La sinistra frena il motore dell’Italia

Il Giornale 12 ottobre 2006

di Giorgio Vittadini
(Presidente Fondazione per la Sussidiarietà)

Leggendo l’infinità di commenti sulla legge finanziaria e sul precedente provvedimento riguardante le liberalizzazioni emergono due italie. Una virtuosa, l’Italia dei dipendenti, soprattutto pubblici; dei lavoratori a tempo indeterminato; dei precari della scuola; degli extracomunitari ingiustamente vessati dal precedente governo e tartassati dalla situazione economica in genere. Fin qui nulla di strano: la sinistra ha sempre fatto dell’equità sociale un suo cavallo di battaglia.

Quello che è strano (o forse no) è che tra i virtuosi sono inseriti: le multinazionali da premiare al di là e prima di ogni considerazione di merito; le banche che si avvantaggeranno dei futuri pagamenti con carte di credito o assegni ai professionisti; le grandi imprese, privilegiate nei provvedimenti a favore della mobilità, previsti nella finanziaria o nei provvedimenti per il cuneo fiscale; le grandi catene internazionali operanti nel mondo legale. Il tutto giustificato in nome della concorrenza.

Poi c’è un’«altra » Italia, quella di coloro che sono continuamente additati all’opinione pubblica come i reprobi: i lavoratori autonomi e gli artigiani, rei di non pagare le tasse; i piccoli imprenditori che, affetti da nanismo imprenditoriale, ostacolano lo sviluppo; il popolo delle partite Iva, considerato nell’insieme un mondo di precariato.

Peccato che questo mondo diffuso di libertà imprenditoriale, continuamente dato per morto, in buona parte continui a manifestare buona salute, crei nuova occupazione, si internazionalizzi, innovi e adotti la partita Iva, in molti casi, non per necessità, ma per una scelta dettata da desiderio di libertà. Il fatto è che invece di distinguere fior da fiore, di far pagare le tasse a chi non le paga, di sostenere chi ha futuro o aiutare a cambiare rotta a chi non ne ha, si adottano criteri ideologici cattocomunismi  che, da una parte fanno diffidare del profitto, dall’altra, soddisfano i calvinisti di casa nostra che sognano di snaturare l’Italia imponendogli modelli che non ci appartengono.

Questa ideologia non riconosce il fatto che lo sviluppo italiano continua ad essere fatto da miriadi di api industriose e le considera come lucignoli scapestrati e confusionari da riportare all’ordine. Peccato che l’ordine che si vorrebbe imporre, quello di una scuola sindacalizzata, burocratica e mediocre,; quello dei debiti e degli scandali della grande impresa, frutto di privatizzazioni e no; quello di un apparato statale inefficiente; quello di un welfare centralistico e di un mercato del lavoro reso di nuovo rigido, faccia acqua da tutte le parti, soprattutto per i poveri.

Perché non rilanciare, come purtroppo non fa tto neanche il precedente governo, uno sviluppo basato sull’intraprendenza della gente, sul capitale mano, sulla sussidiarietà, sull’operosità di tanti, patrimonio indistruttibile del nostro Paese, e ricavare così più risorse anche per aiutare i poveri? E’ un compito innanzitutto dei Bersani – autore di un lodevole provvedimento che riforma la politica per l’innovazione delle Pmi, in controtendenza con l’impostazione generale della Finanziaria – dei Letta, dei Realacci dei Chiti e di tutti quelli che la pensano così anche nell’attuale maggioranza.