Sondaggi: quel che i numeri non dicono

sondaggiVita e Pensiero n. 5
settembre-ottobre 2007

L’ampio ricorso ai sondaggi, oggi, dimostra una forte esigenza di quantificazione e oggettività. Ma la raccolta dei dati e la loro comunicazione implicano interventi interpretativi e contesti relazionali che spesso vengono ignorati, o nascosti.

Rita Bichi sociologa, è professore associato e insegna Metodologia della ricerca sociale presso l’Università Cattolica di Milano. E’ un’esperta di metodi biografici e di ricerca qualitativa, su cui ha pubblicato tra l’altro La società raccontata. Metodi biografici e vite complesse (2000) e La conduzione delle interviste nella ricerca sociale (2007).

di Rita Bichi

In ambito sociale, ma anche in quello economico, politico e di mercato, i numeri sono molto importanti e anche molto richiesti a chi  si occupa di ricerca empirica. Le aziende, gli enti, le istituzioni sollecitano numeri, li commissionano, per farne poi parte integrante o meno della loro azione, ma per farli sicuramente partecipare alla loro vita. I numeri, infatti, appaiono convincenti e sicuri, certamente degni di attenzione e più spesso affidabili, danno un’immediata misura dei fenomeni, dimensionano le situazioni, descrivono sinteticamente e schematicamente i contesti, sono immediatamente fruibili.

I numeri, poi, hanno grande potere: riescono a orientare l’opinione pubblica, fanno notizia, sono capaci di indirizzare le politiche, le decisioni pubbliche e le scelte, si possono usare per illustrare in maniera comprensibile e impressiva. I numeri, detto altrimenti, hanno influenza perché sembrano dire la verità, non essere interpre-tazioni, perché “parlano da soli”, al di là delle tante possibili opinioni e valutazioni e ideologie, e avere dunque valore universale, non essendo legati alla soggettività ed essendo esenti, se controllati, da possibili manipolazioni.

Su questo convincimento, e non sulla criticità della effettiva potenza dei numeri, si è basata a lungo anche la ricerca sociologica, nella speranza di farne una scienza esatta e indiscutibile, nell’intento di chiuderla dentro un unico paradigma regolatore della sua specificità. Ancora oggi, quando la riflessione in ambito scientifico ha già proposto da tempo numerosissimi spunti di ripensamento, molti ambiti di ricerca risentono di questo atteggiamento che tende a svalutare qualsiasi risultato che non sia supportato da analisi quantitative e, dunque, da numeri.

Sono problemi, questi, lungamente dibattuti e che non possono essere certo esaminati in questa sede. Alcuni spunti di riflessione possono però essere esplicitati, riducendo l’ambito di attenzione a contesti più ristretti. I numeri, certo, sono usati in molti e diversi contesti di ricerca, a volte poco confrontabili tra loro. Tra i tantissimi possibili esempi, che spaziano dalla ricerca scientifica alla ricerca dì mercato, e che richiederebbero ciascuno una lunga e complessa trattazione, si può brevemente puntare il fuoco su un fenomeno dilagante e invasivo, quello dei cosiddetti sondaggi, che dei numeri fanno il centro della loro attività e sui quali si fonda la loro stessa esistenza.

Cos’è un sondaggio

Sondaggio, peraltro, è una parola polisemica, che viene usata per indicare sistemi di ricerca anche molto diversi tra loro. Innanzitutto, i media hanno fornito a tutti, in questi ultimi anni, innumerevoli occasioni di familiarizzare con sondaggi – più spesso soltanto con i loro risultati espressi in percentuali – che ci dicono essere capaci di descrivere e spiegare il mondo nel quale viviamo.

Sono i numeri deicosiddetti sondaggi di opinione, indagini quasi sempre condotte da enti e istituti di ricerca privati, che intervistano le persone – quasi in ogni caso – al telefono, sugli argomenti più disparati, dalla politica alla gastronomia. Sono indagini che devono svolgersi e concludersi in tempi brevissimi – per la loro stretta dipendenza dall’attualità – e fornire risultati immediati, che hanno come fine soprattutto quello di “condire” sia i talk show che tutte le reti televisive propongono in abbondanza sia gli articoli proposti sui periodici di tutti i tipi.

Sondaggio, però, è una parola usata a volte anche per identificare o la ricerca sociale cosiddetta quantitativa, quella che si avvale di strumenti in grado di “produrre numeri”, come i questionari. Questo tipo di sondaggi, che più spesso vengono chiamati survey – o indagini campionarie – sono condotti con criteri che ne dovrebbero garantire la qualità scientifica, a partire dalle norme che la statistica impone per la costruzione dei campioni e da criteri di raccolta e di analisi rigorosi.

Riflettere sui sondaggi, dunque, implica prendere in carico un vasto mondo nel quale convivono esigenze di mercato, principi metodologici, impostazioni teoriche, interessi di molte diverse provenienze e un notevole numero di strumenti diversi. Quello che i numeri non dicono, dunque, dipende anche – ma non solo – da quale tipo di sondaggio viene messo in opera, dai criteri che vengono seguiti nel disegnare e implementare la ricerca, dagli obiettivi che quest’ultima si pone, dal tipo di analisi al quale i dati vengono sottoposti.

Soffermandosi sui sondaggi d’opinione, si può mettere in evidenza che in Italia è vigente una legge (249/97) disciplinata da un regolamento (delibere 153/02/CSP e 237/03/CSP) che prevede una rigorosa definizione di “sondaggio”, II soggetto realizzatore è obbligato a rendere disponibile sul sito internet dell’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni il documento completo relativo ai sondaggi pubblicati o diffusi al pubblico. È, questa, una fonte di interessanti considerazioni.

Dal 1° marzo 2006 al 31 maggio dello stesso anno il sito dell’Autorità ha registrato 276 diversi sondaggi la cui documentazione è stata inviata da 55 diversi “realizzatori”, ovvero enti/studi/istituti di ricerca. Gli italiani sono stati chiamati a pronunciarsi su 276 diversi argomenti che spaziano dalla “immagine percepita del Senato della Repubblica” a “calciopoli”, dal “ricordo delle date storiche” alla “pelle made in Italy”, dalla “leva fiscale e politiche sociali” al “colpo di fulmine”, da “i giovani e la chiamata vocazionale” ai “prodotti dolciari light”, dalla giustizia alla forma fisica, dall’identità personale alle percezioni sul personaggio di Topolino. E, ovviamente, si può continuare.

Solo nel mese di maggio 2006 i sondaggi pubblicizzati sul sito dell’Autorità sono stati 105 che, sommati a quelli dei due precedenti mesi (cioè dall’inizio di marzo a fine maggio 2006), come sopra ricordato ammontano a 276. Mediamente, dunque, si contano 92 sondaggi il mese ovvero, considerando 20 giorni di lavoro mensili, quasi 5 ogni giorno.

Già queste prime indicazioni avvertono della pressione che viene esercitata sulla popolazione italiana chiamata a rispondere.

II totale dei contatti denunciati in 49 sondaggi presi in esame, inoltre, è pari a circa 600.000 (580.768). Azzardando un calcolo certo non pienamente legittimo, questa cifra potrebbe essere raddoppiata se riferita alla media dei sondaggi denunciati in un mese, arrivando così a un milione e duecentomila contatti mensili. Sembra ragionevole pensare, allora, che in un mese venga tentato il contatto con circa un milione di italiani, più o meno 50.000 ogni giorno, senza tenere conto dei sondaggi di argomento politico, esclusi dall’obbligo di pubblicazione su questo sito. Un primo, importante, campanello d’allarme.

Chi e come si intervista

Di fronte a tale invasione, infatti, le domande sulla fondatezza del campione – i sondaggi chiamano sempre a rispondere un campione di popolazione, una piccola parte dell’intero – sono molte. Come vengono selezionati i rispondenti? Quanti vengono rintracciati? Quanti tra i selezionati rintracciati accettano di rispondere?

A queste domande gli enti di ricerca non sempre rispondono, e quando lo fanno non riportano certo informazioni confortanti: i contatti effettuati – bisogna ricordare che la quasi totalità dei sondaggi viene effettuata telefonicamente – sono anche dieci volte più numerosi di quelli necessari, i rifiuti sono in numero esorbitante ecc.

La casualità dell’estrazione, criterio fondante la legittimità delle generalizzazioni che questi sondaggi sostengono – quando per esempio affermano: «II 15% degli italiani la pensa così» – è così problematica da lasciare poco spazio alla cosiddetta fedeltà dei dati raccolti e dunque dei risultati numerici che vengono diffusi.

Le crescenti difficoltà di comporre un campione fondato sulla casualità statistica derivano peraltro, con tutta evidenza, da molti fattori. Più in generale, si può affermare che le trasformazioni societarie alle quali assistiamo, di cui ormai da molti anni la teoria sociologica si occupa, incidono fortemente sulla possibilità di raggiungere le popolazioni di riferimento delle ricerche messe in atto.

Basti pensare o ai grandi mutamenti delle forme di convivenza familiare, a quelli relativi alla mobilità lavorativa e territoriale, alla pluricollocazione lavorativa, ai processi migratori, alla diffusa segmentazione di ambiti di vita prima identificabili con maggiore chiarezza e oggi, sempre più spesso, difficili da delimitare nei loro confini.

Queste mutate condizioni di vita complicano molti dei passaggi necessari alla costruzione di un campione che voglia dar conto delle dimensioni del fenomeno che studia. Problemi che rendono difficile anche implementare seri disegni di ricerca sociologica e fondati risultati di questi disegni.

Questa è la prima cosa che i numeri nascondono, cioè quanto il campione reale, quello raggiunto dalle domande della ricerca, si avvicini o si allontani da una rappresentatività, seppur approssimata, dell’intera popolazione indagata. I criteri di costruzione del campione, che nelle indagini quantitative devono rispondere, pena la loro scarsa credibilità, a precisi criteri di costruzione, sono molto difficili da ottenere, tanto più in presenza di una rilevazione telefonica.

La seconda cosa che i numeri dei sondaggi non dicono è come si è svolta la rilevazione, come sono state poste le domande, quanto tempo è stato concesso all’intervistato per rispondere, in quale momento della sua giornata è stato colto dalla telefonata che gli chie­deva di collaborare ecc. Tutti importanti elementi su cui fondare quella fiducia nei numeri di cui si sta discutendo.

I sondaggi telefonici – quanti di noi ne hanno esperienza! – propongono domande sugli argomenti più svariati, sui quali magari non si è mai prima riflettuto, alle quali viene chiesto di dare una risposta immediata, decisa e veloce, senza avere nessuna possibilità di “pensarci su”. Lunghi elenchi di atteggiamenti nei confronti dei più svariati temi dentro i quali scegliere una sola risposta – oppure dichiarare un preciso grado di accordo – vengono proposti mentre, forse, il rispondente era impegnato ai fornelli nella cottura del pasto serale o si trovava nel bel mezzo di una discussione familiare.

Chi risponde ha effettivamente quell’atteggiamento che dichiara così frettolosamente di possedere? Fa veramente le cose che sostiene di fare? Proprio con quella frequenza? E i dubbi si possono ulteriormente moltiplicare: la sua identità è quella che ha dichiarato? Fa veramente la professione che denuncia? Ha l’età indicata? Ha veramente figli come sostiene? È proprio lei che si occupa dei consumi e quindi delle spese per la casa?

Le possibilità di controllo dell’operatore sono minime. Non ha la possibilità di vedere l’intervistato, non possiede alcuna informazione che possa, al di là del dichiarato, supportare alcuni dati che comunque gli è necessario rilevare. La selezione dei numeri telefonici, infatti, viene effettuata ormai sempre a mezzo di programmi che li compongono casualmente come combinazione numerica e che lasciano quindi al rispondente l’onere di affermare la propria appartenenza alla popolazione che la ricerca vuole raggiungere oppure di negarla.

L’unilateralità del sondaggio

Inoltre, in questa ricerca quantitativa, che si avvale dei numeri, l’aiuto della statistica ha portato alla possibilità di definire assunti atomistici che di fatto separano definitivamente le persone, nella loro complessità, quelle che sono alla base di tutti i ragionamenti sociologici, dai risultati ottenuti.

E’ questa una conseguenza della standardizzazione: in questo modo di fare ricerca, infatti, il problema dei significati espressi nelle domande e nelle risposte è, almeno in parte, risolto a monte. Ciò che le domande e le risposte vogliono dire, cioè, non è il risultato di una negoziazione tra interlocutori ma una decisione presa unilateralmente. Ed è questa la terza cosa, importantissima, che i numeri non dicono e non possono dire.

La conformità dell’interpretazione dell’intervistato alle categorie espresse dal ricercatore nelle sue domande non è messa a tema, ma data per scontato: le domande sono formulate da chi progetta la ricerca e sono uguali per tutti gli intervistati, il loro significato è e rimane quello deciso dal ricercatore. Gli intervistati hanno l’unica libertà di scegliere la loro risposta tra quelle che vengono loro pro­poste, dentro elenchi a volte troppo lunghi per essere tenuti in memoria.

Qua! è la corrispondenza tra questi concetti, resi operativi attraverso domande con risposte prefissate, con la categorizzazione delle persone che vengono chiamate a fornire le loro proprie risposte? Il modo di vedere il mondo dei sondaggisti è lo stesso degli intervistati? Che cosa avremmo potuto scoprire se, invece di partire dalla presunzione di conoscere “il modo in cui le cose funzionano” ci fossimo chiesti “come funzionano le cose?”, che cosa avrebbero detto le persone se fossero state libere di esprimere sia la propria opinione sia il loro modo di vedere il mondo e di classificarlo?

Lo statuto della parola dell’intervistato, poi, si risolve in controlli di congruità e rimane all’interno dell’organizzazione di una matrice dei dati nei quali ogni risposta è fungibile rispetto ai rispondenti: che la tal risposta l’abbia fornita il signor Rossi o il signor Bruni non ha alcuna importanza. Dove si trova la complessità delle persone che vivono il mondo e lo costruiscono insieme agli altri?

Ciascun soggetto intervistato viene considerato una fonte informativa, pozzo dal quale estrarre “materiale grezzo” che il ricercatore poi raffinerà, e non come attore sociale in grado di dire il mondo sodale di cui fa esperienza, capace di rendere conto della produzione, riproduzione e regolazione dei meccanismi e dei processi sociali, passando attraverso la vita degli individui concreti, con la sua persona al centro dell’azione.

Le risposte dell’intervistato non possono essere espressione del suo punto di vista sul mondo, che è il “suo mondo”, che egli definisce mentre lo valuta. Le sue risposte, cioè, non partono dalla sua esperienza sociale. Esperienza, in altre parole, intesa come attività cognitiva, come modo di costruzione, di verifica e di sperimentazione della vita sociale.

I numeri quindi dicono, quei numeri che chiamiamo dati, solo un’impostazione concettuale, un‘idea del mondo e un‘esperienza, standardizzata, resa uguale per tutti, e dalla quale scaturiscono i concetti che vengono resi operativi e poi in questo modo rilevati. Sono sicuramente le impostazioni del progettista – e anche le sue parole, i suoi termini, il suo linguaggio – quelle che vengono stabilite per tutti una volta per tutte.

I numeri non parlano da soli

C’è un quarto aspetto che i numeri non possono tenere in conto, e che dunque non dicono, ed è il passato, la profondità del tempo; la diacronicità e dunque la complessità della costruzione delle scelte e delle decisioni, dei modi di fare, dei bisogni e dei desideri e anche delle opinioni. I numeri possono cogliere l’attimo presente e ne rendono conto senza poter inglobarne il corso, il come la realtà sociale da loro definita e quantificata si è costituita, il modo in cui processualmente il mondo sociale si produce, riproduce e modifica. Come si formano le opinioni? Attraverso quali canali, attraverso quale socialità, quali sono i loro corsi d’azione?

Coloro che credono acriticamente alla fedeltà dei numeri definiscono questi risultati una fotografia, un’istantanea della realtà esistente, denunciando comunque, anche se implicitamente, questo limite. Sfuggono così allo sguardo concesso dai numeri le modalità attraverso le quali il sociale si costruisce, con l’apporto di ciascuno e dì tutti, nel tempo, dentro contesti e situazioni, nell’ambito di realtà storico-sociali definite, in una cultura determinata ma in continua trasformazione.

Legata proprio a quest’ultimo «spetto, c’è almeno una quinta cosa che i numeri non dicono, ed e proprio l’appena citato contesto, la fitta trama della socialità che si costruisce in situazione. Non ci sono, nei numeri, le relazioni, quelle che producono le reti sociali tanto spesso citate come metafora della tarda o post-modernità, non si possono recuperare – se non riducendone la visibilità alla sola, scarna, ossatura – le caratteristiche che le riempiono di significato e dunque di senso.

In più, la descrizione del contesto è lasciata all’apporto di poche e spesso poco significative variabili. Peraltro, è ormai diffusa convinzione tra i ricercatori che alcune delle variabili considerate sino a oggi esplicative di un largo spettro di comportamenti e atteggiamenti stiano perdendo il loro valore euristico: sempre più, infatti, una diversa segmentazione sociale – frutto dei processi di globalizzazione e della conseguente diversa, nascente localizzazione – si va disegnando e scompagina le ormai obsolete schernatizzazioni, sia nei termini di una possibile standardizzazione dentro gruppi sia, tanto meno, nella stessa suddivisione in gruppi.

L’ultima cosa, la più importante di tutte, che i numeri non dicono, è che essi non parlano per nulla da soli: i loro significati – e quindi il loro senso, che li rende così interessanti – vengono loro assegnati da chi li costruisce e poi da chi li analizza.

I numeri non ci assicurano che la relazione che troviamo tra due fenomeni vada in una direzione piuttosto che in quella opposta; è la nostra cultura, la nostra conoscenza di questi fenomeni, la nostra esperienza più o meno competente a stabilirlo. Sono anche le nostre idee e le nostre convinzioni, i nostri valori che orientano il nostro modo di guardare il mondo. I numeri dunque, nella loro scarna e nuda essenza, non hanno né forza né potenza, nulla possono nel mondo sociale dove, a contare, sono solo i loro significati, quelli con cui noi li vestiamo, più spesso con colori tra loro dissonanti.

Tutto ciò non significa che i numeri non servono, anzi. Basti pensare, solo per esemplificare, alla fondamentale funzione delle rilevazioni quali il censimento, alle utilissime banche dati che pazientemente – e con quanti problemi di standardizzazione e dunque di comparazione – vengono implementate sui problemi della povertà e del disagio sociale, o sul lavoro o, ancora, sui valori prevalenti o emergenti nelle varie forme societarie.

Se non fosse possibile procedere a questi calcoli non avremmo la possibilità di intervenire in maniera efficace attraverso utili politiche pubbliche. Il mercato, poi, avrebbe maggiori difficoltà nel gestire e programmare i suoi corsi d’azione. L’organizzazione che contraddistingue le società, soprattutto quelle occidentali, si regge anche sull’apporto di questi strumenti.

Ma dietro i numeri è molto facile che le persone reali – quelle che vivono quotidianamente la realtà, immerse nei contesti e nelle situazioni sociali nelle quali agiscono, detentrici di un sapere che forma e riforma la società – spariscano, in favore di entità astratte e generali. E di questo è necessario tenere sempre conto quando si analizzano e dunque si interpretano i numeri.

Il patrimonio conoscitivo delle persone, nella loro singolarità e nella loro insostituibilità, fattrici e insieme prodotti del vivere associato, non può peraltro essere dimenticato, perché necessario alla spiegazione e alla comprensione dei fenomeni sociali, obiettivo ineludibile della ricerca, in particolare quella sociale. La complessità del vissuto e l’esperienza sociale che ogni membro della società è in grado di restituire alla conoscenza sono elementi della ricchezza che la ricerca sociale è in grado di produrre.