Soli come americani

singleTempi 16 maggio 2012

Negli Stati Uniti quasi una persona su tre è “single”. Non è l’antico retaggio della cultura del West, ma un processo che riguarda anche le grandi città. Scene da una nazione affollata in cui nessun rapporto è determinante

da New York Mattia Ferraresi

Dice il filosofo che l’uomo è naturalmente compagnevole animale», scrive Dante nel Convivio, mettendo meravigliosamente in volgare l’aristotelico zoon politikon. L’uomo si associa ai suoi simili, si riproduce, si organizza in società complesse che, a seconda degli osservatori, ricordano la precisione laboriosa dell’alveare o il più placido istinto protettivo di un gregge, con la differenza che l’uomo trae dalla relazione con l’altro non soltanto un vantaggio materiale o strategico, ma compie la propria multiforme natura nel rapporto con i suoi simili. Almeno nella concezione aristotelica classica. Fine del ripasso, inizio della vicenda.

La vicenda comincia a Chicago nell’estate del 1995, un periodo che gli abitanti della città del vento ricordano almeno per sentito dire, perché quella volta il caldo ha avvolto ogni cosa in un abbraccio umido e mortifero. Alla fine di quella stagione asfissiante i morti in città erano 739, immediatamente classificati sotto la sezione “vittime di calamità naturali”, come chi rimane schiacciato dalle macerie durante un terremoto o viene travolto da un’alluvione.

Qualche anno più tardi il sociologo Eric Klinenberg si è ritrovato a scartabellare fra i dati della tragedia, e ha osservato un comune denominatore fra diverse centinaia delle vittime, un dettaglio che nessuno aveva mai notato. La maggior parte erano single. Non nel senso affettivo, affare complesso che sfugge all’indagine dei sociologi, ma nel più osservabile significato della vita casalinga spesa in solitudine.

Vivevano soli, questi chicagoan, e la tempesta di calore li ha sorpresi nella loro indifesa singolarità. Molti sono morti «non soltanto per via del tempo, ma anche perché si erano pericolosamente isolati mentre il resto della città si allontanava da loro»; il prossimo che si prendeva cura di loro non era abbastanza prossimo, oppure semplicemente non esisteva.

In ufficio ma non per lavorare

Scavando nelle tabelle demografiche dellla Chicago di quegli anni, Klinenberg si è accorto che il fenomeno della vita in solitudine non era l’appannaggio di una minoranza isolata e borderline, un angolo morto nello specchietto retrovisore della società, quanto un campione piuttosto rappresentativo della vita americana.

In quel caso, l’effetto clamoroso consisteva nel fatto che la mancanza di legami permanenti aveva spogliato i singoli di una protezione contro un’eventualità estrema, come l’antilope ferita che rimane esclusa dalla relativa sicurezza del branco. È quando l’esemplare debole rimane isolato che il leone si mette in moto. Klinenberg è rimasto folgorato dal fenomeno demografico che gli è capitato fra le mani nella Chicago degli anni Novanta e ha esteso le sue ricerche sui single a tutto il paese.

In Going Solo, il libro che raccoglie questi studi, spiega che negli Stati Uniti ci sono 32,7 milioni di persone che vivono sole, cioè circa il 28 per cento della popolazione. Non stiamo parlando delle zone a bassa densità che pure abbondano negli spazi aperti d’America, ma di una tendenza urbana che ha i suoi picchi di solitudine sociale nelle grandi città.

A Seattle, San Francisco, Denver, Philadelphia, Washington e Chicago la percentuale di persone che vivono sole oscilla fra il 35 e il 45 per cento. Metà delle case di Manhattan sono abitate da una sola persona.

I numeri sono in netto contrasto con quelli rilevati nelle metropoli europee, che pure presentano tratti economici e culturali simili a quelli delle città americane. La tentazione di riscaldare la minestra dell’individualismo americano, contrapporla alla tradizione familiare europea e concludere che l’uomo d’oltreoceano è meno compagnevole di quello descritto da Dante (dunque la saggezza aristotelica non è universalmente valida, ma varia a seconda delle circostanze) è forte, ma il libro di Klinenberg affianca altre osservazioni che evitano riduzioni a buon mercato.

Gli americani che vivono soli non sono soli. Sono circondati da persone, le loro vite pullulano di colleghi, compagni di viaggio, bevute in compagnia, rapporti sessuali occasionali, serate al karaoke, interessi condivisi, intense relazioni sui social network, ma nessuno di questi rapporti ha la forza per affermarsi come dimensione stabile dell’esistenza. Il senso di appartenenza a una comunità infuso nel passato dalla famiglia è stato rimpiazzato dai posti di lavoro, che nelle aree urbanizzate d’America tendono a riprodurre sempre di più le fattezze dell’ambiente domestico.

Non c’è bisogno di far visita alla sede di Google, dove il datore di lavoro offre intrattenimenti e svaghi di ogni genere, per notare la “domesticizzazione” dell’ambiente lavorativo, un processo forzato anche da una certa cultura della classe medio-alta basata sulla reperibilità 24 ore su 24 e altri fenomeni molto americani tipo il “face time”.

Specialmente all’inizio della carriera i professionisti non possono permettersi di abbandonare l’ufficio, nemmeno quando hanno finito il lavoro che è stato loro assegnato per la giornata; non sono obbligati dal padrone a rimanere a scaldare la sedia, ma c’è un ricatto più sottile fatto di messaggi non verbali e competizione sociale.

Le strutture dei posti di lavoro americani sono in grado di offrire i diversivi necessari per passare quelle fette di giornata in cui l’unico scopo è mostrare la propria faccia, farsi vedere in giro, e non andare a casa propria a passare il tempo con una famiglia, ristretta o allargata che sia.

Bowling Alone

II meccanismo, che per motivi naturali di carriera coinvolge soprattutto i ventenni e i trentenni (cioè quelli che una volta si imbarcavano in relazioni stabili) costringe le persone a riorganizzare la propria vita in base a due trame drasticamente separate. Da una parte c’è la dimensione casalinga e solitaria; dall’altra la ricerca spasmodica di modi per riempire il tempo che altrimenti sarebbe speso in solitudine.

Le forme di aggregazione, dal book club agli amici della palestra ai cuochi che convocano sconosciuti attorno a una tavola per rispondere alla crescente domanda di un ambito sociale, sono quelle che il giornalista Ethan Watters chiama le “tribù urbane”. Sono l’ammortizzatore sociologico che evita l’opzione estrema e inquietante di trovarsi a giocare a bowling da soli.

Bowling Alone è il titolo di un famoso saggio dello scienziato politico e sociologo di Harvard Robert Putnam, che alla fine degli anni Novanta ha costruito una complessa analisi della deriva solitaria della società americana.

L’occhio politico di Putnam era soprattutto interessato a valutare l’impatto del ripiegamento individuale sullo stato della democrazia americana. Un calo di rapporti sociali diminuisce le discussioni, il calo delle discussioni ferma il processo di generazione delle opinioni, e si finisce per avere una società tendenzialmente più avulsa dalla cosa pubblica, con tutte le conseguenze che questo comporta anche in termini di affluenza alle urne o conoscenza basilare di ciò che succede al di fuori delle mura domestiche (all’interno delle quali tende a succedere sempre meno, peraltro).

Putnam si era risolto a usare l’esempio del bowling per il titolo del libro dopo aver scoperto che nei decenni precedenti il numero dei praticanti in America era aumentato del 20 per cento, ma quello delle squadre – simbolo di un’organizzazione più stabile e complessa rispetto alla partitella occasionale – era drasticamente diminuito.

Il professore di Harvard aveva ripre­so a sua volta, sviluppandole, alcune argomentazioni proposte da David Riesman nel suo The Lonely Crowd, anno 1950, studio fondamentale sul cambiamento del carattere americano in cui il sociologo sosteneva che nell’America del dopoguerra l’impulso sociale prevalente negli individui fosse quello di farsi “guidare” dai gusti e dagli istinti prevalenti nella comunità alla quale si apparteneva.

Una sorta di conformismo autoimposto per evitare la pena, assai peggiore dell’omologazione, dell’esclusione da un ambito sociale. L’espressione “lonely crowd”, la folla solitària, era a tal punto calzante nel descrivere il fenomeno che anche Bob Dylan una quindicina d’anni più tardi l’ha usata in una sua canzone. A quel tempo però la tendenza alla solitudine sociale era nel suo tratto carsico.

Quattro milioni di americani vivevano da soli, ovvero il 10 per cento della popolazione, e questa fetta era quasi interamente distribuita in stati a bassa densità come l’Alaska, il Montana o il Nevada, un retaggio tipico della cultura del West.

Putnam ha aggiunto alla lettura della sociologia precedente un accento crudo, forse anche disperato, arrivando a dire che in mancanza di alternative socialmente interessanti o praticabili gli uomini preferiscono buttarsi nella più amara delle partite di bowling, quella che si gioca da soli.

Perennemente in chat

Klinenberg, al contrario, spiega che non soltanto gli americani sono costantemente alla ricerca di antidoti (o anche placebo) contro la solitudine, ma anche che i single rispondono più efficacemente alle sollecitazioni della società contemporanea. Sono più flessibili, più produttivi, capaci di destreggiarsi su più fronti e hanno la libertà per cambiare i loro progetti di vita a seconda delle circostanze.

Il sociologo di Going Solo si limita a considerazioni di andamento utilitaristico, e deliberatamente non s’addentra nel campo dei giudizi espliciti di valore ma la sua concezione “neutrale” del rapporto fra umani contiene in forma germinale l’idea che l’uomo in quanto tale possa felicemente fare a meno di un ambito stabile di condivisione.

Non è una monade che rifugge qualunque legame, ma allo stesso tempo non esprime strutturalmente il bisogno di una casa da dividere con qualcuno, figurarsi di una prole da educare.

Per dirla con le categorie del filosofo canadese Charles Taylor, l’americano descritto da Klinenberg ha perso la categoria dei beni “mediati”. L’ascolto di una sonata di Mozart da un piacere in sé; ascoltare la stessa sonata in un teatro accanto a una persona che si ama aggiunge un piacere irriducibile a quello generato dall’ascolto in solitudine, un bene, appunto, mediato da una relazione significativa. Se la mediazione si applica alla quotidianità, l’analogia è fatta.

Non è un caso che negli ultimi mesi il mensile The Atlantic, nobile fucina di idee e inchieste, abbia lambito il fenomeno della solitudine con due copertine, la prima dedicata alla crisi del matrimonio e all’avanzamento del single come dimensione umana altamente desiderabile; l’altra alla solitudine creata dagli eccessi tecnologici in cui la forza del desiderio di comunicare sembra direttamente proporzionale alla distanza dell’interlocutore.

Se ci fosse vita su Marte staremmo tutto il giorno in chat con i marziani, esseri abbastanza esotici per apparire interessanti, non troppo vicini per infastidirci. Ma per assistere allo spettacolo amaro della perdita della relazione non serve nemmeno scontrarsi con l’indagine sociologica, basta entrare in un bar americano.

Nel luogo dell’aggregazione per eccellenza si troveranno soprattutto scranni che guardano verso il muro, posti isolati al bancone, tavolini striminziti e sedie disposte in modo da distruggere ogni possibilità di comunicazione. La tazza è rigorosamente usa e getta, in modo che il caffè si possa consumare per strada, nel tragitto fra una tribù urbana e l’altra.