Nicolás Gómez Dávila (1913-1994)

I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale

Voci per un dizionario del pensiero forte

di Giovanni Cantoni

1. Un ricco eremita in casa propria: il «certosino dell’altopiano»

Nicolás Gómez Dávila nasce il 18 maggio 1913 in Colombia, a Cajicá, nel dipartimento di Cundinamarca, di cui è capoluogo la capitale dello Stato iberoamericano, Santa Fe de Bogotá, da una famiglia dell’alta società. Non si laurea e della sua formazione si possono considerare regolari solo gli studi, elementari e medi, compiuti in scuole private o sotto la guida di precettori, durante una lunghissima permanenza in Francia, dai sei ai ventitré anni.

La sua naturale avidità intellettuale si esprime nelle pratiche della lettura e della riflessione, confermate e trasformate — per così dire — da stile di vita in destino da un incidente occorsogli andando a cavallo, incidente che lo condiziona e contribuisce a relegarlo, dai primi anni 1960, in casa propria, «ubicata in un’affollata via di Bogotá, in mezzo al traffico e al rumore della strada, come un monumento preistorico che la routine sembra condannare alla dimenticanza, nonostante la sua isolata bellezza»: in questi termini Óscar Duque Torres, uno dei suoi pochi critici, descrive suggestivamente l’abitazione, in stile Tudor.

Così Gómez Dávila vive quasi trent’anni come in clausura, da «certosino dell’altopiano» — la definizione è dello stesso critico e l’altopiano è quello dov’è ubicata Santa Fe de Bogotá, a 2630 metri d’altitudine —, nella «cella» costituita dalla sua monumentale biblioteca, di oltre trentamila volumi, soprattutto in lingua originale — rifiuta le traduzioni —, greco, latino, tedesco, inglese, portoghese, francese, italiano, russo e, naturalmente, spagnolo.

Vi riceve una mezza dozzina d’interlocutori — fra essi il critico e scrittore Hernando Téllez (1908-1966), il dotto frate minore Félix Wilches (1905-1972) e l’uomo politico conservatore, diplomatico e appassionato d’arte Douglas Botero Boshell (1916-1997) — e l’abbandona quasi solo per la «cappella», la chiesa del convento francescano de La Porciúncula, nella stessa via.

Muore il 17 maggio 1994, mentre s’appresta a studiare il danese per accostare Søren Kierkegaard (1813-1855), lasciando la moglie, María Emilia Nieto de Gó­mez, tre figli e nipoti.

2. Gli scritti: «glosse a un testo implicito»

Di fatto Gómez Dávila è autore di una sola grande opera continua, Escolios a un texto implícito, la cui pubblicazione inizia con questo titolo nel 1977, prosegue nel 1986 come Nuevos escolios a un texto implícito e si conclude, nel 1992, come Sucesivos e scolios a un texto implícito. Tutti questi volumi hanno la stessa struttura e sono frutto della stessa concezione: una sequenza di escolios, di «glosse», di genere anticipate, con il modesto titolo di Notas, nel 1954 in un’edizione privata in Messico, quindi, nel 1956, sulla rivista d’avanguardia colombiana Mito.

In apparenza diverso è il volume Textos I, del 1959, un testo unico con qualche rara suddivisione, che raccoglie pensieri in paragrafi l’uno seguente l’altro, poi «svanito» nella stessa consapevolezza dell’autore, così come costituiscono eccezioni, dal punto di vista formale, i saggi Il vero reazionario e De Jure. Ma in Textos I sono già presenti i caratteri delle glosse, meno il «testo implicito»: un pensiero libero e concentrato e un’espressione ricercata.

3. La fortuna dello «scrittore reazionario» o la «celebrità discreta»

Gli scritti del pensatore colombiano vengono proposti al pubblico nonostante la sua ritrosia e solo grazie all’interessamento dei pochi ma fedelissimi amici. Del resto — la notazione è dello stesso Gómez Dávila —, «lo scrittore reazionario deve rassegnarsi a una celebrità discreta, dal momento che non si può ingraziare gl’imbecilli».

La letteratura critica è limitata a qualche saggio quando non a rievocazioni giornalistiche. I suoi scritti e il suo pensiero hanno però trovato eco nel mondo di lingua tedesca, negli anni 1980, grazie a un’editrice conservatrice viennese, così acquisendo fra i suoi estimatori lo scrittore Ernst Jünger (1895-1998), lo studioso e pensatore politico Erik von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999) e il filosofo Robert Spaemann.

Sono pure riferibili i giudizi di ben altrimenti noti scrittori suoi compatrioti. Il romanziere e poeta Álvaro Mutis — uno dei suoi frequentatori — parla di Escolios a un texto implícito come di «un capolavoro del pensiero occidentale», «[…]una vasta summa di sapere, disseminata […] di allusioni e di elusioni, la cui piena utilizzazione supporrebbe lunghe veglie con i testi essenziali della nostra eredità ebraica, ellenica, romana, cristiana e occidentale»; e la definisce «opera superba che presenta nello stesso tempo una feconda teoria della storia e un’inconfutabile dottrina politica, un’essenziale meditazione sulla poesia e un non meno definitivo esame del pensiero metafisico e teologico», tale da essere — prevede — motivo di scandalo per gli «[…] eredi della tradizione liberale e democratica nata con la riforma protestante, incubata nel secolo dei lumi e battezzata con il sangue nelle giornate del 1789», ma atta a esser utilizzata anche dall’uomo qualunque, come dice con espressione italiana, dal momento che, per quanto «inconsueta e vasta», «[…] concerne anche i nostri affari di tutti i giorni».

E del romanziere Gabriel García Márquez viene citata l’impegnativa affermazione: «Se non fossi comunista, penserei come Gómez Dávila».

4. Il genere letterario: la tecnica «pointilliste» e il «testo breve»

L’opera del pensatore colombiano va esaminata secondo le prospettive formale e contenutistica non per scelta del critico, ma perché indicate, più che soltanto suggerite, dai titoli spogli dei suoi volumi, privi di qualsiasi richiamo, costituiti dalla reiterazione di «glosse» e di «testo implicito». Si tratta infatti di consistenti raccolte di pensieri brevi — oltre diecimila —, ai quali l’autore nega la natura di aforismi: «Il lettore non troverà aforismi in queste pagine» — scrive —, «le mie brevi frasi sono i tocchi cromatici di una composizione “pointilliste”».

E il riferimento alla tecnica pittorica pointilliste, in una delle prime glosse della prima raccolta, costituisce indicazione ermeneutica fondamentale, che vieta un giudizio non d’insieme sulla «composizione» e sull’«artista» — sua la dichiarazione: «Pretendo soltanto di non aver scritto un libro lineare, ma un libro concentrico» — e che suggerisce un apprezzamento corrispondente dei singoli «punti», dei singoli «tocchi cromatici»: «Il discorso continuo — sentenzia — tende a occultare le rotture dell’essere.

«Il frammento è espressione del pensiero onesto». Quanto alle «brevi frasi», «un testo breve non è affermazione presuntuosa, ma un gesto che scompare appena abbozzato»; e l’aforisma «negato» è però difeso, svelando la consapevolezza della difficoltà di definirlo — «Accusare l’aforisma di esprimere soltanto parte della verità equivale a supporre che il discorso prolisso possa esprimerla tutta» —; viene denunciata la prolissità — «la prolissità non è eccesso di parole, ma scarsità di idee» — e tessuto l’elogio del testo breve in quanto «poetico», cioè creativo, quindi costruttivo per il lettore: «L’opera frammentaria conquista la propria poesia obbligandoci a completare le sue curve mutilate».

Lo «spettro» dell’aforisma va infatti dalla definizione alla massima, alla «degnità» — il richiamo è a Giambattista Vico (1668-1744) —, alla «monografia compressa» — la formula è dello studioso canadese della comunicazione Marshall McLuhan (1911-1981) —, alla glossa, alla breve osservazione, al rimando, all’appunto, alla nota a margine. E costituisce retaggio dell’oralità ed elemento di una plurisecolare farmacopea spirituale.

Dunque, glosse a margine. Ma a margine di che? S’impone, oltre il contenuto di tali glosse, l’identificazione del texto implícito, di cui i critici propongono — in alternativa o in combinazione — quella letterale, stretta, che rimanda a un ampio tratto dei Textos I di dura polemica sia con la democrazia che con l’uomo democratico; e quella lata, che identifica tale testo con l’intero corpus culturale dell’Occidente, da Omero ai contemporanei.

5. Il «pensiero reazionario»

Se il genere dell’opera favorisce l’apprezzamento anzitutto del paradosso, un’attenzione maggiore permette l’identificazione in essa di una dialettica di tipo vichiano fra «stoltezza» e «sapienza», nascoste dalla varietà delle formulazioni dell’una e dell’altra: «Gli uomini cambiano meno idee che le idee maschere. «Nel decorso dei secoli dialogano le stesse voci».

Ma «imbecillità», «stupidità» e «follia», oppure, con riferimento temporale, «modernità», possono suggerire nell’autore pura emotività e far dimenticare sia la gamma espressiva che l’espressione singola, talora strutturata a paradosso, cioè a figura logica in apparenza assurda in quanto contrastante non solo, eventualmente, con il buon senso, ma, nel caso, con l’opinione corrente, e atta peraltro a decantare in proverbio.

Dal punto di vista culturale, del pensiero reazionario Gómez Dávila non coglie e non svolge solamente l’ascendenza spagnola — ricordo, anche per la consonanza formale, i Pensamientos varios di Juan Donoso Cortés (1809-1853) —, francese o anglosassone, ma pure quella tedesca; quindi procede a un ricupero del romanticismo, non solo del pre-romanticismo della sensibilité e della sensibility, sia contenutisticamente, sia espressivamente, attraverso l’apprezzamento della continuità fra pensiero contro-rivoluzionario e poesia soprattutto ottocentesca.

Infatti, «la poesia del secolo XIX è l’eredità che la contro-rivoluzione soffocata ha lasciato alla letteratura». Sì che — osserva acutamente —, «identificando romanticismo e democrazia, così condannando il romanticismo, Maurras [Charles, 1868-1952] è caduto in un terribile errore.

«Condannando il romanticismo, Maurras condannava il pensiero reazionario e adottava un’ideologia rivoluzionaria in nome della contro-rivoluzione».

Dal punto di vista sostanziale «la saggezza si riduce a non insegnare a Dio come si devono fare le cose» e a vivere l’individualità, l’irripetibilità e la frammentarietà nel mistero: «Contro lo svuotamento moderno del mistero affermiamo la sua presenza inglobante». Però «la radice del pensiero reazionario non è la sfiducia nella ragione, ma la sfiducia nella volontà»; e il pensiero reazionario viene abbozzato almeno su tre «cavalletti», suggeriti da un’autoqualificazione: esser l’autore «cattolico, reazionario e retrogrado».

Cioè non ha solo dimensioni politiche e culturali, ma radici religiose ed esistenziali: se «la Reazione comincia a Delfi» e se «la Reazione è cominciata con il primo pentimento», «la reazione esplicita comincia alla fine del secolo XVIII; ma la reazione implicita comincia con l’espulsione del diavolo»; ed «essere reazionario significa capire che l’uomo è un problema senza soluzione umana».

Così i testi brevi sono percorsi da una vena polemica, talora esplicita e dura, in aggressivo contrasto con ogni filosofia e con ogni teologia razionalistiche — perché «razionalismo è lo pseudonimo ufficiale dello Gnosticismo», «la democrazia è la politica della teologia gnostica», «la Gnosi è la teologia satanica dell’esperienza mistica.

«Nell’interpretazione gnostica dell’esperienza mistica si genera la divinizzazione dell’uomo», e «l’ugualitarismo è inferenza gnostica: infatti ogni particella della divinità è ugualmente divina» —, in una prospettiva filosofica e teologica negativa, che richiama quella platonico-tomistica di Josef Pieper (1904-1997). E a tale vena se ne affianca un’altra, antimoralistica ma non certo immorale, percorsa dall’evangelica «prudenza del serpente» da affiancare alla «semplicità della colomba» (cfr. Mt. 10, 16), la cui divisa potrebbe essere «Credere in Dio, confidare in Cristo, guardare con malizia», e la cui espressione è talora non solo dura quanto al contenuto ma pure cruda quanto al modo. Insomma — la dichiarazione è formale  —, Gómez Dávila elabora ed espone «un platonismo esistenziale e uno storicismo agostiniano».

Ma l’orizzonte limitato e cupo non alimenta la disperazione, anche se «la nostra ultima speranza sta nell’ingiustizia di Dio» e «l’unica precauzione sta nel pregare in tempo»: infatti, poiché «per rinnovare non è necessario contraddire, basta approfondire», e siccome «il peso di questo mondo si può sopportare solo in ginocchio», «l’unica ragione di sperare è stata espressa perfettamente da Huizinga [Johan, 1872-1945] in una delle sue ultime parole: “Per fortuna l’uomo non ha l’ultima parola”».

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Per approfondire: dell’autore vedi, in italiano, Il vero reazionario, in Cristianità, anno XXVII, n. 287-288, Piacenza marzo-aprile 1999, pp. 18-20; e In margine a un testo implicito, trad. it., a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2001; sull’autore, vedi Óscar Duque Torres ed Ernesto Monsalve, Nicolás Gómez Dávila: la pasión del anacronismo, in Boletín Cultural y Bibliográfico, vol. 32, Santa Fe de Bogotá 1995, numero 40, pp. 31-49; il mio Un contro-rivoluzionario cattolico iberoamericano nell’età della Rivoluzione culturale: il «vero reazionario» postmoderno Nicolás Gómez Dávila, in Cristianità, anno XXVII, n. 298, Piacenza marzo-aprile 2000, pp. 7-16; e F. Volpi, Un angelo prigioniero nel tempo, in N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, cit., pp. 157-183.

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