«Tu chi dici che io sia?» Domande per un serio test di integrazione

integrazioneTempi num.33 del 31 agosto 2006

di Risè Claudio

Utopia, o cinismo? La lunga scia di sangue che l’invasione immigratoria non controllata sta lasciando dietro di sé nel nostro paese chiede di essere riconosciuta per quello che è. Il corpo di una comunità non è così diverso dal corpo, e dalla psiche, di un essere umano. Non basta essere lì per appartenervi, e collaborare alla sua crescita. Nel nostro mondo iperscientista, ci si dimentica che esistono cellule (condizionate da traumi, intossicazioni, fattori patogeni di vario tipo) che, invece di aiutare l’organismo in cui si trovano, lo aggrediscono, distruggendolo.

Più di un secolo dopo la psicoanalisi, ancora non si riconosce nello psichismo collettivo della società ciò che si vede ad occhio nudo nell’individuo. La presenza cioè di nuclei d’ombra, che agiscono contro le finalità della personalità, per farla esplodere, o per impossessarsene. L’essere umano si distingue, tra l’altro, per la responsabilità di tutelare la propria salute, la propria vita, e quella della comunità cui appartiene. L’indebolimento della cultura della vita, del rispetto per il mondo vivente, porta invece anche a questo: a non garantire più che la comunità possa continuare e crescere, nel miglior modo possibile per tutti.

Non è poi un’impresa così difficile, come si dice. Nel mondo greco lo Straniero, lo Xenos, era accolto e onorato (ha la stessa radice di Zeus): se parlava, però, un dialetto greco, e rispettava gli dei. Comunque, nel mondo classico, rimase l’attenzione a riconoscere se l’altro fosse un hospes, un ospite da accogliere, o un hostis, un nemico da respingere. Decisiva, per questo, era la verifica della condivisione, o almeno del rispetto, dei valori fondamentali della comunità: la vita, la morte, il rapporto con l’altro, con Dio.

Si tratta dunque di un sapere che possediamo bene: nella sua lunga storia l’Occidente ha accolto e integrato enormi popolazioni, segnando così la storia del mondo. Ma sempre chiedendo all’altro che riconoscesse l’identità propria dell’Occidente. Richiesta laica, in cui risuona la domanda cristiana, su cui questa civiltà è costruita: «Tu, chi dici che io sia?». Una richiesta tutt’altro che relativista. Perché, nel momento in cui poniamo all’altro quella domanda, non possiamo non porcela noi stessi.

Noi siamo quelli che hanno seguito l’uomo, accoglientissimo, che tuttavia faceva proprio quella stessa domanda, prima di accogliere l’altro oppure no. Richiedere, costantemente, anche a noi stessi, chi siamo, ci porta a investigare su a che punto siamo con quella sequela, con quella discendenza, con quella tradizione vivente. Per questo non lo facciamo più, non chiediamo più nulla a nessuno, né a noi stessi, né agli altri. E riduciamo accoglienza, cittadinanza, nazionalità, ad una questione di pezzi di carta, timbri, mesi passati in un certo posto. Accogliamo tutti, ma in realtà non prendiamo sul serio nessuno (neppure noi stessi). Per questo le cellule ostili si moltiplicano, e la scia di sangue si allunga. Cambiamo.