenuto in carcere per 20 mesi con la solita infondata scusa di essere «una sporca spia del capitalismo». Per cinque mesi la sua giovane moglie residente a Berlino ovest non ne ebbe più alcuna notizia e solo dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Oberschonhausen, Dal Molin poté farle comunicare la sua tragica e ingiustificata sorte.

C’era anche un sardo tra le vittime della Stasi: Pietro Porcu, un operaio nato a Modolo il 21 agosto 1937; negli anni settanta era stato imprigionato e tenuto segregato per lunghi mesi. Contro di lui una accusa pesantissima: «Terrorismo e commercio di uomini».

In realtà dietro quel capo di imputazione legato ai periodi più bui della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, si nascondeva soltanto un tentativo dai risvolti umanitari: aveva cercato di fare scappare dalla Ddr tredici persone, fra cui l’amica Brigitte Bock, che risiedeva a Berlino est nella Marientalstrasse 11.

Il 28 agosto 1982 a 45 anni moriva per infarto a berlino, a seguito dei traumi subiti nel famigerato penitenziario di Bautzen. Al primo incontro degli ex internati a Bautzen, più di qualcuno ebbe a ricordare gli italiani incarcerati nella Ddr. Spesso fu ricordato il siciliano Ernesto De Persilis, nato a Licata, reo di avere calunniato lo stato dei lavoratori e dei contadini della Repubblica democratica tedesca: De Persilis, sposato con una tedesca, passò quasi un anno a Bautzen e tutti lo ricordavano come persona allegra e spensierata, piena di spirito, che riusciva anche nei momenti più difficili a tenere alto il morale nel clima nient’affatto idilliaco esistente nell’ambiente carcerario.

Ernesto De Persilis giunse a Bautzen il 24 ottobre del 1962, insieme ad altri due italiani, accusati dello stesso reato: Pasquale Cervera e il pugliese Antonio Di Muccio. Costoro, rischiando non poco, si prestavano a passare informazioni all’interno dei vari reparti del penitenziario, dove erano reclusi tedeschi dell’est, tedeschi dell’ovest e numerosi stranieri.

(*) Anna Maria Minutilli è dottore di ricerca in storia moderna e contemporanea presso l’Università di Aachen (Germania), collabora come ricercatrice per diversi centri di ricerca italiani e stranieri

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UNA RESISTENZA ITALO-TEDESCA

A partire dagli anni sessanta funzionò l’Associazione per l’amicizia italo-tedesca costituita da Gino Ragno, un giornalista che dopo un viaggio a Berlino, invitato dall’ambasciata tedesca a Roma come inviato per La Nuova Sardegna decise di impegnarsi a favore di coloro che erano detenuti nella Germania est o che più semplicemente volevano scappare dal paradiso socialista. Si trattò di uno dei pochi casi di vera e propria militanza anticomunista portata avanti con azioni  anche spettacolari contro il regime. Ragno ha risposto alle domande di Millenovecento.

Lei è stato uno dei protagonisti, in prima linea, del movimento di resistenza italo-tedesco per le vittime della Stasi: da dove nasceva questa azione di solidarietà?

«Io ritornai a Berlino come giornalista alcuni giorni dopo che il muro fu eretto e fu allora che iniziò la resistenza italo-tedesca al muro della vergogna che da Roma, io e altri amici, abbiamo portato avanti in circa 28 anni di attività fra vari pericoli e a nostre spese; questo ci tengo a precisarlo, perché tutti pensavano allora, dalla Stasi al Kgb che Gino ragno fosse finanziato dalla Cia oppure dai servizi segreti italiani.

Per quanto riguarda le motivazioni, la domanda andava fatta ai due italiani che per primi nella storia tedesca dopo il muro hanno costruito il primo tunnel della libertà sottola Bernauerstrasse: i due studenti Mimmo Sesta e Luigi Spina che vive ancora oggi ad Amburgo. Questi due giovani hanno scavato il primo tunnel, che è stato anche filmato dalla Nbc americana, che ne fece un documentario.

Questi giovani italiani, in collaborazione con alcuni studenti dell’università tecnica di Berlino, costruirono sotto la Bernauerstrasse un tunnel lungo 126 metri che conduceva fino alla Schönholzerstrasse e poi fino allo sbocco all’est ai margini della Rheinsbererstrasse, permettendo, il 14 settembre 1962, a 29 cittadini dell’est di fuggire verso ovest»

La sua era un’azione politica o umanitaria?

«Non era soltanto una questione umanitaria era anche un fatto politico. Furono numerosi i giovani tedeschi  che scavarono altri tunnel, aiutati spesso dagli italiani, anche se il più importante fu quello di Mimmo Sesta e Luigi Spina. Alcuni fra questi temerari, rimasero clandestini, altri furono arrestati dai vopos, qualcuno fece perdere le proprie tracce però i tunnel rimasero l’unica via di fuga pericolosa ma efficace.

C’era il costante pericolo che la Stasi venisse a scoprirlo prima: non a caso ci sono state anche sparatorie e in una di queste fu ucciso un giovane tedesco, Schalpke, e rimase ucciso anche un vopo (10). Naturalmente gli italiani si erano anche armati per proteggere i tedeschi durante la fuga. La notizia della costruzione  del tunnel di Sesta, che ebbe larga eco in tutto il mondo, fu resa pubblica non subito ma dopo la caduta del muro, in quanto, lo stato comunista, aveva subito un’offesa enorme e si preoccupò di tenere celata la cosa»

Una vita per la Germania la sua perché?

«Parte dell’intervento italiano consisteva nel falsificare Passierenschein (11), quando si andava nel settoreoccidentale: i cittadini dell’ovest potevano entrare con queste tessere fase a est e, a loro volta, riuscivano a far passare a ovest i tedeschi del settore orientale portando di là carte d’identità dell’ovest, permessi falsi e facendoli poi uscire per vie traverse»

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Note

(7) Ecco alcune cifre che documentano quanto fosse profonda e diffusa l’opposizione  al regime di Ulbricht, dal 13 agosto 1961 al dicembre del 1965, un quinquennio particolarmente “caldo”: 167 sono stati i morti avversari del regime, le carceri, in quegli anni, ospitarono 12.500 prigionieri politici; dal 1949 al 1965 le condanne per reati anticomunisti furono 75.000; 3.000 oppositori morirono nelle prigioni e nei campi di concentramento. Quindici erano le carceri della zona sovietica, dove i comunisti tenevano i prigionieri politici. Fra i più famigerati figura Bautzen dove dal 1950 al 1965 ne sono passati 6.100; Buchenwald (rimodernato e riorganizzato nel personale di guardia dopo la “gestione” nazista) oltre 2.200 sono stati gli ospiti nello stesso periodo. Sachenhausen, 5.700 ed il tetro carcere della ridente cittadina di Pankow, alle porte di Berlino, nota anche per essere stata elegante zona residenziale, disseminata dalle sontuose ville dei funzionari del regime.

(8) Vopos sta per Volkspolizei ovvero i soldati della polizia popolare della Ddr, in particolare quelli accasermati

(9) Di questi due italiani si occupò anche il quotidiano  tedesco Süddeutsche Zeitung di Monaco di Baviera

(10) Celebrato poi come eroe nazionale da Ulbricht

(11) Permessi speciali concessi una volta l’anno ai cittadini di Berlino ovest per andare ad est. per i berlinesi del settore occidentale era estremamente  complicato recarsi a est, rispetto agli stranieri, in quanto avevano legami familiari e per questo erano più motivati a varcare il muro,spesso con l’idea di far fuggire i propri familiari o amici.

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