L’Africa di Rosetta

suora_missioneSettimana giugno 2000

di Piero Gheddo

“Nella mia diocesi Rosetta ha fatto molto bene senza risparmiarsi – dice il vescovo di Goma mons. Faustin Ngabu, presidente della conferenza episcopale del Congo (47 vescovi). – Era una persona di grande intelligenza, buon senso e responsabilità, gradita a tutti: il suo segreto era una comunione profonda con Dio.

Aveva un grande amore per i sacerdoti, vedeva nei sacerdoti dei segni visibili di Cristo. Tutto il suo atteggiamento era di comprensione e di perdono. Anche se qualcuno andava in crisi o fuori strada, Rosetta non ne parlava mai male: cercava di aiutarlo con la preghiera, ma anche in modi più concreti. Cercava sempre di scusare le persone, di aiutarle. In lei tutti vedevano la presenza di Dio anche nelle situazioni più difficili. Per la mia diocesi e la casa episcopale è stata una benedizione”.

Nel ricordino pubblicato in occasione della sua morte, il fratello Carlo e la sorella Anna hanno posto semplicemente questa citazione della II Lettera di San Paolo a Timoteo (4, 7), che Rosetta richiamava in una sua lettera: “Ho combattuto la mia battaglia; ho terminato la corsa; ho conservato la fede”, con la due date che racchiudono tutta la sua vita: 1934-1999. Il “santino” è in perfetta sintonia con Rosetta Gheddo, missionaria laica consacrata che ha lavorato 34 anni (1965-1999) a Goma in Zaire (Congo), uno dei posti più difficili del “terzo mondo”.

Rosetta era mia cugina prima, figlia del fratello di mio papà e della sorella di mia mamma. Eravamo quindi doppiamente cugini e anzi, quasi fratello e sorella, dati i lunghi anni passati assieme a Tronzano Vercellese, nostro paese d’origine. Rosetta è partita per l’Africa nel 1965 come laica consacrata con le AFI di Bruxelles (Ausiliarie femminili internazionali).

Nel 1969 sono andato a trovarla e ci sono ritornato nel 1994, senza poter arrivare fino a lei perchè la strada fra Bukavu e Goma era tagliata dalla guerra. Quando è morta a Goma il 9 novembre 1999 non ho pensato subito di scrivere un libro su di lei.

Poi ho incontrato a Roma il suo vescovo e ho ricevuto dal Congo, e da chi l’ha conosciuta in Congo, tante testimonianze della sua santità. Mi è sembrato giusto non lasciar perdere la bella testimonianza di questa missionaria laica, in un tempo come il nostro in cui si parla molto della missione dei laici e pare che le vocazioni di laici e laiche alla missione siano in aumento [1].

Cosa ha fatto di particolare Rosetta Gheddo, nei 34 anni passati nel Kivu? Nei primi dieci anni di missione era impegnata nell’ufficio diocesano delle scuole cattoliche; poi, dopo la nazionalizzazione di scuole e ospedali decretata da Mobutu nel 1975, il vescovo l’ha chiamata nella casa episcopale: era incaricata dell’ospitalità e dell’economato-procura diocesani, si interessava dei poveri, dei bambini, dei profughi; soprattutto era amica di sacerdoti suore, volontari laici, rappresentava per tutti un punto di riferimento nella fede.

I missionari Saveriani che sono a Goma ed a Bukavu la conoscevano bene e la ospitavano nella loro fraternità quand’era ammalata o convalescente.

Padre Silvio Turazzi ha lavorato a Goma una ventina d’anni (1975-1994). Mi dice: “Rosetta per noi era come una sorella, avevamo capito la sua profondità di vita spirituale. In casa nostra la chiamavamo “la roccia”, perchè in lei vedevamo la stabilità e la continuità. Era appoggiata solidamente su Dio, come la casa sulla roccia di cui parla Gesù nel Vangelo. Irradiava un grande tesoro: il suo incontro con Dio.

E’ vissuta trenta e più anni in situazioni di guerra, tensioni tribali e in un mare di rifugiati. Sapeva accogliere, ascoltare, era una vera sorella per tutti: amava nella verità. Interveniva al momento opportuno ricordando la sofferenza dell’altra etnia, dell’altra parte. Perchè è facile dire di sì a chi esprime il proprio dolore, ma lei sapeva ricordare il dolore dell’altro gruppo. Non offendeva, ma non nascondeva la verità, espressione di amore. Questo le permetteva di mantenere relazioni di amore con tutti, da sorella vera.

Quando lei si esprimeva ricordando i morti dell’altro gruppo, le ingiustizie subite dall’altro gruppo, non diventava una nemica, ma faceva riflettere e rimaneva una sorella che amava tutti. E questa è una cosa bellissima, frutto di grande spiritualità. In lei si sentiva che parlava Dio, non la creatura umana”.

Le lettere di Rosetta erano quasi solo di carattere spirituale e piene di passione missionaria. Pochi i cenni al suo lavoro e alla situazione in cui viveva. Ne avrebbe avuto di storie da raccontare, ma non le raccontava. Da donna saggia, non voleva esprimere giudizi negativi sul paese e sul popolo del quale era ospite.

Uno dei suoi ritornelli, nelle conversazioni che ho avuto con lei in Italia, era questo: “Sì, lo Zaire attraversa un momento difficile, ma gli zairesi stanno migliorando, i giovani hanno una coscienza nuova, sono più sensibili ai diritti dell’uomo di quando sono andata in Africa. Quindi non c’è motivo di essere pessimisti sul futuro di questo popolo”.

Non sono mai riuscito ad avere notizie sufficienti per scrivere su di lei qualche articolo, dopo centinaia di articoli scritti su altri missionari! Mons. Ngabu mi dice: “Seguiva la spiritualità di Carlo De Foucauld, voleva rimanere nascosta. Non era timida, ma riservata, discreta. In diocesi la conoscevano tutti, chiunque veniva in episcopio andava a salutarla, volevano vedere le: era una donna di preghiera e di intensa vita spirituale”.

Faceva parte delle AFI, nate per servire le Chiese locali delle missioni e fondate negli anni trenta in Belgio da Yvonne Poncelet, discepola di padre Vincent Lebbe, il grande missionario che ha avuto un profondo influsso sulla Chiesa di Cina. Quando arrivò ai cittadini europei l’invito a lasciare la zona di Goma, teatro di grandi massacri, Rosetta disse: “Se me lo ordina il vescovo vado, ma il senso della mia vita è qui”.

E là è rimasta, sepolta a Buhimba nel cimitero dei consacrati accanto alla casa d’esercizi, dove amava recarsi sovente a pregare. Tutto questo spiega il valore delle notizie che sono giunte da Goma dopo la sua morte. Un funerale trionfale, con 40 preti africani presenti e una folla immensa che ha riempito la cattedrale e si è ammassata fuori.

Il Vicario generale, mons. Charles Maganya, ha presieduto la solenne Messa concelebrata; mons. Paul Mambe, vescovo di Kindu, ha tenuto l’omelia, più volte applaudito (il vescovo di Goma era a Nairobi). Poi, una sfilata di auto ha condotto Rosetta a Buhimba (15 km. da Goma) e la folla ha seguito su camion, con motorini, in bicicletta, persino a piedi, accompagnando Rosetta fino alla sua ultima dimora.

Il bollettino diocesano di Goma, “Construire ensemble”, ha pubblicato nel numero di gennaio 2000 questa toccante testimonianza: “Rosetta, missionaria laica AFI. Chi tra noi potrà dimenticarla? Questa mamma sposata con la vita della procura e dell’economato; questa mamma dal dolce sorriso, che ascoltava ogni persona con cui veniva in contatto, sensibile alle gioie e alle sofferenze di ogni sorella e di ogni fratello in Cristo, disposta  a rendere tanti piccoli servizi, desiderosa di fare piacere agli altri; questa mamma di una dedizione esemplare, di una fedeltà non comune.

La sua forza era Cristo, col quale viveva in unione intima, desiderosa di amarlo e di farlo amare: si abbandonava alla sua infinita misericordia senza paure, ma cosciente della sua piccolezza.

Ecco la grandezza della sua anima! Oh Rosetta, grazie!”. Fra le molte lettere ricevute da Goma, ecco cosa scrive un amico africano di nome Kizito: “Abbiamo appena perso la nostra cara Rosetta. E’ con tristezza che vi scrivo, anche se il nome di Dio deve essere benedetto: Lui l’ha donata e Lui se l’è ripresa. Rosetta ci accoglieva sempre con molto amore e pazienza. Per la sua grande misericordia, possa il Signore donarci un’altra Rosetta”. Ho scritto “L’Africa di Rosetta” perchè penso che la vita missionaria di questa piccola donna indica una grande verità.

Ci interroghiamo spesso su cosa possiamo fare per aiutare l’Africa. Si è anche detto, anni fa, che forse i missionari dovrebbero abbandonare il continente e lasciare che gli africani diventino artefici del loro destino (la teoria della “moratoria”).  Una laica consacrata delle AFI, Cecilia Morlotti di Bergamo, missionaria anche lei nel Kivu, mi ha detto: “Gli africani non vogliono essere abbandonati. Certamente bisogna starci con umiltà, cordialità, apprezzamento delle loro qualità. Se uno ci resta per farla da padrone, è meglio che torni in Europa.

Rosetta ha dato la massima testimonianza di come si può stare in Africa 34 anni, fare un vero servizio ed essere gradita a tutti”. Renato Vivenzi, volontario a Goma di “Mondo Giusto” (associazione laicale di Lecco), ha scritto alla famiglia: “Rosetta ha vissuto il passaggio da una Chiesa e un popolo guidati da bianchi a Chiesa e popolo guidati da figli autoctoni del luogo, e non è un passaggio facile per nessuno.

Non è facile per un bianco, partito in missione, liberarsi da ogni presunzione di avere un ruolo guida, di avere qualcosa di più da dare. Rosetta, a mio giudizio, c’è riuscita, nell’umiltà, nel servizio, nella semplicità, sorridendo e forse questo è il complimento più grande che si può fare a lei.

Di poche parole, con il suo sorriso cercava sempre di ricomporre l’unità, di apprezzare o di far emergere i lati positivi delle persone, magari schierate su posizioni contrastanti o divise dalle tensioni etniche. Una visita a Rosetta rasserenava lo spirito. Vederla sorridere nonostante il contesto, nonostante la sua salute, incoraggiava a ricominciare: era una presenza discreta, ma un riferimento stabile per molti”.

[1] Piero Gheddo, “L’Africa di Rosetta”, Emi 2000, pagg. 156, L. 15.000.