Quel grumo di disumanità togliattiana. Diario del Komintern

Articolo pubblicato su Tempi n.51 del 19 dicembre 2002

Palmiro Togliatti non ebbe la piena e assoluta fiducia del Komintern e della nomenklatura sovietica

di Massimo Caprara

Palmiro Togliatti non ebbe la piena e assoluta fiducia del Komintern e della nomenklatura sovietica, anzi di lui si diffidava. Lo conferma inopinatamente Georgi Dimitrov che del Komintern fu segretario generale dall’agosto 1935 al maggio 1943 e poi responsabile della sezione di politica estera del partito comunista dell’Urss fino al novembre 1945.

Egli descrive questo fatto straordinario, per certi aspetti ambivalente, nel suo sensazionale Diario. Gli anni di Mosca (1934-1945), ora pubblicato dall’editore Einaudi con la collaborazione della Fondazione Gramsci. «19 luglio 1941. José Diaz (segretario del partito spagnolo) viene da noi. Esprime sfiducia politica in Ercoli. Basa i suoi sospetti sul suo lavoro e la sua condotta in Spagna. Anche Dolores Ibarruri dichiara di non avere piena fiducia in Ercoli. Sente in lui qualcosa di estraneo, di non nostro, anche se non può dare a questo un fondamento concreto. Siamo rimasti d’accordo di utilizzare Ercoli per il momento soltanto nel settore della radio e di altra propaganda, ma di non renderlo partecipe di questioni strettamente segrete», è scritto nel Diario.

Aggiunge il curatore del volume, Silvio Pons, direttore della Fondazione Gramsci, docente di Storia dell’Europa orientale alla Sapienza di Roma, nella sua introduzione morbida ma informata, che «il più autorevole tra gli stranieri (Togliatti) della Segreteria del Komintern cadde in disgrazia dopo il suo ritorno dalla Spagna, dove aveva svolto la funzione di plenipotenziario del Komintern dal luglio 1937 al marzo 1939 e dopo il periodo in Francia (in gran parte in carcere) tra la seconda metà del 1939 e il marzo 1940; lo stesso Dimitrov decise di escluderlo dalla sfera delle decisioni più delicate dopo l’inizio dell’invasione nazista in Urss».

Dimitrov fu, a quell’epoca, la potente pedina di Stalin nei ranghi internazionalisti. Nato a Kovacevci, in Bulgaria, il 18 giugno 1882 (muore a Mosca per complicazioni del suo diabete cronicizzato, il 2 luglio 1949), in origine operaio tipografo, dal 1902 funzionario del Partito socialdemocratico bulgaro, presente in tutte le sollevazioni armate dopo la Prima guerra mondiale e, per questo, condannato a morte in contumacia nel 1923, fu il classico “rivoluzionario di professione”, elevato ai più alti gradi per designazione espressa di Stalin. Arrestato in Germania il 9 marzo 1933 con l’accusa di aver organizzato l’incendio del Reichstag a Berlino, fece della propria difesa contro i nazisti e della clamorosa assoluzione, una corona d’alloro esibita per sé e per il comunismo.

Assolvendo al suo incarico prestigioso nel Segretariato del Komintern, si trasformò in una sorta di colonna dorica, severa e fredda, anche variabile ma intransigente, dell’ideologia della violenza. Sua è la condivisione dei peggiori casi politici e polizieschi della storia del Komintern e dell’Urss, sempre dall’empireo dell’autorità che gli derivava dalla sua gloria personale e dal suo puntuale allineamento: eroe indiscutibile per la sua parte, ma perverso per ogni forma di dissenso. «La sua completa subordinazione all’autorità di Stalin», come sottolinea Pons, ne fece un’autentica casamatta del terrore non solo in Urss, ma in Polonia, Spagna, tra il ’37 e il ’39.

Pesante è la sua corresponsabilità (come quella di Togliatti) nella strage di tutta la direzione ebrea e presunta filotrotzkista del Partito operaio unificato polacco: «un coinvolgimento inevitabile non soltanto perché una condotta diversa avrebbe potuto facilmente esporlo al pericolo di essere a sua volta posto sotto accusa, ma perché egli condivideva nella sostanza la logica delle repressioni».

Così in Spagna fu sua ispirazione, se non il suo diretto comando, a impegnare il Partito comunista iberico e gli influenti consiglieri sovietici del Governo repubblicano (Ercoli in testa) nella guerra di sterminio degli anarchici spagnoli antifranchisti, del segretario del loro partito, Andrés Nin, e degli altri dissenzienti antisovietici, anche italiani. Egli in questo fu un autentico esemplare antropologico dello stile e della laboriosità infaticabile di stampo comunista: dura e tenace, implacabile “macchina da lavoro”, quanto abile, raffinato e solerte grand commis nella propaganda e nell’azione pratica, sia nell’ottenuta identificazione tra antifascismo europeo e comunismo, come negli anni di Spagna, sia nella inedita figurazione dei Partiti comunisti come partiti nazionali che l’avveduto scopo dello scioglimento del Komintern internazionalista nel 1943.

Il Diario, di circa 900 pagine, ora pubblicato costituisce un documento assolutamente unico, d’alto livello informativo e politico, per comprendere quale fu in dettaglio quel misto di spregiudicatezza, sagacia e fermezza che educò i quadri comunisti in Europa o in Cina e ne garantì il radicamento popolare. Si tratta di una visione dall’interno del comunismo staliniano nella sua lugubre grandezza e spietata verità. Dimitrov fu, in qualche modo, gemello spurio di Togliatti: di grado eccelso, a lui omologo, di lui meno involuto e più esplicito, meno azzardato, meno vissuto al limite del rischio. Egli fu allarmato da qualche episodio oscuro della milizia togliattiana e ne sentì l’obliquità non manifesta. Ma fu quella di Togliatti una vicenda di insubordinazione politica o di personale, nefasta ambiguità dell’uomo?

Nella citata nota del 1941, Dimitrov rileva testualmente che «In precedenza un segnale (di slealtà) in questo senso è venuto anche da parte della famiglia di Gramsci». Dimitrov allude severo, professionale, con un moto appena della penna, alle accuse contro Ercoli-Togliatti che, subito dopo la morte di Gramsci, furono apertamente pronunciate e scritte dalla vedova Julca Schucht e dalla cognata Tatiana. Stella Blagoeva, della sezione Quadri del Komintern, raccolse, fece proprie e presentò in un dossier pesanti osservazioni critiche, nel settembre 1940, contro il dirigente italiano.

Anche l’allora capo del Komintern inclina per la versione di astuzia e perfidia personale che non riguarda solo strettamente la politica, ma il carattere, la condotta, l’essere di Togliatti. Ho avuto occasione di scriverne e documentarlo diffusamente nel mio libro dell’anno scorso Gramsci e i suoi carcerieri, narrando di quando ciascuno spiava e pugnalava l’altro. Dimitrov nel suo Diario fornisce una autorevolissima riprova di questi fatti e riserve. La fornisce soprattutto a quanti fingono di ignorare in Togliatti il grumo inestricabile di nequizia e disumanità mostrate nei fondamentali e storici tornanti della sua vita.