Nella scuola deve finire l’eclisse dei classici

DanteVita e Pensiero n.1 gennaio-febbraio 2006

L’eredità culturale di cui siamo beneficiari è insieme letteraria e artistica. Di quella artistica siamo tutti consapevoli, mentre l’eredità letteraria ci sembra assai meno rilevante. Perché il sistema educativo non può più trascurare la questione.

Claudio Scarpati*

* Claudio Scarpati è ordinario di Letteratura italiana presso l’Università Cattolica di Milano dove si é laureato con Mario Apollonio. E’ impegnato in molteplici campi di ricerca: collabora all’edizione nazionale delle opere di Torquato Tasso e ha svolto indagini sulla nascita della scrittura scientifica  in volgare nell’età di Galileo Galilei. Si è occupato dello studio delle forme retoriche e delle soluzioni inventive nelle scritture scientifiche di Leonardo e ha scritto anche diversi saggi sulla poesia contemporanea.

Le letture della Divina Commedia di Vittorio Sermonti in Santa Maria delle Grazie a Milano e le letture commentate dei Promessi Sposi in Università Cattolica nel corso del 2005 hanno richiamato un pubblico vasto, fedele e attento. Queste iniziative coraggiose hanno avuto una risposta superiore all’ aspettativa di quanti le hanno pensate e poste in atto.

Le cronache hanno registrato con stupore questi eventi, ma scarsa riflessione e stata loro dedicata. Le poche interviste che sono state raccolte tra il pubblico hanno accennato alla nostalgia del liceo e alla spinta volonterosa della curiosità, ma certo il fenomeno cui abbiamo assistito non è riducibile a queste semplici motivazioni. Si è parlato anche di una stanchezza prodotta dall’alluvione mediatica e del bisogno di ritorno alla lettura lenta, e forse qui si è colto qualcosa di più profondo che sta all’origine del grande successo delle letture pubbliche.

Significativamente l’esperimento è stato condotto su Dante e Manzoni, su due scrittori -cardine della nostra tradizione culturale, che hanno avuto una posizione di privilegio indiscusso nella scuola che frequentarono quelli che oggi sono cinquantenni e più innanzi negli anni, ma fra il pubblico erano molti i giovani. Esistono dunque esigenze nascoste, attese inappagate sulle quali farebbero bene a riflettere gli uomini di scuola e di università.

La crisi o l’eclisse dei classici ebbe inizio negli anni Settanta, quando si ritenne che essi fossero caduti in una fatale obsolescenza, che fosse inutile dedicare tempo ai documenti del passato e che si dovesse porre gli studenti a contatto con testi e problemi che portassero il segno del “qui ed ora”: sociologia, antropologia culturale, scienze umane.

Alcuni libri di testo tentarono allora l’assemblaggio di materiali eterogenei e gli insegnanti fecero lo sforzo immane di essere all’altezza dei libri che avevano scelto; ma la rottura dei confini tra i compartimenti del sapere condusse in direzione del generico, anche perché le cognizioni di base degli allievi non erano in grado di permettere loro itinerari mentali così ardui.

Molti insegnanti, tuttavia, non credettero a questi nuovi indirizzi e continuarono a difendere un minimo di determinazione disciplinare (io insegno letteratura italiana, tu insegni storia della scienza, il luogo di composizione del tuo lavoro e del mio è nella mente dello studente nella quale bisogna conservare fiducia), sentendo in essa la condizione per non cadere nella confusione delle lingue.

Tramontate le esperienze interdisciplinari rigide, ancora viveva il demone dell'”oggi”, anche perché la cultura corrente, orientata ad affermare il primato del politico, andava suggerendo che ogni considerazione dei secoli passati era inutile viaggio, essendo determinante il progetto della trasformazione sociale, operata nel presente e proiettata nel futuro.

Si passò allora alla lettura dei giornali in classe, decisione assai discutibile, con la quale l’universo indefinito, non qualificato, della cronaca congiunta agli idoli mediatici trovava la via di scavalcare ufficialmente i confini e di entrare con forza nella scuola. Per quella via anche, portando nelle aule la parte giornalistica del dibattito politico, in assenza di documentazione diretta e sotto l’azione distorcente delle passioni di parte, non si ponevano gli studenti di fronte all’impegno politico, che è impegno nobile ed esigente, ma li si spingeva nella direzione senza sbocchi del dilettantismo politicante.

La lodevole preoccupazione di evitare il distacco della scuola dalla società si trasformava in assioma astratto, in base al quale la scuola finiva per essere opaco specchio riflettente solo quello che era già dato fuori di lei.

Deve la scuola essere semplicemente cassa di risonanza del mondo esterno? No, la scuola per sua natura deve essere diversa, non deve, come è stato recentemente osservato da Franco Cassano su queste stesse pagine («Vita e Pensiero» 5, 200.5), «essere solo giudicata dai tempi, ma deve offrire i criteri per giudicarli».

Quando negli anni Novanta si operò la lunga curva che dal primato della politica condusse al primato dell’economia, virando dal sociologismo al liberismo, anche la scuola sembrò adottare il criterio dell’utilità immediata. La scuola a lungo si è sentita ai margini dell’universo in cui si rischia, si intraprende, ci si lancia verso il futuro.

Ma era una sensazione fondata? In realtà, è stato scritto, «nella scuola si presuppone l’esistenza di beni collettivi da tutelare e da trasmettere senza che questi beni debbano passare attraverso l’approvazione del mercato e Possessione dei mille aggiornamenti» che nascono dall’avvertimento doloroso che la scuola «sia sempre in ritardo rispetto a un mondo vivo, veloce, efficiente, innovativo».

Anche nel nuovo clima i classici non furono più capiti e le loro pagine non vennero riaperte: nell’epoca in cui il luogo del sociale fu preso dai temi dello sviluppo, dell’impresa, dell’innovazione, ancora una volta le mete verso cui la collettività si volgeva non riuscivano a prevedere per la lettura delle grandi opere una collocazione che fosse in armonia con Ì nuovi imperativi. Per una via o per l’altra sembrò che si dovesse assistere all’irrimediabile eclisse dei classici.

Il dibattito sul declino dei classici è molto vivo negli Stati Uniti, dove i cultural studies (indagine sulle minoranze, sul folclore, sulle culture orali) e i gender studies (lettura dei fatti di cultura sotto l’angolazione del maschile-femminile) conoscono grande fortuna nei college e nelle università minori che si contrappongono alla persistenza degli assetti disciplinari sanciti dalla tradizione vigente nelle università maggiori. Il libro di Bill Readings, The University in Ruins, apparso nel 1999, ha mostrato come l’accanimento contro la tradizione che caratterizza i sostenitori dei cultural studies conduca a una perdita di prospettiva storica e a una semplice accettazione del presente, nascosta sotto la maschera contestativa.

E tuttavia non si può non riconoscere che anche sul piano pedagogico, oggi, il gioco di specchi tra environment culturale e la scuola tende al tramonto. Discendere verso le testimonianze del passato non è un retrocedere a stadi inferiori dell’umanità, quasi percorrendo una via di regressione, anche se il mito astratto di un progresso che trova nel presente il suo momento di compiuta realizzazione sembrerebbe suggerirlo a ogni passo.

L’incontro con le attestazioni antiche incrementa le esperienze, permette di vivere ipotesi che sono esistite e che chiedono di essere vagliate dalla nostra coscienza critica. Il passato non è inerte, ma contiene una serie infinita di immagini dell’uomo, una gamma sterminata di progetti in cui gli uomini hanno creduto, anche se molti di essi si sono rivelati illusori.

In particolare i classici contengono figure, meditazioni, vicende attraverso cui le generazioni che ci hanno preceduto sono passate, hanno tentato di decifrare il mondo e di penetrare nel groviglio degli interrogativi che l’uomo si pone quando è lucido e libero. Non si può dire che quanto hanno vissuto i lontani non ci serva: sarebbe come ritenere che ogni uomo ricominci da capo in un isolamento angosciante, ogni volta alle prese con gli enigmi del suo esistere, solo e indifeso davanti al mondo.

La coscienza storica è una coscienza prospettica che permette di collocarci, fornisce basi da cui iniziare di nuovo i discorsi, distinguendo le vie aperte da quelle sbarrate. La discesa nei domini delle lettere, della filosofia, delle arti ricostruisce intorno a noi i mondi che non abbiamo vissuto, che sarebbero perduti per sempre se non venissero di nuovo acquisiti per mezzo della storia.

È interessante notare che, mentre siamo riluttanti ad aprire i libri antichi che richiedono pazienza di lettura e di decifrazione, siamo disposti come turisti a percorrere con avido interesse le sale del British Museum o del Louvre, a seguire programmi di archeologia e di divulgazione storica, poiché crediamo che le testimonianze iconografiche ci parlino con più immediato linguaggio, con più diretta suggestione.

Ecco perché la vera innovazione didattica sarebbe quella in grado di comparare testi e immagini, letteratura e architettura e pittura e statuaria, con una iniziativa che gli insegnanti di lettere si dovrebbero assumere, ora che tante immagini sorgono dagli archivi elettronici, parzialmente rimediando alla sciagurata esiguità dell’insegnamento artistico nella scuola di questo nostro Paese che è stato definito come “museo diffuso”.

L’eredità culturale di cui siamo beneficiari è insieme letteraria e artistica. Di quella artistica siamo tutti consapevoli, mentre l’eredità letteraria ci sembra assai meno rilevante. Eppure la letteratura italiana ha suggerito temi e forme alle altre nazioni d’Europa almeno fino alla metà del Seicento, quando ancora si poetava in modi petrarcheschi, si educavano i figli dell’aristocrazia secondo i suggerimenti del Cortegiano di Baldassar Castiglione, si scrivevano tragedie e si concepivano poemi sulle orme delle opere di Torquato Tasso.

Il Rinascimento italiano è stato sentito come momento di fondazione della nuova coscienza europea in una tradizione ininterrotta che giunge fino alle opere di Jacob Burckhardt (1860) e ai sette volumi di Renaissance in Italy di John Addington Symonds (1875-1886), non alieni da interpretazioni discutibili, a cui arrise però una fortuna straordinaria: 12 edizioni dei sette volumi, da 20 a 25 dei volumi singoli. Fondando nel 1881 la Dante Society of America, Charles Norton promuoveva lo studio di Dante come modello di fierezza e di altezza morale da proporre alle generazioni americane dell’Ottocento.

È stato osservato che, mentre procede l’unificazione europea, mentre ci sentiamo partecipi della vita di un continente, più determinato e incisivo deve farsi il senso dell’identità nazionale perché il continente si arricchisca delle tradizioni che in esso confluiscono non per annegarsi nell’indistinto (già tante forze “globalizzanti” tendono a creare uniformità), ma per dar luogo a una unità molteplice. La scuola deve cogliere questo momento unico nella storia d’Europa e il ritorno ai nostri classici è non piccola parte di questo processo.

Nella letteratura e nelle arti figurative la scuola dovrà assicurare la conoscenza dei testi che l’Europa accolse e lesse e da cui trasse ispirazione, da Dante a Tasso a Galileo, da Giotto a Michelangelo a Bernini. Per un altro verso non potrà non porgere agli studenti i testi degli scrittori che fecero nascere e crescere l’idea dell’unità nazionale, i padri del Risorgimento, Foscolo, Leopardi e Manzoni, e quelli che inserirono la nostra letteratura nella corrente viva della cultura dell’Europa moderna: Verga e Pirandello, Carducci e Pascoli, per discendere poi al quadro vario e attraente della letteratura del Novecento. In questo modo le due dimensioni, continentale e nazionale, che i nostri classici attestano, saranno rispettate e rappresentate.

Sopra l’atrio dell’ala nuova della National Gallery di Londra stanno scritti nella pietra, a mo’ di fastigio, i nomi degli artisti italiani del Rinascimento che sono vanto di quel museo. Come potrebbe la scuola di un Paese cui si rende un cosi solenne omaggio saltare oltre le opere di un periodo cui altri europei, senza esitazione, attribuiscono un valore fondativo?

Nuove leve di insegnanti stanno per entrare nella scuola. Agli anni universitari hanno aggiunto un biennio di specializzazione dove hanno ricevuto spunti inediti, idee aggiornate, prospettive critiche che alimenteranno il loro impegno didattico.

È questo il momento in cui i classici possono tornare a occupare un posto centrale nella formazione intellettuale delle giovani generazioni. Determinante sarà il riacquisto, da parte dei docenti, del senso della propria dignità e della propria funzione. L’indeterminazione o il velleitarismo dei program mi non giova all’urgente necessità di ridisegnare ruoli e compiti di un gruppo sociale il cui prestigio è stato scalzato da un’opinione pubblica male informata e spesso manipolata.

Si può anzi dire che la perdita di autorevolezza della scuola e dei suoi operatori trova origine, anche, nell’imprecisione delle proposte che è stata in grado dì formulare, dell’evanescenza dei programmi, L’irrilevanza della letteratura è nata anche dalle riduzioni e dai tagli dei programmi, che hanno corroso dall’interno l’edificio didattico, riducendone l’autorevolezza.

La via della ricostruzione della scuola non sarà da cercare nelle decisioni corrive, nel ritenere che essa possa affiancarsi alla cultura televisiva o a quella delle reti, passerà invece dalla nitida riformulazione di una scala di valori riconosciuti, comuni, accettati e condivisi. Questo è lo spazio che i classici devono occupare, perché essi sono portatori di temi, di vicende, di nuclei narrativi, di meditazioni, di intuiti che investono le giovani coscienze e risvegliano in loro risorse vitali, anticipazioni che riguardano il loro futuro, pensieri costruttivi che occuperanno il loro imminente ingresso nella vita adulta, cui ritorneranno sul filo della memoria attiva, quella che confronta l’apprendimento con il vissuto, che trasferisce nel flusso vitale il deposito della cultura, il frutto dell’educazione.

Spesso gli insegnanti seguono vie brevi, linee di minore resistenza perché non si sentono all’altezza di una proposta didattica forte. A volte anche perché si sentono inadeguati davanti al grande mare delle opere entro cui si devono muovere. A loro è necessaria una rinnovata determinazione che li allontani dall’ossessione della loro insufficienza e sposti l’asse di gravita verso i testi al cui servizio essi sono chiamati.

Dall’interno dei testi nascerà l’interesse degli allievi. Se l’incontro con i testi è sempre rinviato, se è sostituito da lunghe rassegne, da elenchi dì nomi, da racconti di trame, l’insuccesso è sicuro. Occorre invece concedere fiducia alle opere che parlano da sole e alla capacità di reazione dei giovani.

Questa non si rivela se non è messa alla prova. Se l’insegnante guarda solo a se stesso è sopraffatto dalla difficoltà del suo lavoro. Se concede agli studenti la stima che meritano, può ritenerli degni di andare con il suo aiuto incontro a testi che hanno sollecitato l’attenzione di chi li ha letti in passato e ha trovato in essi qualcosa di rilevante per la propria esistenza. Sono i testi che parlano, più di colui che li propone.

Certamente si dovrà pensare anche a nuovi strumenti didattici. La selezione operata dalle antologie è a volte statica, inerte, tradizionale. L’insegnante dovrà correre il rischio di superare la barriera antologica, suggerendo a volte opere complete. Oppure dovrà snidare parti interessanti, ma dimenticate, delle opere cui attende.

Tutta la sua preparazione universitaria e post-universitaria potrà essere mobilitata, togliendo il velo a quanto è occultato nelle raccolte antologiche, fornendo fotocopie e mettendo in rete passi che il manuale non offre, testi che ha scoperto negli anni di studio o che va scoprendo attraverso la ricerca personale, lo studio che per lui continua, che non si è interrotto il giorno in cui ha messo piede in un’aula.

Italo Calvino scrisse che le letture di gioventù sono formative «nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla».

Nel 1964, rispondendo a un gruppo di studenti che gli comunicava dì avere sostituito con piacere la lettura del Barone rampante a quella dei Promessi sposi, ringraziando per la notizia ma facendo notare che il Barone non aveva ancora fatto la “prova del tempo”, esprimeva loro alcune considerazioni: «Guardate però che Alessandro Manzoni, oltre a essere un autore molto più serio di me, ha scritto un libro che è bene non lasciar perdere: più lo si legge da ragazzi, più farà compagnia per tutta la vita.

E non è affatto noioso: ha capitoli divertentissimi e scritti in maniera insuperabile, e altri capitoli che possono riuscire noiosi e che generalmente si saltano, ma che poi, con il passare degli anni, viene in mente di andare a rileggerli e si trovano bellissimi» (I libri degli altri, Lettere 1947-1981, Einaudi, 1991, p. 467).

La lettera di Calvino, portatrice di una lezione di illuminato e libero magistero, invita a riformulare un programma di lettura dei classici che contenga le nostre opere che hanno contribuito alla civiltà occidentale e quelle che hanno definito, nell’Ottocento la nostra identità nazionale: questo viaggio di letture chiede di essere offerto nella sua completezza ai giovani che entrano nell’età adulta facendo di essi cittadini consapevoli del punto della storia ove si trovano, capaci di orientarsi tra le eredità dei popoli del continente e di cogliere, tra queste, la parte che spetta al Paese dove sono nati.