Unione Cristiani Cattolici Razionalisti (UCCR) 29 Maggio 2025
La vicenda del DNA in comune con gli altri primati è fuorviante. Un recente studio conferma la parentela biologica ma rivela che le differenze genetiche sono molto più profonde e strutturali di quanto si credesse.
Per decenni, a scuola, in TV o nei documentari scientifici, ci è stato detto che “condividiamo il 98-99% del nostro DNA con gli scimpanzé”.
Il dato nasceva da studi genetici risalenti agli anni 2000, in cui si confrontavano le sequenze di DNA umano con quelle dello scimpanzé.
Un elemento curioso e affatto controverso, se non per chi ancora nega l’evoluzione biologica. Un patrimonio genetico comune nonostante differenze culturali ed etiche enormi!
Questa notizia è stata però a lungo utilizzata per foraggiare tendenze filosofico-riduzioniste, interessate a sminuire l’eccezionalità dell’essere umano per sostenere che siamo, in fondo, solo una variante poco più sofisticata degli altri primati.
Dna in comune: parentela biologica ma profonde differenze
Col tempo i genetisti hanno iniziato a precisare: quel numero si riferiva solo alle sequenze “allineabili”, cioè ai tratti di DNA che si possono mettere a confronto base per base. È un po’ come confrontare due libri solo guardando le parole comuni, ignorando la struttura delle frasi, la punteggiatura o l’ordine dei capitoli.
Ne parlavamo già in un precedente articolo, sottolineando tra l’altro come non sia altrettanto diffusa la notizia che condividiamo anche il 90% dei geni con i coralli marini, per l’80% con un verme di 1 mm (il Caenorhabditis elegans) e per il 50% con le banane.
Uno studio recente pubblicato su “Nature“ ha confrontato i genomi in modo più accurato, grazie al sequenziamento completo e ad alta precisione di tutti i grandi primati.
Sintetizzando, i risultati mostrano che:
- Circa il 96% delle sequenze confrontabili sono effettivamente identiche tra uomo e scimpanzé;
- Oltre il 12% del genoma umano non è confrontabile direttamente con quello dello scimpanzé a causa di differenze strutturali, come inserzioni, delezioni, geni duplicati o completamente assenti (alcuni geni sono stati persi o acquisiti separatamente in ciascuna specie);
- Solo il 29% delle proteine prodotte dai geni sono perfettamente identiche nelle due specie.
In breve, la parentela biologica tra noi e gli altri primati è innegabile ma se si guarda tutto il patrimonio genetico c’è tutta un’altra storia da raccontare.
L’unicità degli umani e il salto ontologico
Così, di fatto, la narrativa del “99% di DNA in comune” è fuorviante.
Per non parlare di aspetti come il linguaggio, la coscienza, la cultura, l’arte, la capacità simbolica: caratteristiche che, pur radicate nella biologia, non si lasciano spiegare da essa in modo esaustivo.
Se non ipotizzando un improvviso salto ontologico (non solo quantitativo) in un certo momento della storia dell’evoluzione umana.
Queste ricerche invitano a riscoprire la nostra specificità, perché ridurre l’essere umano a una percentuale di DNA significherebbe smarrire l’eccezionale (e misteriosa) differenza ontologica tra noi e il resto del creato, rischiando di trasformare la scienza in propaganda.