L’accidia, male del nostro tempo

accidiaLa Civiltà Cattolica n. 3829 2 gennaio 2010

Il «male di vivere», l’accidia, sembra essere particolarmente diffuso nelle odierne società occidentali. L’articolo presenta le caratteristiche principali di questo vizio capitale, rilevando come il malessere, anche psichico, che lo caratterizza sia sopratutto la manifestazione di una mancanza di senso

Giovanni Cucci sj

Che cos’è l’accidia?

«Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato». Con queste celebri parole di E. Montale (1) si potrebbe caratterizzare la perenne attualità dell’accidia: un velo opaco che rende ogni cosa insopportabile, sentendosi spenti, vuoti, senza energie; oppure, all’opposto, risulta impossibile fermarsi, restare in silenzio senza attività da compiere e a cui pensare, come se si sperimentasse al proprio interno un fuoco inquietante che non lascia scampo. «Accidia» significa letteralmente debolezza dell’anima, che si manifesta come assenza di attrazione, di desiderio di vivere, perché considerato privo di senso.

Negli scritti dei Padri della Chiesa questo vizio viene presentato attraverso la desolante sensazione di essere impotenti e inutili, alla mercé dell’emozione di turno: «Una certa inerzia, un languore dello spirito, un tedio del cuore si impadronisce di te; senti dentro di te un pesantissimo fastidio; sei di peso a te stesso [,..]. Ormai la lettura non ti soddisfa più, la preghiera non ti è gradita, non sei più bagnato dalle piogge salutari delle meditazioni spirituali a cui ti eri abituato» (2).

Anche Evagrio descrive con grande efficacia questo tipo di dissipazione insieme indolente e agitata: «L’occhio dell’accidioso fissa le finestre continuamente, e la sua mente immagina che arrivino visite […]. Quando legge sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po’, ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli, guarda dove finisce il testo, conta le pagine e i fogli rimasti, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, chiuso il libro, lo mette sotto il capo e cade in un sonno, ma non molto profondo, perché la fame lo ridesta con le sue preoccupazioni» (3).

Considerata sotto questo punto di vista, l’accidia è molto affine a ciò che in psicologia viene inteso con il termine di depressione, il «male oscuro», come è stato definito, molto diffuso nelle società occidentali. L’accidia non coincide tuttavia con la depressione, come si può notare anche dai testi sopra riportati, perché può essere vissuta con umore euforico, molto attivo e operoso, unito tuttavia a una incredibile paralisi circa la vita spirituale: il soggetto sembra bloccato perché concentrato su se stesso e sui propri problemi, impossibilitato a uscirne, a decentrarsi e a guardare fuori da sé. Tale paralisi è insieme causa ed effetto della sua sofferenza.

Fenomenologia dell’accidia

La Bibbia ha pagine significative per descrivere il comportamento flemmatico e inerte dell’accidioso: «Sono passato vicino al campo di un pigro, alla vigna di un uomo insensato: ecco, ovunque erano cresciute le erbacce, il terreno era coperto di cardi e il recinto di pietre era in rovina. Ho osservato e ho riflettuto, ho visto e ho tratto questa lezione: un po’ dormi, un po’ sonnecchi, un po’ incroci le braccia per riposare, e intanto arriva a te la povertà, come un vagabondo, e l’indigenza, come se tu fossi un accattone» (Prv 24,30-34).

La condizione interiore ed esteriore del pigro viene riassunta con un detto fulminante in Prv 26,14: «La porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto»; due movimenti lenti e continui, che possono durare a lungo, ma non conducono da nessuna parte (4). Il pigro viene qui ritratto come un apatico bonaccione che non si smuove dal letto nemmeno se la casa sta bruciando.

Questo è tuttavia soltanto un aspetto dell’accidia. C’è infatti anche l’ozio, che apre la porta a ogni tipo di male, purtroppo senza che il protagonista se ne avveda se non alla fine, quando ormai è troppo tardi. Il pigro far nulla è la premessa al lungo racconto del peccato di Davide, che invece di adempiere al suo dovere di comandante dell’esercito rimane nella reggia a dormire tutto il giorno (cfr 2 Sam 11,1-2).

Il libro dell’Apocalisse denuncia con parole durissime chi non sa decidersi né per il bene né per il male: «Tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo» (Ap 3,15-17).

In alcune pagine la Bibbia si mostra straordinariamente vicina alla descrizione delle crisi angosciano note alla letteratura di ogni tempo. Si pensi, ad esempio, all’analisi lucida e spietata di Qoelet: «Presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento» (Qo 2,17).

Una tristezza straziante e diffusa nei confronti della pesantezza del vivere viene espressa in modo lucido e folgorante da Giobbe: «Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e perché due mammelle mi allattarono? Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo con i re e i governanti della terra, che ricostruiscono per sé le rovine […]. Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. Anche i prigionieri hanno pace, non odono più la voce dell’aguzzino. Laggiù è il piccolo e il grande, e lo schiavo è libero dai suoi padroni» (Gb 3,11-14.17-19; cfr anche Ger 20,14-18).

Nella tradizione dei Padri del deserto, l’accidia era identificata con il «demone meridiano» del Salmo 90,6, che corrispondeva all’incirca alle tre del pomeriggio, forse perché era il momento più difficile della giornata, dato che il monaco non aveva mangiato nulla dalla notte precedente; in tale situazione egli sperimenta la massima spossatezza e l’impellente urgenza di abbandonare la propria condizione di vita: «Non appena questo male si è insinuato nell’animo del monaco vi produce l’avversione per il luogo, il fastidio per la cella e perfino la misconoscenza e il disprezzo per i fratelli che vivono presso di lui o lontani da lui, come se fossero dei negligenti e delle persone poco spirituali» (5).

Il pittore Bosch raffigura l’accidia nelle vesti di un monaco addormentato, comodamente seduto accanto al bel tepore del caminetto nella sua stanza, e dietro di lui una monaca che tiene in mano un rosario, come a ricordargli le pratiche di pietà disattese. Raffigurando questa situazione, Bosch sembrerebbe cogliere il pericolo più grave dell’accidia, quello di perdere la fede in modo soffice e indolore, quasi senza accorgersene: essa si spegne pian piano in un torpore mortifero, che niente sembra in grado di scuotere.

Esiste indubbiamente anche una componente somatica nella tristezza, una sua predisposizione umorale e neurologica; era il temperamento che gli antichi chiamavano melanconico, e che Freud interpreta soprattutto come conseguenza della mancata elaborazione di una perdita, per cui, venendo meno il lavoro attivo del lutto, si insinua un sentimento meno forte e inquietante, ma più diffuso e duraturo, che coinvolge l’intera vita della persona, portando a una perdita dell’Io in quanto tale.

In un’opera intitolata significativamente Lutto e melanconia, Freud distingue due differenti modalità di espressione del dolore psichico: il lutto è la tristezza legata a una perdita puntuale, la melanconia è invece una perdita più globale, è la stessa coscienza ad essere persa nel dolore (6). Le attuali ricerche svolte in sede neurologica confermano la complessità degli elementi in gioco a proposito di un comportamento pigro e abulico, fonte di azioni obiettivamente malvagie (7); tale complessità tuttavia era già stata riconosciuta con chiarezza dagli antichi (8).

L’accidia ha comunque motivazioni specificamente interiori; essa è una tipica «malattia dello spirito», un vizio dell’anima, per questo è conosciuta dall’uomo di ogni tempo, luogo e condizione. L’immoralità dell’accidia è la conseguenza di questo triste ripiegamento su di sé, che conduce a restare indifferenti di fronte alle sofferenze e alle ingiustizie del vicino. A tale categoria di persone si addice la sentenza di Dante: «Questi sciagurati che mai non fuor vivi» (9)

L’accidia, malattia dello spirito

Non è un caso che l’accidia, nelle sue varie espressioni, sia stata riconosciuta come specifico vizio a partire dall’esperienza monastica, mentre è praticamente sconosciuta nella tradizione filo-sofica precedente: l’apatheia, l’assenza di emozioni, era di fatto un ideale da perseguire secondo gli stoici. L’accidia è invece ben conosciuta ai monaci, forse perché, vivendo nel silenzio e nelle austerità proprie del deserto, più di altri sono in grado di prendere contatto con la verità più profonda di se stessi, entrando nella lotta spirituale che caratterizza l’esistenza autenticamente umana.

Evagrio descrive l’accidia come il male tipico degli eremiti; Cassiano lo ritrova largamente presente nella vita cenobitica, il nemico più pericoloso capace di logorare chi è interamente dedito alle realtà spirituali, come il monaco (10). Questo non significa che soltanto i monaci ne siano afflitti; essi piuttosto sono in grado di riconoscere l’accidia meglio di altri, mentre per lo più essa giace coperta dall’iperattività dell’uomo ordinario, salvo presentarsi, in forma molto più drammatica, quando le forze vengono meno, e il paravento di grandiosità e importanza che ci si era attribuiti cade come una maschera vuota e inutile.

San Tomrnaso definisce l’accidia «un disgusto o tristezza per il bene spirituale e interiore […], la quale deprime talmente lo spirito di un uomo, da togliergli la volontà di agire; poiché le cose inacidite sono anche fredde. Quindi l’accidia implica il disgusto dell’operare» (11). L’accidia, che è anzitutto una passione, secondo l’Aquinate diventa peccaminosa quando impedisce di compiere il proprio dovere, paralizzando la vita spirituale; essa, qualora non venga fronteggiata a dovere, influenza gli affetti, cioè la propensione a compiere il bene (12).

Questo vizio diventa in tal modo una catena che rallenta e appe-santisce il cammino, portando alla tristezza dello spirito, ben diversa dalla tristezza sensibile, più superficiale e passeggera; si può infatti sperimentare scontentezza nell’iniziare qualcosa, che può essere tuttavia accompagnata da una più profonda serenità interiore.

Come esiste una gioia spirituale, ben diversa dall’euforia emotiva del momento, la gioia propria della carità, comunione con Dio e la sua beatitudine (13), allo stesso modo la tristezza dell’accidia risiede nell’incapacità di amare, di compiere il bene, fino all’impossibilità di gioire per esso; l’accidioso, come il narcisista, ama soltanto se stesso, isolandosi da tutto, e la depressione ne rivela il vuoto desolante.

Queste considerazioni aiutano anche a precisare la differenza tra accidia e tristezza. Esse non sono identiche, e infatti i Padri avevano dedicato a ciascuna una trattazione separata: si può dire che quando ci si arrende alla tristezza, si cade nell’accidia. La tristezza è una specie di campanello di allarme di fronte a qualcosa di sgradevole, un segnale utile e importante, che va ascoltato e interpretato. Esiste infatti anche una tristezza buona, che scuote e invita a compiere il bene (14). Per questo Evagrio aveva distinto l’accidia dalla tristezza, riconoscendo la loro diversità a livello di vita spirituale e, conseguentemente, di valutazione morale.

L’accidioso ha smarrito l’atteggiamento propriamente biblico della prudenza. Egli, come nel quadro di Bosch, si è spiritualmente addormentato e non riesce ad avvertire la gravita della propria situazione. In tal modo, come ricorda a più riprese il Vangelo, rischia di spegnere il fuoco dello spirito e di perdere la vigilanza, la virtù che aiuta a riconoscere l’imminenza di un pericolo: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze, e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso» (Lc21,34; cfr Rm 13,13; 1 715,3).

Questo è il motivo per cui, secondo i Padri, dall’accidia provengono molti altri vizi, come la lussuria, l’invidia, l’ira, espressioni di uno stato di noia e distrazione continue dell’anima (15). La noia conduce alla ricerca morbosa di emozioni forti per sentirsi vivi a qualunque costo, per riempire un vuoto angosciante, che da origine a dipendenze e comportamenti estremamente pericolosi per sé e per altri, con esiti spesso tragici: gesti di violenza estrema, crudeltà perpetrate con indifferenza, dipendenza da sostanze, dall’alcool, da internet, nonché la pornografia trovano la loro radice in questa situazione di solitudine interiore.

II male del nostro tempo

L’accidia e la depressione sembrano essere le conseguenze più evidenti di una cultura e mentalità narcisista, che fa di se stessi il centro di ogni realtà. La presenza diffusa di questo vizio può essere letta come un potente segno di avvertimento: essa ricorda che è falso il sogno di una civiltà felice, realizzato grazie alla tecnologia e all’abbondanza dei beni.

La crescita tecnologica non può compensare la povertà della vita interiore, la perdita del senso di gratuità delle cose, di quello stupore che, secondo gli antichi, caratterizzava l’origine della sapienza e dell’esperienza spirituale. Quando G. Bunge presentò la riflessione su questo vizio compiuta da Evagrio Pontico, gli studenti osservarono meravigliati: «Ciò che il suo padre del deserto descrive lì è il male del nostro tempo» (16).

Gli studi condotti in sede psicologica confermano quanto depressione e tristezza si presentino come fenomeni preoccupatamente in crescita nelle società occidentali, colpendo in particolare la fascia di età che dovrebbe essere la più aperta alla vita. Uno studio sui comportamenti suicidari tra i giovani ha mostrato una notevole escalation, a partire dagli anni Sessanta, interessando in modo particolare gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, i Paesi in cui l’ideale della vita all’insegna della sicurezza e dell’abbondanza di beni sembra essere maggiormente diffuso e praticato.

Ciò che allarma in particolare coloro che studiano il suicidio giovanile è «l’andamento in continua ascesa di tali valori, soprattutto in alcuni Paesi, e la mancanza di idee precise su come arginare o prevenire il fenomeno. Se infatti trent’anni fa nei Paesi occidentali le condotte suicidane adolescenziali rappresentavano circa un ottavo dell’intero fenomeno suicidano, oggi esse ne costituiscono un quinto. Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più colpiti: fra gli anni Cinquanta e gli Ottanta l’incidenza del suicidio tra i giovani è triplicata. La classe di età più fortemente implicata è quella dei “giovani adulti” (20-24 anni) che raggiunge il ragguardevole tasso specifico di 30 per 100.000; tendenza che non sembra arrestarsi» (17).

Tra le motivazioni di tale incremento la ricerca mostrava una correlazione tra fenomeno suicidano e trasformazioni sociali avvenute nello stesso periodo, quali la crisi dell’istituto familiare, la dissoluzione del tessuto sociale, l’aumento di comportamenti distruttivi a livello giovanile. Si tratta di elementi in crescita anche a motivo di proposte culturali sempre più propagandate e diffuse a livello di media, il cui messaggio di fondo è che qualunque cosa ci si senta di fare diventa perciò stesso lecita: tale fenomeno secondo l’autore mostra «le contraddizioni e le antinomie di un mondo sempre meno basato su fondamenti e punti di riferimento etici» (18).

Si pensi ancora alla diffusione, sempre più ampia e incoraggiata a livello pubblico, di droghe, alcool, farmaci per sopperire alla tristezza di vivere, all’incapacità di dare stabilità alle proprie scelte, alle relazioni, a impegni di qualsiasi genere… Al fondo di tale situazione si nota il disagio e l’impotenza di poter riempire un vuoto radicale, ontologico, della costituzione umana: l’accidia, essendo un male dello spirito, si mostra refrattaria a soluzioni meramente tecniche.

Forse questo vizio appare così diffuso perché riflette l’odierna mancanza di speranza. Di fronte alle difficoltà sorge, inevitabile, l’interrogativo sul senso di un impegno che si rivela incapace di oltrepassare risultati immediati e possibili frustrazioni: «Nel nostro mondo l’accidia non prende più il volto della pigrizia, ma quello del lasciare fare, dell’abbozzare. Tanto, si dice: “Sono tutti uguali e migliorare è impossibile”. Questo modo di ragionare evita costantemente di mettere in questione la propria condotta […]. Viviamo nel mondo del fare, ma l’agire è spesso accompagnato dalla disaffezione: la smania di distrazione prevale sulla capacità di attenzione […]. L’accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia!» (19)

Contrastare l’accidia

L’insegnamento costante dei padri spirituali è che di fronte alla minaccia dell’accidia bisogna reagire facendo esattamente l’opposto di quanto essa suggerirebbe all’animo, anzitutto in sede di valutazione: sentirsi incapaci non significa essere incapaci, e questo giudizio di verità a proposito del vissuto è decisivo, perché è la lettura del fatto a costituire il suo peso effettivo per la persona.

È il motivo per cui sant’Ignazio raccomanda caldamente di non attuare mai cambiamenti nel tempo della desolazione, agendo esattamente all’opposto di quanto essa suggerisce (20). «Resistere», in tale contesto, significa più di un mero sforzo di volontà; è soffermarsi sui beni spirituali finora trascurati, e questo col tempo conduce a modificare il proprio atteggiamento di fondo: «Quanto più riflettiamo sui beni spirituali, più ci diventano piacevoli; e quindi cessa l’accidia» (21).

Un altro aiuto importante è l’esplicitazione del rapporto tra accidia e morte, simbolicamente espressa dal disagio interiore. Il fondatore della Compagnia di Gesù, entrando nel merito di decisioni importanti per la propria vita, suggerisce di rappresentarsi con l’immaginazione il momento della propria morte, domandando conto, più che dei peccati commessi, delle possibilità di bene disattese.

Questa è per lui la domanda decisiva: «Considererò, come se mi trovassi in punto di morte, il comportamento che allora vorrei aver tenuto nella presente scelta e, regolandomi secondo quello, prenderò fermamente la mia decisione» (22). Il «pungiglione della morte» di cui parla san Paolo (cfr 1 Cor 15,55-56) è uno dei veleni più potenti dell’accidia, la sensazione di avere sprecato la propria vita, sciupando possibilità preziose.

Mettere in atto un comportamento orientato al bene, a sua volta, favorisce e incrementa lo spirito del ringraziamento per ciò che si è ricevuto. Un tale atteggiamento, fondamentale per il credente, sta agli antipodi dell’accidia. L’Eucaristia, il «rendere grazie», azione per eccellenza del cristiano, è un aiuto decisivo anche sotto questo punto di vista: «L’acedia è l’esatto contrario dell’Eucaristia, cioè dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rapporto con lo “spazio” e il senso delle cose, chi è preda dell’acedia vive nella a-charistia, nell’incapacità a stupirsi della bellezza, dell’amore e quindi, nell’incapacità a rendere grazie» (23).

S. Schimmel, un terapeuta attento alla dimensione anche spirituale delle problematiche psicologiche, leggeva la tristezza di una situazione o di una prova nei termini di un appello e di un compito affidato: «E’ raro che un adulto associ la propria infelicità a un desiderio frustrato di fare il bene […]. Cogliere opportunità per fare il bene anche di fronte alla malattia è la risposta dello zelo all’accidia» (24).

«Un desiderio frustrato di fare il bene»: questo punto può essere decisivo per scuotere la persona tendenzialmente ripiegata su se stessa e sul proprio soffrire. Il problema centrale dell’accidioso non è di per sé la tristezza (presente in tutti, anche nei santi), ma piuttosto, come notava san Tommaso, l’incapacità di reagire compiendo il bene. Anche a livello psicologico, la considerazione sul bene che si potrebbe compiere ha profonde ripercussioni sulla maniera di contrastare la tristezza accidiosa.

Questi due criteri — la brevità della propria vita e le possibilità di bene alla propria portata — aiutano a riconoscere una direzione per cui spendersi, limitata ma reale. Lo psichiatra Yalom, ripercorrendo le decine di persone incontrate in sede terapeutica, notava in proposito come entrambi questi elementi (il tempo limitato e le possibilità di bene), qualora assunti consapevolmente, rafforzino il potenziale di vita presente nella persona, mutando di conseguenza anche l’atteggiamento verso la morte: «La mia esperienza, sia professionale sia personale, mi ha portato a ritenere che la paura della morte è sempre più forte in coloro che hanno la sensazione di non aver vissuto pienamente. Un buon parametro interpretativo potrebbe essere il seguente: più la vita è stata povera, o il suo potenziale sprecato, più forte sarà l’angoscia di morte» (25).

Di fronte alla sofferenza soffusa dell’accidia, il punto su cui focalizzarsi è dunque l’individuazione di un progetto sensato per la propria vita, mettendo al suo servizio il potere di bene che ci è stato affidato. Come rilevava A. Schweitzer: «Quello che tu puoi fare è soltanto una goccia nell’oceano, ma è ciò che da significato alla tua vita».

Note

1) E. Montale, Ossi di seppia, Torino, Einaudi, 1942, 52. Per un approfondimento del tema, cfr G. Cucci, II fascino del male. I vizi capitali, Roma, AdP, 2008, 313 -358.

2) Adamo Scoto Liber de quadripartito exercitìo cellae, XXIV [PL 153, 841-842].

3) Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2006, n. 14.

4) II tema della pigrizia ritorna spesso in questo libro della Bibbia: cfr 6,6-9; 10,26 («Come l’aceto ai denti e il fumo agli occhi, così è il pigro per chi gli affida una missione»); 12,24.27; 13,4; 15,19 («La strada del pigro è come una siepe di spine, il sentiero dei retti è scorrevole»); 19,15: («La pigrizia fa cadere in torpore, e chi è indolente patirà la fame»); 19,24 («II pigro immerge la sua mano nel piatto; ma non è capace di riportarla alla bocca»); 20,4; 24,30-33.

5) G. Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, Fraglia (Pd), Monastero, 1992,1. X, 2

6) «Nel lutto è il mondo che è diventato povero e vuoto; nella melanconia è l’Io stesso. Il paziente ritiene il suo Io indegno, incapace, e moralmente spregevole; si rimprovera, si denigra e si aspetta di essere malvisto e punito» (S. Freud, «Lutto e melanconia», in ID., Opere 1905-1921, Roma, Newton, 2001, 911).

7) Cfr D. Strubber – M. Luck – G. Roth, «Le ragioni della violenza»; L Sabbagh, «Cervelli ribelli», in Mente e cervello 26 (2007) 32-39.44-51. Gli autori riconoscono tuttavia come non si possa da ciò considerare in modo deterministico l’agire; infatti non tutti coloro che presentano alcuni deficit a livello neurologico arrivano a compiere azioni malvagie

8) Cfr Tommaso D’Aquino, s., De malo, q. 11, a. 1, ad 3.

9) Dante, Inferno, III, 64. Cfr C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali, Torino, Einaudi, 2000, 89.

10) Cfr G. Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, cit., 1. X, 1. Cfr Pseudo Rabano Mauro, De vitiis et virtutibus, III [PL 54, 1377-1378]

11) Tommaso D’Aquino, s, De malo, q. 11, a.l; Summa Theol, IIJI, q. 35, a. 1.

12) L’affetto in san Tommaso appartiene alla sensibilità e può facilitare od ostacolare la deliberazione della volontà in ordine al bene da compiersi (cfr Summa Theol, II-II, q. 26, a. 1, ad 2).

13) Cfr Tommaso D’Aquino, S., De malo, q. 11, a. 3, ad 6. Cfr anche II-II, q. 28, a. 1: la gioia è frutto della carità, come amore di Dio.

14) Cfr Id., De malo, q. 10, a. 3. Cfr Summa Theol., I-II, q. 35, a. 1, ad 1; a. 2, ad 3.

15) Cfr Gregorio Magno, s, Commento morale a Giobbe, Roma, Città Nuova, 2001, XXXI, 45, 89.

16) G. Bunge Akedia. Il male oscuro, Magnano (Bi), Qiqajon, 1999, 34.

17) P. Crepet, Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio, Milano, Feltrinelli, 1993, 35. Dati molto simili si trovano in ricerche più recenti (cfr Hardwired to Connect: The New Scientific Case for Authoritative Communities, New York, Institute for American Values, 2003; C. Wallace, «Kids These Days: The Changing State of Childhood», in The Christian Century 122 [2005] n. 6, 26-40), o svolte in altri Paesi, come la Francia (A. Anatrella, Non a la sotiété depressive, Paris, Flammarion, 1993, 249) e l’Italia (C. Buzzi – A. Cavalli – A. De Lillo, Giovani nel nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, il Mulino, 2002; A. Maggiolini, Sballare per crescere?, Milano, FrancoAngeli, 2003, 31).

18) Ivi, 52.

19) S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Milano, Feltrinelli, 1997, 12 s.

20) Cfr. Ignazio Di Lodola, s,  Esercizi Spirituali, n. 318.

21) Tommaso D’Aquino, S., Summa Theol., II-II, q. 35, a. 1, ad 4.

22) Ignazio Di Loyola, S., Esercizi Spirituali, n. 186.

23) E. Bianchi, «Scacco matto all’accidia», in Avvenire, 6 maggio 2007, 3.

24) S. Schimmel, The Seven Deadly Sins, New York, Oxford University Press, 1997,201 s.

25) I. Yalom, Guarire d’amore. I casi esemplari di un grande psicoterapeuta, Milano, Rizzoli, 1990, 132.