La scuola ritrova la severità perduta?

pagella_scuolaIl Popolo” settimanale della diocesi di Tortona
 8 luglio 2008

Don Maurizio Ceriani

La scuola è ormai conclusa anche per quella parte fondamentale di verifica che sono gli esami, ma quest’anno scolastico è terminato in un clima nuovo e positivo di maggior serietà e rigore nella valutazione degli alunni. Certo chi è stato “vittima” dell’impennata di bocciature o della strage di debiti formativi da recuperare durante l’estate, inizialmente, non se ne rallegrerà molto, ma se è un ragazzo serio e riflessivo non mancherà di apprezzare questo ritorno di rigore. Infatti nell’ambito educativo in generale e in quello scolastico in particolare, la serietà si declina necessariamente con la severità, anzi quest’ultima finisce per essere la garanzia della prima.

Chiaramente non si parla di una severità fine a se stessa, ma di quell’atteggiamento di giustizia che deve accompagnare la formazione globale dei giovani. La nostra cultura ha sbandato non poco proprio sul concetto di giustizia, finendo per far coincidere la giustizia, sempre e comunque, con l’imperativo marxista di dare a tutti in modo uguale.

Nella scuola è così entrato il “diritto al sei politico”, l’allergia alla bocciatura – vista non più come possibilità di recupero ma come forma di discriminazione – il livellamento al basso come inevitabile conseguenza di un egualitarismo preconcetto e spesso ideologico.

Giova allora ricordare il concetto, prima aristotelico e poi cristiano, della giustizia come disposizione a dare “a ciascuno il suo secondo la propria misura”, dove la “misura” può essere ora il merito ora il bisogno. Questo, che è il vero concetto di giustizia, è il solo atteggiamento pienamente rispettoso dell’uomo, della sua dignità e della concretezza della sua storia.

Applicato alla scuola fa comprendere come senza l’impegno e la fatica del “lavoro scolastico” non si può avere il risultato della promozione, che non è tanto un diritto inalienabile acquisito per il solo fatto di essersi iscritti, quanto invece l’attestato di impegno e apprendimento reale. Se così non fosse si creerebbe una duplice manchevolezza all’interno del processo educativo.

Innanzitutto si originerebbe la sensazione di una diffusa deroga ai principi, alle norme, alla serietà in genere, che spinge al disimpegno e accresce la convinzione di riuscire sempre a “farla franca”, ad “aggiustarla” in qualche modo, a “metterci una pezza” anche quando non si è fatto il proprio dovere.

È facile capire come su questa strada si giunga rapidamente al fallimento di ogni progetto educativo. E forse molti fenomeni che oggi vanno sotto l’etichetta di “disagio giovanile”, andrebbero invece posti sotto il titolo di “mancata educazione”.

San Paolo ammoniva la prima generazione cristiana col grido: “chi non vuol lavorare neppure mangi”; un principio semplice, fondamentale ed efficace al quale nessuna seria educazione può in alcun modo derogare.

Emerge poi la seconda manchevolezza relativa alla mancata preparazione professionalmente che la scuola deve assicurare. Sotto questa luce la bocciatura non è solo dovuta nell’ordine della giustizia legata al “merito”, ma soprattutto della giustizia legata al “bisogno”.

Detto più semplicemente: mettiamoci nei panni di un ragazzo che ha diverse lacune alla fine di un anno scolastico e che, nonostante questo, viene promosso in forza di quanto esposto precedentemente. Quelle lacune non spariscono per magia, ma si protraggono nel tempo, si accrescono con altre e alla fine sfociano in una mancata preparazione che riceverà la bocciatura ben più pesante e a volte inappellabile del mondo del lavoro.

Ugualmente sia  benvenuto il ritorno degli esami di riparazione, magari inefficaci rispetto all’obiettivo proposto, ma certamente più seri di quei fantomatici corsi di recupero, con cui in poche ore nei primi giorni di settembre ci si illudeva di recuperare i “debiti formativi” di un anno intero.

È inutile nasconderlo, dal momento che tutti siamo stati studenti; dai banchi delle elementari agli scanni universitari e oltre, è assai difficile che qualcuno – compresi i più “secchioni” – studi se non c’è la prospettiva di una verifica, di un esame, di un voto, di una valutazione di qualsiasi genere. In fondo anche questo c’entra in qualche modo col peccato originale, con buona pace di Rousseau e di tutti i cultori del “buon selvaggio”.