Sposati e contenti

Economist_coverIl Foglio, 26 maggio 2007

L’Economist racconta l’incredibile calo americano dei divorzi “Il matrimonio crea benessere”

Roma _ La West Virginia University è un posto allegro, la terza miglior scuola d’America per numero di feste, e quinta nell’importante categoria: quantità di birra. Di notte si corre da un dormitorio all’altro, ci si scambiano le stanze, e spesso con pochi vestiti addosso. Una lunga inchiesta dell’Economist, prestigioso e liberale settimanale inglese, è partita da qui per raccontare l’evoluzione del matrimonio americano.

Cioè l’incredibile diminuzione dei divorzi (nelle fasce della meglio gioventù, però, cioè quelli che sono stati al college e che hanno portato a termine gli studi), la pazzesca diffusione di nuova “saggezza”, come raccontano le universitarie ventenni intervistate: “Avere bambini fuori dal matrimonio non è sbagliato, ma non è saggio”, la consapevolezza che la rivoluzione sessuale è stata una grande cosa, e però a un certo punto la vita gira verso qualcos’altro, e bisogna darci dentro, essere seri.

Le statistiche raccontano questo: solo il quattro per cento dei bambini di madri che hanno finito il college sono nati fuori dal matrimonio.

E in queste middle class con alto livello d’istruzione il divorzio non va più di moda, sta crollando.

Le coppie che si sono sposate tra il 1975 e il 1979 hanno retto meno (il 29 per cento ha divorziato nel giro di dieci anni), mentre quelle al primo matrimonio tra il 1990 e il 1994 vanno alla grande (cioè solo il 16,5 per cento ha divorziato – sono comunque percentuali altissime rispetto all’Italia, ultimo paese d’Europa per numero di rotture matrimoniali perché, come spiega lo statistico Roberto Volpi, “qui il divorzio non ha mai sfondato e non sfonderà più”: tre divorzi ogni mille coppie sposate, anche se in crescita).

Cambia tutto invece in fondo alla scala sociale americana (intesa come basso livello d’istruzione, che non sempre, in America, è sinonimo di povertà), dove i divorzi sono moltissimi: tra quelli che non hanno finito l’high school, cioè le scuole superiori, e sono sposati nei primi anni Novanta, la percentuale di divorzio è addirittura al 46 per cento, praticamente un matrimonio su due.

E secondo Kay Hymowitz del Manhattan Institute, che ha scritto: “Marriage and Caste in America”, il gap matrimoniale è una delle principali cause di ineguaglianza sociale. Cioè i ragazzini della middle class che crescono con due genitori biologici che stanno (persino) insieme, vivono insieme, non hanno ancora divorziato, sono “preparati per il successo”, per un buon equilibrio nella realizzazione sociale: “vanno meglio a scuola, trovano lavori migliori, e tendono a creare famiglie come la propria”.

Da questi studi, da queste prestigiose curve crescenti e decrescenti, da queste impeccabili cifre statistiche, emerge che viceversa i figli di mamme single o di famiglie disgregate hanno più difficoltà, più casini e più probabilità di diventare a loro volta genitori single.

Insomma, l’Economist ha fatto un sacco di ricerche (soprattutto per raccontare le diseguaglianze sociali americane) che portano a un risultato sorprendente e politicamente scorretto: il matrimonio è un istituto “che crea benessere”, un posto dove si sta bene, si crescono meglio i figli, si diventa più ricchi. “Quattro volte in più di quelli che non si sposano”.

Com’è possibile? Qual è la magia? Non certo gli aiuti del governo, ma un progetto di vita potente, una maggiore possibilità di risparmiare, un bisogno diverso di lavorare sodo (non solo per sé), la tendenza a prendere tutto più seriamente: l’impiego, i soldi in banca, le opportunità di carriera, l’alcol, la casa, i piani per il futuro. “E quelli che guadagnano, si impegnano, hanno buone qualità, tendono a sposarsi e a restare sposati”.

Il matrimonio è quindi un istituto che crea benessere, e in America la nuova rivoluzione culturale è quella di farlo durare: in Italia sarebbe scandaloso dirlo.

“Sembrerebbe uno sberleffo, una mancanza di sensibilità verso le ragazze madri”, dice Roberto Volpi, lo statistico di sinistra che ha scritto un prezioso saggio intitolato: “La fine della famiglia, la rivoluzione di cui non ci siamo accorti”, edito da Mondadori. “Soprattutto sarebbe scandaloso trattare la mobilità sociale come un valore positivo, un’opportunità per migliorare: da noi la mobilità è avvertita semplicemente come precarietà, come pericolo e come causa di lamento, in questo senso la società americana e quella italiana sono completamente diverse, imparagonabili”.

Ma cosa significa individuare nel matrimonio un motore di benessere, di miglioramento, un’espressione della modernità e della cultura? Secondo Volpi in America e negli altri paesi ricchi si sta assistendo a un arresto di tendenza, cioè “alla fine dell’espansione della divorzialità”. Perché si arriva al matrimonio più tardi, un po’ più preparati, perché la rivoluzione sessuale non poteva durare in eterno, perché non c’è più nulla contro cui combattere, non ci sono divieti da distruggere. E perché in due si sta, comunque, meglio. Anche economicamente.

“In Italia succede il contrario, le fasce più basse della popolazione non sempre possono permettersi un divorzio, una seconda famiglia, gli alimenti, ma in generale in Italia il divorzio non è mai andato né andrà mai molto di moda”.

Ed è vero che il matrimonio crea benessere, sociale ed economico? “E’ vero perché quelli che fanno i figli hanno il respiro più lungo, la vista più chiara: c’è un progetto forte che li stimola, li sostiene, ci sono esigenze che devono soddisfare e quindi maggiori volontà e possibilità di raggiungere gli obiettivi, c’è la spinta a trovare un lavoro migliore”.

E, aggiunge Volpi, “tutto questo accade al di là delle ridicolezze dell’Istat, che racconta una povertà inesistente nelle famiglie italiane”. Il matrimonio regge e il matrimonio aiuta, è la grande novità che arriva dall’America, e anzi il matrimonio funziona di più quanto più si è culturalmente evoluti, moderni, laureati. Dà la spinta giusta per stare meglio.

Con i rapporti prematrimoniali, la contraccezione, la possibilità di fare piani, naturalmente (come Ashley, che ha 18 anni e frequenta la West Virginia University, quella dei party e della birra, pensa che restare incinta adesso “sarebbe un disastro” e però si vuole assolutamente sposare a 24 anni e fare figli a 26).

Secondo l’Economist “gli uomini sposati bevono di meno, prendono meno droghe e lavorano di più, tra il dieci e il quaranta per cento in più rispetto ai single con simile scolarizzazione e percorso lavorativo. E il matrimonio incoraggia entrambi gli sposi a risparmiare e a investire più per il futuro”.

E’ così anche in Italia? “Certo che sì – dice Volpi al Foglio – anche se siamo la nazione più vecchia d’Europa, anche se facciamo talmente pochi figli che tra trenta o cinquant’anni al massimo la società non si reggerà più in piedi: il modello culturale prevalente è quello del figlio unico, purtroppo, e le famiglie povere in Italia sono maggiormente quelle con due figli: vent’anni fa non era così, ora invece il secondo figlio è diventato sconveniente.

Bisogna che il paese si dia da fare per premiare il secondo figlio o almeno non penalizzarlo, poi la forza della coppia, il respiro di un progetto potente e stabile farà il resto”.