Capitalismo e comunismo

dollari_rubliPubblicato su Il Timone n. 35,
del luglio/agosto 2004

di Vittorio Messori

Pensare per slogan, uniformarsi agli schemi, prendere per buona la vulgata storica corrente: ecco do da cui dovrebbe stare lontano un cristiano. Ed è proprio per cercare di mettere in guardia da ciò, che molti scrivono in questo giornale.

Per fare un esempio tra gli infiniti possibili (aggiungendolo ai molti che io stesso ho fatto in tanti anni di lavoro), la maggior parte delle persone è ancora convinta, sulla base della propaganda prima socialista e poi marxista, che ci sia – o ci sia stata per tanto tempo – un’avversione implacabile tra capitalisti e comunisti, tra banchieri e leader proletari.

È una sciocchezza che non regge all’indagine. In realtà, Lenin non avrebbe avuto i mezzi materiali per impadronirsi del potere senza il denaro elargitogli generosamente da un capitalista, un grande banchiere americano, Jacob Schiff, padrone della banca Kuhn & Loeb di New York. Schiff era ebreo e, come tale, odiava la Russia zarista perché gli israeliti non vi erano ancora emancipati e vi subivano dei pogrom che la polizia spesso non impediva o reprimeva con ritardo.

Cosi, il finanziere diede il suo potente sostegno al Giappone, nella guerra del 1904 che si concluse disastrosamente per Mosca. Sempre per indebolire e, se possibile, far cadere il regime degli zar, il banchiere sovvenzionò ogni tipo di sovversione in Russia e puntò poi le sue carte su Lenin, favorendone il trionfo nella rivoluzione del 1917.

Ma altri banchieri dell’ebraismo occidentale finanziarono quella rivoluzione, mossi dall’avversione per lo zarismo. Gli storici conoscono, tra l’altro, il dispaccio, partito da Stoccolma il 21 settembre del 1917 e indirizzato a Trotzkij , con cui la banca Warburg (i cui padroni erano imparentati con Jacob Schiff e associati a lui in affari) comunicava di avere depositato suite banche svedesi una grande somma perle spese del rivoltosi. Questi ed altri episodi sono stati rievocati, con precisione e con ampiezza, anche da Solzenicyn nel suo Lenin a Zurigo.

Capitalisti e banchieri si incontrano all’inizio dell’Unione Sovietica (si pensi a quell’ambiguo finanziere che fu Gelfand Israel Lazarevitch, conosciuto come Parvus, sponsor economico anch’egli del bolscevichi) ma sono presenti in tutti i settant’anni delta sua esistenza. L’impero comunista russo non sarebbe nato ma non avrebbe potuto neanche sopravvivere senza il continuo sostegno della grande finanza occidentale, secondo modi ora palesi ora occulti che sono ancora in gran parte da esplorare.

Esaminavo, di recente, le memorie di Markus Wolff, il leggendari “Misha” di tanti romanzi di spionaggio, il mitico e inamovibile capo del servizi Segreti per l’estero della Germania che si autodefiniva “democratica”. Wolff conferma quanto già si sapeva ma di cui si parlava, e si parla, il meno possibile: la DDR, praticamente da sempre, rinviava l’inevitabile bancarotta dello Stato grazie ai prestiti generosi delle banche della Germania Occidentale.

Ed è qui una delle ragioni “segrete” delle gravi difficoltà tedesche dopo l’unificazione: assorbendo quella Repubblica fantoccio, la Germania Federale ne ha ereditato i debiti e, dunque, la necessità di rimborsare le banche di Francoforte, di Monaco, di Amburgo: un conto astronomico che ha fatto, e fa tuttora, vacillare il pur solido bilancio statale.

Ma la grande finanza la si incontra anche agli esordi della rivoluzione francese. Jacques Necker, calvinista ginevrino di origini tedesche, illuminista e tra i maggiori banchieri d’Europa, è il potentissimo ministro delle finanze di Luigi XVI mentre la Francia si avvia alla grande rivolta. Questa – stando all’accusa finale che gli rivolgerà il re – scoppia anche per sua responsabilità.

È Necker, infatti, che non solo decide di convocare gli Stati Generali che daranno fuoco alle polveri ma pretende, ed ottiene, che il Terzo Stato (quello del borghesi) vi abbia un numero di delegati pari a quello degli altri due ordini (clero e aristocratici) sommati. È Necker, insomma, il grande banchiere, che mette a punto il meccanismo che permetterà la rivoluzione. Questa, poi, sarà foraggiata da continui aiuti della finanza inglese che aveva interesse a indebolire la Francia, temibile concorrente economico della Gran Bretagna. In effetti, la supremazia britannica per tutto il XIX secolo fu resa possibile dal terribile salasso di sangue e di denaro subito dai francesi in seguito alla rivoluzione e poi alle guerre napoleoniche.

Non è dietrologia ma constatazione di fatti certi: ben lungi dall’opporsi alle rivoluzioni, la grande finanza e la grande banca le hanno spesso sorrette. Trascrivo qui le considerazioni di uno storico francese: «La potenza finanziaria preferisce l’instabilità politica, le convulsioni sociali a un ordine che minacci di impacciarla.

Cosi, si oppone per istinto a ogni potere politico che tenda a limitarne gli appetiti e cerchi di sottoporre le sue attività al bene comune. Il Vitello d’Oro non ama essere aggiogato e cerca di liberarsi a ogni costo dalle stanghe che ne rallentino i movimenti. Inoltre, non dimentichiamo che la banca internazionale moderna è opera, almeno agli inizi, di protestanti, di ebrei, di massoni.

Dunque, l’appartenenza religiosa o ideologica del finanzieri li ha opposti alle monarchie cattoliche, come quella francese, o ortodossa, come quella russa. Così come li aveva opposti alla monarchia spagnola, a cominciare dalla insurrezione delle Fiandre nel Seicento, finanziata dal capitalismo anglo-olandese».

Insomma, alla rovina prima di Madrid, poi di Parigi e infine di Pietroburgo non è per niente estraneo quel grande capitalismo che, secondo gli ingenui (e gli ideologi vetero-comunisti), sarebbe un fattore di stabilità controrivoluzionaria, un nemico implacabile della sovversione “di sinistra”.

Libero mercato?

A proposito di Stati Uniti, visto che li abbiamo citati. Tra le certezze di chi li considera «l’Impero del Bene» e guarda ad essi con ammirazione (fino ad imitarne le micidiali idiozie, come la corsa quotidiana il cui inventore è morto d’infarto a 50 anni giusto mentre correva…), c’è che l’America sia apostola e paladina del “libero scambio”, del mercato aperto, del commercio mondiate senza pastoie di statalismi e di protezionismi.

Errore di prospettiva, anche qui. La memoria è labile e ha dimenticato che, sino al 1945, gli Stati Uniti furono fieramente protezionisti, blindarono il loro mercato interno tanto che era quasi impossibile esportarvi anche solo un chiodo. Successe, però, che alla fine delta seconda guerra mondiale, si trovarono con un’economia incredibilmente cresciuta per far fronte alle commesse belliche. Per evitare lo smantellamento di quell’enorme apparato industriate, bastava rovesciare l’ideologia e passare, dopo la predicazione del vantaggi dell’autarchia, a quella dei vantaggi dell’apertura delle frontiere.

Le frontiere degli altri, ovviamente, che dovevano spalancarsi ai prodotti americani. L’Europa era in rovina, non aveva possibilità di far concorrenza, ma anche il suo mercato era misero. Bisognava incrementare i consumi. Da qui i vari piani americani, come quello Marshall, per risollevare l’economia europea. Qualcuno, ancor oggi, si commuove per tanta generosità, dimenticando che il piano del governo degli Stati Uniti era chiaro ed esplicito: quello che si sarebbe speso da una parte lo si sarebbe recuperato (e con lauti interessi) dall’altra, con le esportazioni tra consumatori europei nuovamente in grado di spendere.

L’ America, qui, seguiva l’esempio della Gran Bretagna del XIX secolo dove si trovarono a convivere la prima rivoluzione industriale, con un fiume di manufatti da vendere, e la più grande flotta del mondo, in grado di trasportare ovunque quelle mercanzie. Da qui la bandiera del free trade, del libero commercio, sventolata dall’Inghilterra: la libertà, cioè, di comprare, ovunque si fosse, prodotti britannici.

La mentalità inglese non è ideologica ma pragmatica (e sta qui la sua grandezza ma, talvolta, anche il suo limite), una caratteristica ereditata anche dagli americani che di loro, pero, vi hanno aggiunto il moralismo, non di rado in sospetto di ipocrisia. Così, il “libero scambio” che i britannici imposero nell’Ottocento per i loro affari e stato trasformato dagli Stati Uniti in una teoria edificante, in un motivo in più per sentirsi eticamente superiori agli altri popoli.

Come si sa, ciò che rende pericolosi gli Stati Uniti è la loro convinzione (un impasto di protestantesimo, massonismo, giudaismo) di essere il nuovo «Popolo Messianico». Per quanto ml riguarda, più che ammirazione ml suscitano paura: nessuno e più temibile di chi ti assicura di fare quel che fa “per il tuo bene”.

Di solito, però, non si pensa di chiedere agli americani perché il libero mercato e la libera concorrenza non dovrebbero valere, innanzitutto, per il motore stesso dell’economia mondiale, il petrolio. Per questo, come si sa, non esiste concorrenza, la quantità di produzione e il prezzo sono fissati da ferrei cartelli, con a capo l’Opec. Su questo, i missionari statunitensi del free trade non hanno nulla da dire, non vale la concorrenza per un prodotto del quale essi stessi sono grandi produttori.

Cosi come tace la Gran Bretagna, che pure giunse a imporre il libero mercato con le cannoniere: anche gli inglesi, in effetti, hanno ingenti riserve petrolifere nel Mare del Nord. Anzi: della famosa “crisi energetica” del 1973 si diede la colpa all’Arabia Saudita che, in realtà, da tempo alleata fedele dell’Occidente, si prestò al gioco suggeritole giusto da Stati Uniti e Gran Bretagna.

Entrambi questi Paesi avevano grossi costi di produzione, visto che i pozzi americani più redditizi sono tra i ghiacci perenni dell’Alaska e quelli inglesi tra i marosi dell’Oceano. Occorreva, dunque, un aumento forte e generalizzato senza il quale il crudo occidentale non avrebbe retto alla concorrenza di quello di altri Paesi dove l’estrazione è più agevole.

Cosi, si chiese agli arabi di fare la parte del “cattivi”, con un raddoppio del prezzi che mise in ginocchio l’industria europea ma portò grandi vantaggi all’economia anglosassone. Ma sì: anche qui, come ovunque, ci sono luoghi comuni da verificare.

Il mito di Trotzkij

Vediamone allora un altro di questi slogan. Il discredito in cui è caduto il comunismo ha indotto molti che vi hanno militato a dire che tutto è finito cosi malamente non perché fosse un’utopia disumana, ma perché non lo si è realizzato come si sarebbe dovuto. La colpa non fu di Marx e neppure di Lenin, ma di Stalin che prevalse su Trotzkij e fini per farlo assassinare, in Messico, con il metodo gentile di un colpo di piccone nel cervello.

Sembra incredibile, eppure non solo, sparsi per il mondo, vi sono ancora gruppi (simili a sétte religiose) di trotzkistij ma anche presso molti intellettuali apparentemente “normali” cresce la fama se non la nostalgia di questo Lev Davidovic Trotzkij, di questo ebreo russo che sarebbe stato portatore di una visione del marxismo “umana”, in fondo “democratica”. Una visione che, se avesse prevalso, avrebbe creato un comunismo che non sarebbe incappato nella fine tragicomica che sappiamo.

In realtà, in Trotzkij la capacità di odio e la crudeltà sembrarono superare tal volta quella stessa del pur luciferino Lenin, uno del grandi enigmi del Male nella storia. Si parla, anche se meno di quanto si dovrebbe, della carestia organizzata da Stalin tra il 1929 e il 1930 per sterminare i kulaki, cioè i contadini colpevoli di avere qualche proprietà.

Per la prima volta la carestia non era subita dall’uomo ma provocata intenzionalmente: sette milioni di morti. Ma quasi mai si dice che almeno altri tre milioni di contadini erano stati uccisi già nel 1922 perché “controrivoluzionari”: di questo immane massacro l’organizzatore fu proprio Trotzkij. Già prima aveva agito nella terribile strage di Kronstadt di cui sembra vietato parlare perché è tra i fatti non solo più sanguinosi ma anche più imbarazzanti ideologicamente.

In effetti, proprio i marinai di quella grande base navale accanto a Pietroburgo erano stati tra i più attivi nella rivoluzione, tanto che veniva da loro quell’incrociatore Aurora entrato nei mito perché con le sue artiglierie accompagnô l’assalto al Palazzo d’Inverno.

Quattro anni dopo la presa del potere, nel 1921, quei marinai dissero a Lenin la loro delusione per la fame che infieriva in tutta l’Unione, per la libertà di parola soppressa, per l’incarcerazione di migliaia di persone tra le quali molti militanti comunisti, per il divieto di possedere alcunché. Non rinnegavano, dunque, il comunismo ma lo chiedevano “diverso”, più vicino al loro ideale. Ebbene, fu proprio Trotzkij – l’umanista, quello che avrebbe ingentilito il marxismo, se avesse prevalso – fu proprio lui a passare all’azione contro questi “riformisti”, accusati di tradimento.

La base navale fu presa d’assalto dalla Armata Rossa che egli stesso aveva creato: i marinai che non furono uccisi nei combattimenti furono fucilati subito dopo. Un totale di 14.000 morti. Non bastò, perché si passò ad eliminare anche le loro famiglie, “per estirpare il male alla radice”. Questo, dunque, colui che avrebbe dovuto donarci un marxismo “dal volto umano”.