Il mito di Salvador Allende

Allende 3Articolo pubblicato su “Libero” del 03/08/2003

di Renato Bersana

Appena Salvador Allende vinse le elezioni, era il settembre 1970, il cardinal Raul Silva Henriquez, arcivescovo di Santiago, celebrò un solenne Te Deum di ringraziamento. Cominciò così la più grande campagna di disinformazione che il Novecento abbia mai conosciuto.

Posto sugli altari quand’era ancora in vita, il presidente cileno venne trasformato, dopo la sua tragica morte, in icona della libertà, della giustizia e dell’eguaglianza. Simmetricamente, il generale Augusto Pinochet, che con un colpo di stato pose fine al suo fallimentare tentativo di instaurare il socialismo, è additato quale simbolo d’infamia.

A correggere quanto meno giudizi e pregiudizi ricevuti, ristabilendo, nei limiti del possibile, la realtà dei fatti, è stato pubblicato un libro di Mario Spataro “Pinochet, le scomode verità” (ediz. Settimo Sigillo). Si tratta di una lettura ricca di ammaestramenti in un paese come il nostro, che tra gli anni ’70 e gli ’80 ebbe modo di assaggiare, come si diceva allora, gli spaghetti italiani in salsa cilena, il cui retrogusto ancora persiste nella cucina della politica nostrana.

Ad Allende, comunque la si pensi, non si può negare un pregio: la franchezza. Arrivato al potere con il 36% dei suffragi, chiarì subito di non sentirsi il presidente di tutti i cileni, ma solo di Unitad Popular, la coalizione che lo aveva sostenuto e che annoverava, accanto ai partiti di ispirazione marxista, i cattolici di sinistra. Per prima cosa rivolse le sue attenzioni alla stampa: “Dovere supremo di un giornalista – disse – è servire non la verità ma la rivoluzione”. Cercò quindi di espropriare El Mercurio, il principale quotidiano del Paese. Non gli riuscì, nonostante che l’editore, per sottrarsi all’arresto, fosse stato costretto a riparare all’estero. accusato tra l’altro di irregolarità fiscali (i metodi come si vede restano sempre gli stessi).

Per decreto, l’esclusiva di tutta la pubblicità, venne affidata a quattro agenzie, ciascuna controllata da uno dei partiti della sinistra, che beneficiavano soltanto i giornali amici. Siccome nemmeno questo bastò, nel 1972 furono introdotte norme che vietavano la diffusione di notizie che non fossero state approvate dalla Officina de Radiodifusion de la Presidencia de la Repubblica, cioè dalla censura. Al contrario della stampa straniera, quella interna continuò a resistergli, al prezzo di arresti, violenze, repressioni. Lo stesso fecero la stragrande maggioranza dei cileni.

All’indomani della sua elezione una folla di piccoli risparmiatori terrorizzati corse in banca per ritirare i propri risparmi. Aveva presagito quel che sarebbe accaduto, se le premesse della campagna elettorale fossero state mantenute. Lo furono. Con il voto favorevole dei democristiani, Allende fece approvare una modifica costituzionale che facilitava le nazionalizzazioni forzate, anche per “eccessivi profitti”. Meno di un anno più tardi, lo Stato controllava il 90% delle miniere, l’85% delle banche, l’84% delle imprese edili, l’80% delle grandi industrie, il 75% delle aziende agricole ed il 52% delle imprese medio-piccole.

La produzione crollò, l’inflazione raggiunse il 400% medio, con punte del 700%. Cominciarono a scarseggiare, insieme ai beni di consumo, anche quelli di prima necessità, che vennero razionati. Il “movimento liberatore di enormi proporzioni che ha portato alla presidenza del Cile un uomo chiamato a realizzare improrogabili atti di giustizia”, come scrisse il premio Nobel Pablo Neruda, cominciò a praticare espropriazioni illegali, tollerate, se non incoraggiate, dal governo.

Il Movimento de Izquierda Revolucionaria, qualcosa di simile alle nostre BR, s’impadronì con la violenza di case e negozi, oltre che di circa 2.000 aziende agricole. La commissione parlamentare incaricata di far luce sul fenomeno venne sciolta d’autorità. In poco più di un anno l’intero paese, esclusa ovviamente la nomenclatura del regime, fu alla miseria e alla fame, in preda alle continue violenze della formazioni paramilitari. Allende ricevette il premio Lenin per la pace. Aveva dimostrato di aver appreso a puntino la lezione, come ci racconta Spataro con dovizia di documenti.

Per reprimere lo scontento, aveva sull’esempio cubano istituito i Jap, le Juntas de abastecimento popular, comitati locali che avevano lo scopo di “segnalare il rispetto dei prezzi controllati”, ovvero una rete di commissari politici, circa 15.000, che tutto potevano controllare, oltre, naturalmente, a denunciare i comportamenti controrivoluzionari. Nonostante la repressione durissima, esercitata soprattutto dalle squadracce del Mir, il popolo, quello vero, riuscì a far sentire la propria voce: la marcia delle casalinghe e lo sciopero degli autotrasportatori lasciarono chiaramente intendere che la collettivizzazione avrebbe incontrato più difficoltà del previsto.

Allende cercò allora l’appoggio dell’esercito,facendo entrare nel governo tre ministri militari. Il tentativo si concluse dopo cinque mesi con le loro dimissioni. Era il marzo 1973. “Quando capimmo che l’opposizione conservatrice ci avrebbe impedito di impadronirci dello Stato” – dichiarò il leader comunista Luis Corvalan – “intensificammo i nostri preparativi per la lotta armata”. Allende si trovò nella condizione di scegliere se subire o guidare una rivoluzione più radicale di quella che egli aveva tentato.

O la dittatura militare o la dittatura del proletariato: altre vie non erano rimaste. In parlamento aveva già perso la maggioranza, l’esercito non faceva mistero dei propri malumori, i cileni erano allo stremo. Nel mese di luglio, la Democrazia Cristiana offrì al presidente il proprio appoggio, a patto che venissero sciolti i gruppi paramilitari della sinistra. La proposta venne respinta.

L’11 settembre i carri armati del generale Pinochet, comandante in capo delle forze armate, portarono l’attacco ai centri del potere. Allende, asserragliato con i suoi nel palazzo della Moneda, resistette, rifiutando la via dell’esilio. Quando vide che tutto era perduto, diresse verso di se la mitraglietta con la quale avrebbe dovuto difendersi. Appena la notizia si diffuse, alle finestre delle case apparvero bandiere esposte in segno di gioia.

In pochi anni l’inflazione venne sconfitta, la spesa sociale aumentò ed il Cile divenne il più prospero tra i paesi dell’America Latina. Il governo Pinochet dovette, soprattutto nei primi anni, disarmare il terrorismo di sinistra. Fu una guerra civile durissima e le guerre civili, come ammonisce il presidente Mao, non sono pranzi di gala. Completata la transizione alla democrazia, il generale lasciò il potere, costume insolito tra i dittatori. Ma l’odio dell’Europa nei suoi confronti non è mai scemato, fino ad arrivare al parossismo del giudice Garzon, che cercò d’arrestarlo con l’accordo dell’Inghilterra socialdemocratica.

Neppure il ben più sanguinario Pol Pot ha mai avuto una così cattiva stampa, né da destra né da sinistra. Il testo di Spataro è efficacissimo nel dare conto di quel che sull’argomento è stato detto e scritto. Poche, pochissime le voci di dissenso. Per anni, le lagne degli Inti Illimani hanno risuonato da ogni palco, fino a stendere dalla noia perfino i compagni più fedeli alla causa. El Pueblo unido jamàs serà vencido.

Allende rappresentò il Sessantotto realizzato. Quello che per i cileni fu un incubo, da noi rappresentò il sogno per il quale i salotti democratici hanno continuato a trasalire di sdegno e di speranza. Arrivare cioè a risultati cubani passando dalle urne, dopo aver celebrato la sacra unione di cattolici e marxisti. Pinochet, per salvare il suo paese, non usò certo i guanti bianchi. Tranquilli: l’avrebbero criminalizzato lo stesso, anche se fosse stato più mite di La Pira.

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