Multiculturalismo e diritto

multiculturalismoL’opinione delle libertà, 13 ottobre 2007

di Carlo Lottieri

C’era una volta il diritto naturale, e con esso l’idea che uccidere è uccidere, il furto è proibito, e la violenza qualcosa che comunque deve essere impedito e punito.

Quale fosse la sua radice (greca o cristiana, religiosa o puramente razionale), quel diritto era considerato un criterio importante per valutare il diritto positivo – i concreti ordinamenti legali – e implicava l’idea che gli uomini appartengono tutti alla stessa specie e per questo devono rispettare talune regole comuni. Nessuno ovviamente ha mai negato che vi fossero situazioni locali e differenze storiche, ma dovevano essere intese quali specificazioni in qualche modo marginali.

Il giudice tedesco che ha concesso le attenuanti all’immigrato sardo resosi colpevole di aver picchiato la propria fidanzata interpreta allora il disagio del mondo d’oggi, e il suo crescente relativismo, nel momento in cui “scusa” quell’uomo a causa delle sue origini etnico-culturali. La cosa porta alla mente quanto avvenne anni fa in un campus americano quando fu avviata una procedura contro un professore italiano accusato di avere allungato le mani su una studentessa. Non potendo negare i fatti, il docente adottò una strategia difensiva basata sul multiculturalismo.

Egli infatti affermò che se si fosse proceduto contro di lui si sarebbe offesa la sua identità di italiano, dato che da noi – a dire di tale docente, almeno – palpeggiare le giovani fanciulle non consenzienti farebbe parte della cultura comune.

In quell’occasione il professore fu condannato, ma se tentò quella strada è perché conosceva quanto oggi sia forte la tendenza a perdonare qualsiasi cosa in nome delle identità “di gruppo”. L’episodio è curioso e in qualche modo estremo, ma permette alcune utili riflessioni.

Come nel caso del sardo e del rapporto uomo-donna entro quel contesto, è tutto da dimostrare che esistano identità tanto fisse e facilmente identificabili. Nessuno di noi è totalmente riconducibile a una qualche identità: religiosa, etnica o di altro tipo.

Per giunta, il fatto che all’interno di una cultura vi sia una maggiore indulgenza verso taluni comportamenti aggressivi non significa affatto che tali comportamenti debbano essere accettati, ma anzi spesso segnala la necessità di interventi più decisi. Il relativismo multiculturalista contemporaneo, invece, non si pone tali problemi.

Avverso all’individuo e ad ogni forma di universalismo, guarda agli uomini come a membri di “tribù” e crede che ogni pratica sociale con qualche radice nel passato debba essere in qualche modo tutelata e protetta. Con ogni probabilità, quel giudice tedesco ha soltanto voluto essere un buon giudice: ha cercato di capire quella specifica situazione e dare una risposta puntuale.

Ma non si vede per quale motivo si dovrebbe concedere ai sardi (o agli italiani in genere) la facoltà di fare ciò che viene negato ad altri. Una simile condotta avrebbe perfino l’effetto di rafforzare i peggiori pregiudizi, e anche di indurre a comportamenti discriminatori.

Se un certo gruppo etnico non deve rispondere alle norme a cui fanno riferimento tutti gli altri (e questo perché gode di una posizione “privilegiata”), è comprensibile che vi sia chi preferisce non avere rapporti con quella gente.

Immaginiamo, ad esempio, che si legalizzi il fatto che un inquilino immigrato dall’Africa non è tenuto a restituire in buone condizioni l’appartamento ottenuto in locazione. Ne deriverebbe che quegli immigrati troverebbero ancor più problemi nella ricerca di una casa.

Chiamato a esprimersi sulla sentenza tedesca, il presidente Francesco Cossiga è apparso particolarmente salace, chiedendo che in linea con i principi adottati in quel caso si autorizzino gli zingari a rubare, i pedofili a molestare i bambini, i maniaci sessuali ad aggredire le donne, e via dicendo.

Nessuno contesta che esistano tradizioni e che spesso queste siano meritevoli di essere salvaguardate. Ma quando abbiamo a che fare con vittime e aggressioni, il modo migliore di atteggiarsi di fronte ad una cultura consiste nell’invitarla a crescere, a migliorarsi, a superare le proprie angustie.

Punendo i responsabili e tutelando quanti hanno subito un danno. Il problema è cruciale: ben al di là del caso di cronaca. Si tratta di una questione fondamentale nel momento in cui la nostra società – soprattutto in ragione dell’immigrazione – si apre all’arrivo di persone con culture molto diverse (e questo va benissimo) e anche con pratiche spesso violente (e questo non può essere accettato).

Nella cultura islamica, ad esempio, l’apostasia è inammissibile. Ma questo può essere sufficiente a farci – non dico accettare o tollerare, ma anche solo – guardare con occhio di riguardo comportamenti aggressivi ai danni di musulmani che vogliano farsi cristiani, atei o buddisti?

Sarebbe davvero una forma di “tolleranza” quella di chi accettasse l’esercizio della violenza quando proviene da particolari gruppi? In realtà, se non torneremo a ripensare il diritto in termini universalistici, saremo presto sopraffatti dalla barbarie.

(A.C. Valdera)