La «Provvidenza» in soccorso degli Stati Uniti

presidenti UsaStudi cattolici n. 627 maggio 2013

II cancelliere Bismarck sosteneva che «esiste una particolare Provvidenza divina nei confronti dei matti, dei bambini, degli ubriachi e degli Stati Uniti d’America». Secondo il Dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, due sono i significati del vocabolo «Provvidenza»: 1. «L’azione costante esercitata da Dio sul mondo creato in quanto esplicazione di una infinita saggezza»; 2. «Evento fortunato e imprevisto». Evidentemente, Otto von Bismarck-Schoenhausen intendeva la «Provvidenza divina» nella prima accezione, essendo improbabile che egli ritenesse che responsabile delle fortune degli Stati Uniti d’America fosse semplicemente il caso.

È secondo questa felice e maliziosa indicazione che, in queste pagine, Mauro della Porta Raffo, sempre informatissimo e brillante, esamina alcuni accadimenti di non poco conto nei quali, fino ai nostri giorni, guardando alla Casa Bianca e agli uomini che l’hanno occupata, Dio è senza dubbio intervenuto con particolare benevolenza, facendo scaturire effetti benefici da intrighi, delitti e apparenti colpi di fortuna. Di Mauro della Porta Raffo le Edizioni Ares hanno pubblicato tre libri: I Signori della casa Bianca; Dieci anni di pignolerie; I film della nostra vita.

Mauro della Porta Raffo

1. Morti & successioni «provvidenziali»

William Harrison/John Tyler. Già candidato alla Casa Bianca nel 1836 e battuto nell’occasione da Martin Van Buren, il generale William Harrison, favorito dalla grave crisi economica che aveva colpito il Paese sotto la conseguente presidenza del predetto, vinse facilmente le elezioni del 1840, defenestrando il rivale a sua volta in cerca di una conferma. Per inciso, restano quelle le presidenziali col maggior numero di votanti: almeno il settantotto per cento degli aventi diritto. Eroe di guerra (aveva, tra l’altro, sconfitto a Tippecanoe il celebre capo pellerossa Tecumseh), esponente dei whigs, Harrison contava al momento dell’insediamento – il 4 marzo 1841 – la bellezza di sessantotto anni compiuti, età, per l’epoca e non solo, decisamente avanzata.

Fu proprio in occasione dell’insediamento che si ammalò contraendo una polmonite che lo condusse a morte il successivo 4 aprile 1841. Un mese in carica: finora, la più breve presidenza dell’intera storia americana. Era la prima volta che un capo dello Stato Usa doveva essere sostituito in corso di mandato. Gli subentrò quindi, sia pure con qualche difficoltà e creando un precedente da allora sempre replicato e rispettato in casi consimili, il vice presidente John Tyler, un uomo politico virginiano che aveva lasciato i democratici per aderire ai whigs ai tempi della cosiddetta «crisi abrogazionista», una questione che non riguardava, come potrebbe apparire, lo schiavismo, ma i contrasti tra gli Stati conseguenti a faccende tariffarie e fiscali.

Arrivato inaspettatamente a White House, Tyler si trovò in breve tempo a governare senza l’appoggio di alcun partito. Inviso ai democratici, riuscì a inimicarsi anche i suoi whigs, soprattutto per l’opposizione dichiarata e conclusa negli atti di governo alle idee e ai programmi che da tempo portava avanti il loro riconosciuto leader Henry Clay. Ciò malgrado, a parte il sensazionale colpo di coda col quale si accomiatò da Washington, John Tyler va ricordato per la riorganizzazione della Marina e per la costruzione della prima linea telegrafica che unì la capitale federale e Baltimora. Ma veniamo al dunque, all’atto che consegna il virginiano alla Storia con la esse maiuscola.

Da quasi subito, conquistata l’indipendenza dal Messico nel 1836 (ricordo l’eroica resistenza di Alamo e la vittoria conseguita da Sam Houston sul generale Lopez de Santa Ana a San Iacinto), il Texas aveva richiesto di entrare a far parte degli Stati Uniti. Né Jackson, né Van Buren diedero ascolto a tale istanza preoccupati in primo luogo del fatto che l’immensa Repubblica della Stella Solitaria, posizionata geograficamente come era e schiavista quale si dichiarava, rafforzasse eccessivamente nell’Unione lo schieramento degli Stati appunto schiavisti. Respinto, il Texas si diede da fare per valorizzare la propria indipendenza, ottenne vari riconoscimenti intemazionali e, in particolare, instaurò ottimi rapporti con l’Inghilterra che lo riteneva una possibile futura spina nel fianco degli Usa.

Ed ecco dove e come l’espansionista John Tyler si dimostra sull’argomento l’uomo giusto, al momento giusto, al posto giusto, agendo contro tutto e tutti come, con quasi assoluta certezza, il conservatore William Harrison, che in campagna elettorale aveva dichiarato che se avesse prevalso avrebbe guardato all’amministrazione lasciando al Congresso ogni altra iniziativa, non sarebbe stato in grado di fare. Dopo un primo tentativo andato a vuoto (il segretario di Stato Abel Upshur, incaricato nel 1843 delle trattative, era morto nel febbraio 1844 a seguito dell’esplosione di un cannone a bordo di una nave da guerra), le due parti conclusero un trattato che, ai sensi del dettato costituzionale americano, fu presentato per l’approvazione al Senato. Improvvidamente, assai improvvidamente, nel mentre, il nuovo ministro degli esteri John C. Calhoun, in una nota destinata ai britannici, difendeva a spada tratta lo schiavismo, rinfocolando così la vecchia opposizione in proposito al Texas.

E in effetti, per conseguenza, il Senato bocciò il trattato con trentacinque voti contro sedici. Mai domo, approfittando della sia pure risicata vittoria (fu decisivo lo Stato del New York che si schierò per il democratico e deluse l’eterno candidato whig Clay) nel 1844 dell’espansionista James Folk, affermando che il Paese, eleggendo l’uomo del Tennessee, aveva confermato di volere che i texani entrassero a far parte degli Usa, Tyler, forzando a detta di molti addirittura la Costituzione, impose che il famoso trattato fosse messo ai voti con una risoluzione congiunta davanti alle Camere, non solo, quindi, al Senato. Approvata dalla Camera con centoventi suffragi contro novantotto e dal Senato con ventisette contro venticinque, la risoluzione fu firmata dal festante Tyler l’1 marzo 1845. Due giorni dopo sarebbe scaduto il mandato che gli era toccato in sorte.

N.B. Fino al 1933, primo insediamento di Franklin Delano Roosevelt, il mandato quadriennale aveva inizio alle ore 00,00 del 4 marzo dell’anno successivo a quello elettorale. Di conseguenza, il quadriennio precedente si chiudeva alle ore 24,00 del 3 marzo. Dal 1937, secondo insediamento del predetto Roosevelt, a seguito dell’adozione di un emendamento costituzionale, la cerimonia si svolge alle ore 12 del 20 gennaio sempre dell’anno successivo a quello elettorale.

John Fitzgerald Kennedy/Lyndon B. Johnson. «Ancora nel marzo 1963, un Martin Luther King molto deluso accusava Kennedy di essersi accontentato di un progresso fittizio nelle questioni razziali». L’ha scritto Maldwyn Jones nella sua imperdibile Storia degli Stati Uniti, e non v’è storico che non possa in materia concordare, come non v’è serio studioso che, esaminando gli atti compiuti e le decisioni prese da Kennedy a White House, non concluda giudicando negativamente l’intero mandato, anche guardando alla politica estera, particolarmente incoerente, ricca di balordaggini e di errori macroscopici.

Si pensi alla tragica «Spedizione della Baia dei Porci» – approvata, voluta e realizzata malissimo da Kennedy, anche se ideata dall’amministrazione Eisenhower – nonché all’assassinio di Ngo Dinh Diem, cui Kennedy non si oppose e che anzi incoraggiò, e ancora ai contrasti acuiti con l’Urss che, proprio in previsione di una programmata visita di Kennedy nella città, nel 1961 fece costruire il Muro di Berlino, al coinvolgimento nella Guerra del Vietnam laddove inviò diecimila «osservatori» in verità combattenti, al forte riarmo militare voluto da Kennedy, al cedimento mascherato in occasione della «Crisi di Cuba» del 1962, eccetera. Sostanzialmente, ripensando alle promesse elettorali del 1960, una grande delusione.

Dell’immaginifico e coinvolgente programma denominato Nuova frontiera, un gran numero di punti (per esempio, in politica interna, l’assicurazione contro le malattie per gli anziani, il contributo federale per l’istruzione, la creazione di un ministero per lo sviluppo del territorio) non videro la luce per l’opposizione del Congresso nel quale i suoi democratici avevano comunque la maggioranza. Dimostrazione del fatto che, in specie per quel che concerne i problemi razziali e sociali, Kennedy non aveva nessuna reale presa e non sapeva, né voleva imporre i propri desiderata, per evitare contrapposizioni troppo palesi.

Kennedy, nell’autunno del 1963 era a un punto morto, anche per avere sostanzialmente perso nel novembre 1962 le Mid Term Elections (i democratici cedettero molti seggi ma riuscirono a mantenere la maggioranza congressuale). Il suo assassinio – Kennedy non era certamente il primo presidente Usa a essere ucciso, ma nessuno prima di lui era morto in un’era televisiva la qual cosa permise a tutto il mondo di partecipare e di emozionarsi – lo salvò elevandolo, d’un sol colpo, al Paradiso riservato ai «Grandi». E non poteva succedergli persona e uomo politico più diverso.

Un uomo migliore dal punto di vista comportamentale (Kennedy, non dimentichiamolo, usava le donne come fossero oggetti), un grande esperto della vita parlamentare in grado di coinvolgere il Congresso e di convincerlo a votare seguendo le sue direttive. Si tratta di un grandissimo presidente originario del Texas, eccezionale in particolare per la politica interna: Lyndon B. Johnson.

Ecco il brano che gli ho dedicato e che si può leggere nel saggio White House 2012. Obama again: «Subentrato il 22 novembre 1963, il texano utilizzò alla grande l’anno di presidenza antecedente le elezioni del successivo 1964 ottenendo dal Parlamento l’approvazione a tamburo battente di provvedimenti decisivi in materia di diritti civili e in specie di lotta alla segregazione razziale, riducendo per la prima volta in trent’anni le tasse, volendo una normativa a proposito dei trasporti di massa e una legge sull’istruzione universitaria. Infine, proponendo al Paese “una guerra totale contro la povertà”. «Per quanto significative risultassero tali misure, Johnson le vedeva come primi passi in vista di quella che avrebbe dovuto essere “la Grande Società”, un’America nella quale regnassero abbondanza e libertà per tutti.

«A contrastare l’impeto johnsoniano, il Gop, nel predetto 1964, chiamò il senatore Barry Goldwater – rivalutato negli ultimi tempi per quella che oggi viene ritenuta la sua “purezza ideologica” repubblicana – che perse nettamente conquistando solo sei Stati, cinque dei quali nel Sud fino ad allora democratico, conservatore e segregazionista.

«Il secondo mandato del successore di Kennedy fu ancora più travolgente: Medicare Act e Medicata Act per fornire ai vecchi e ai poveri l’assicurazione sociale per le cure mediche, due profondi interventi tesi a migliorare la pubblica istruzione a ogni livello, leggi a favore della reale estensione a tutti e in primo luogo ai neri del diritto di voto fino ad allora fortemente condizionato da lacciuoli di vario genere, perfino un Immigration Act che eliminava il sistema discriminatorio basato sull’origine nazionale in vigore dagli anni Venti.

«Johnson, nella realizzazione della sua “Grande Società”, fece inoltre approvare leggi per il miglioramento delle autostrade, contro l’inquinamento dell’aria e dell’acqua e un ambizioso programma urbanistico che voleva arrivare addirittura all’eliminazione degli slums. È, quindi, da questo momento, dopo un tale uragano, che, sia pure non di colpo, la geopolitica americana muta radicalmente.

«Da allora, gli Stati della costa pacifica e quelli settentrionali dell’atlantica a ogni elezione si colorano abitualmente di azzurro (Blue States), il colore dei democratici. Quelli del Sud e di buona parte del Midwest diventano rossi (Red States) essendo appunto il rosso il colore repubblicano. Swing, e cioè indecisi, gli altri i cui spostamenti – tranne casi straordinari (la seconda volta di Reagan per esempio) determinano l’esito».

N.B. Per inciso, una domanda: come mai nella comune visione, nell’immaginario popolare il pericoloso — si guardi agli esiti della sua politica estera e al riarmo che volle – parolaio John Kennedy, del tutto inconcludente quanto alla politica interna, è considerato un grande nel mentre Lyndon Johnson viene trascurato, quando gli va bene, se non denigrato con tutto quel che ha fatto? In verità, l’assassinio di Kennedy a Dallas fu, guardando alle conseguenze e per l’eterogenesi dei fini, una vera manna per gli Stati Uniti.

2. Una staffetta alla vicepresidenza

Appartengono a Franklin Delano Roosevelt due imbattibili record. Il primo in tema di elezioni presidenziali vinte, quattro. Il secondo in merito agli anni di permanenza a White House, oltre dodici, dal 4 marzo 1933 al 12 aprile 1945. Infatti, a seguito dell’approvazione, nel 1951, di un emendamento costituzionale in larga parte conseguente alla sua anomala avventura — nessuno, in precedenza, si era candidato per un terzo mandato e Franklin Delano l’aveva fatto addirittura in una quarta occasione — i mandati possibili ormai sono due e non di più, salvo il caso di un vice presidente subentrato nel secondo biennio del mandato del titolare e quindi autorizzato a proporsi ed essere eletto in prima persona per due quadrienni per un totale di anni non mai superiore a nove, undici mesi e spiccioli.

Roosevelt, inoltre – primato teoricamente eguagliabile o superabile – è l’unico candidato alla vicepresidenza sconfitto (nel 1920 a fianco di James Cox) ad avere raggiunto successivamente in prima persona la Casa Bianca.

È, infine – record superabile anch’esso, ma occorrerebbe una moria di vice – l’inquilino di White House che abbia avuto il maggior numero di vice presidenti, tre. Dal 4 marzo 1933 al 20 gennaio 1941, fu al suo fianco John Agard Garner, il cosiddetto «vecchio Cactus Jack», uomo politico di grande esperienza. Suo rivale nelle primarie del 1932, ostico oppositore alla successiva convention dello stesso anno, lo aveva alfine appoggiato in cambio dello scranno vice presidenziale permettendone la nomination.

Ritiratosi Garner (per inciso, visse fino ad arrivare vicinissimo ai novantanove anni), nella tornata elettorale del 1940, e per conseguenza nel quadriennio 20 gennaio 1941/20 gennaio 1945, con Roosevelt corse, vinse e fu in carica Henry Wallace. Noto anche in Italia – Benito Mussolini aveva fatto tradurre e pubblicare alcune sue opere teoriche che riteneva dessero supporto alle idee corporative del fascismo – il nuovo vice era e si confermò decisamente un radicale troppo «a sinistra», in specie con riferimento ai rapporti Usa/Urss che desiderava fossero assai più amichevoli, dannatamente attivo e indipendente. In ragione di ciò, F.D. chiese al partito democratico di essere affiancato nella campagna del 1944 da qualcuno che fosse abituato a stare nell’ombra, che, insomma, se ne stesse buono, buono senza disturbare il manovratore. La scelta cadde su Harry Truman.

Tre mesi scarsi dopo l’insediamento, esattamente il 12 aprile 1945, il secondo Roosevelt passava a miglior vita e l’insignificante (se ne accorgeranno!) senatore del Missouri si sedeva sullo scranne presidenziale.

Per cominciare a capire chi fosse davvero il missouriano, sarà opportuno rammentare che, da pochi giorni vice (si era a fine gennaio), aveva partecipato nella sua terra, piangendo calde lacrime, ai funerali del locale boss politico democratico Toni Pendergast, colui che con metodi mafiosi, ricatti e omicidi governava la vita amministrativa dello Stato da decenni e al quale doveva tutta la sua carriera.

Non gli faceva difetto, quindi, il coraggio. Era capace di rivendicare origini e amicizie mettendo tranquillamente a rischio la propria credibilità. E, d’altra parte, l’affetto e l’ammirazione per Pendergast li dimostrò ancora allorquando, incontrato Stalin alla Conferenza di Potsdam, commosso, riferì agli amici: «Mi ha ricordato il boss».

Ma, allora, chi era Harry Truman? Riporto al riguardo il ritratto che ne feci anni orsono e che ho raccolto nel saggio Americana: «Nato a Lamar l’8 maggio 1884, dopo una giovinezza trascorsa nell’esercizio dei più diversi mestieri, per la prima volta si distinse nel 1916 fallendo miseramente nel tentativo di sfruttare una concessione petrolifera nel Kansas. Partito per il fronte europeo con il grado di capitano di artiglieria (questi i reali trascorsi militari al di là di quelli in seguito sbandierati), arrivò in prima linea dieci minuti prima dell’armistizio dell’11 novembre 1918 e fece in tempo a tirare una sola salva di cannone.

«Reduce, si dedicò al commercio e nel 1922 fallì nuovamente, questa volta nella veste di proprietario di un negozio di camicie e cravatte, per la bella somma di venticinquemila dollari dell’epoca. Mai fallimento fu più fortunato! Più vicino ai quarant’anni che ai trenta, decise di buttarsi in politica tra le fila democratiche e si legò anima e corpo al boss locale Tom Pendergast che “governava” da oltre vent’anni Kansas City e il Missouri con metodi spietati e gangsteristici. Fu Pendergast a designare Truman come giudice e come agente elettorale della Jackson County.

Dopo dodici anni di “onorato” servizio nella terra natia, il futuro presidente fu spedito, ancora una volta da Pendergast, al Senato di Washington con una maggioranza di ben quattrocentomila voti e la consegna di “tenere la bocca chiusa fino a che avesse imparato le astuzie del mestiere e di rispondere alla corrispondenza”. «Era il 1934 e lo scandalo conseguente alla sua elezione ebbe vasta eco nel Paese, tanto che l’appellativo protocollare “The gentleman from Missouri”, nel suo caso si trasformò in “The gentleman from Pendergast”.

«Confermato al Senato nel 1940, sia pure a fatica, il missouriano – il cui altro carattere distintivo era l’assoluta mancanza di cultura (aveva seguito a fatica alcuni corsi serali della scuola di diritto di Kansas City), tanto che Bernard Baruch lo definì “incolto e grossolano” — una volta arrivato assolutamente per caso e come già accennato a White House, incredibilmente, si rivelò un ottimo presidente, dotato di una fin allora ben nascosta capacità decisionale e di grande fiuto politico.

«L’uomo che, come già detto, ancora il 28 gennaio del 1945, da vice presidente in carica, non aveva mancato di partecipare, piangente, al funerale del suo boss, in quello stesso anno ordinò il lancio delle atomiche su Hiroshima e su Nagasaki, ponendo cinicamente fine al secondo conflitto mondiale nel Pacifico.

«Sempre lui, nel 1947 (con la “dottrina” che prese il suo nome) decise l’abbandono da parte degli Stati Uniti della tradizionale politica di non intervento nelle questioni europee, promettendo, in piena guerra fredda, che gli Usa “avrebbero appoggiato i popoli liberi che stanno resistendo ai tentativi di assoggettamento da parte di minoranze armate o di pressioni esterne”.

«Ancora lui, diede il via al Piano Marshall di assistenza economica all’Europa devastata dalla guerra (Marshall era il suo segretario di Stato). Nel 1948, poi, pose fine drasticamente alla segregazione razziale nell’esercito e nelle scuole finanziate dal governo federale e si guadagnò, malgrado tutti i sondaggi negativi e i primi risultati della costa atlantica a lui contrari, una magnifica rielezione. «Promotore, nel 1949, della Nato, coinvolse successivamente il Paese nella guerra di Corea. Nel pieno del sostegno popolare, rinunciò nel 1952 a un possibile terzo mandato ritirandosi, come voleva sua moglie Bess, a vita privata.

«Assolutamente contrario al successore designato dai “suoi” democratici, Adlai Stevenson, gli diede comunque una mano nella campagna contro il repubblicano Eisenhower. Fu l’ultima volta che il vecchio e caro “treno elettorale” percorse il Paese. La sconfitta di Stevenson sarebbe stata ben più rovinosa senza il suo tardivo intervento. Truman morirà a Kansas City il 26 dicembre 1972, a ottantotto anni compiuti, lasciando nel lutto un’intera nazione». Chapeau!

N.B. «The buck stop here». Nel West, nei saloon e sui battelli fluviali, i giocatori di poker alfine di ricordare a chi toccasse dare le carte si passavano l’uno dopo l’altro una pelle di daino. Tale pelle venne gergalmente chiamata «buck» e «the buck stops here» fu espressione usata per indicare appunto a chi toccasse fare il mazzo e quindi comandare. Truman aveva collocato nella stanza ovale di White House sulla scrivania un cartello che riportava la frase a far intendere che le decisioni, tutte le decisioni, le doveva prendere lui e non spettavano ad altri. Niente male per uno yes man quale per lunghissimi anni era stato!

3. Due peripezie elettorali

Thomas Jefferson. 1927, Monte Rushmore, South Dakota. L’artista di origini danesi Gutzon Borglum, aiutato dal mastro carpentiere italiano Luigi Del Bianco, inizia a scolpire le teste di quattro presidenti. L’opera verrà portata avanti dai due fino al 1941, quando lo scultore muore, e sarà condotta a termine dal di lui figlio Lincoln.

I capi dello Stato Usa scelti e raffigurati sono George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt. Washington perché Padre della Patria, Jefferson in quanto modello di comportamento per tutti i futuri inquilini di White House, Lincoln in ragione della sua capacità di difendere e portare al successo gli ideali, il primo Roosevelt per l’impeto di modernità e progresso trasmesso al Paese.

Si tratta, evidentemente — e con la sola possibile, anche se discutibile, aggiunta negli anni a noi più vicini di presidenti quali il secondo Roosevelt, Harry Truman, Lyndon Johnson e Ronald Reagan – di un quartetto di uomini politici del tutto straordinari. Ora, nel mentre le due elezioni di Washington furono praticamente senza oppositori e lasciando da parte la vicenda legata a Theodore che tratterò a breve, vale senza dubbio la pena di riferire come e in qual modo la «Provvidenza» alla quale Bismarck fa riferimento abbia profondamente operato per favorire l’insediamento alla dimora presidenziale di Jefferson e di Lincoln.

Il primo fu coinvolto in una serie infinita di ballottaggi dai quali uscì malconcio ma vincitore; il secondo vinse perdendo nettamente in termini di voti popolari ma prevalendo in numero di delegati.

N.B. Non scrivo nell’occasione tout court «alla Casa Bianca» perché ai tempi di Jefferson la sede del capo dello Stato non si denominava in cotal modo. Sarà chiamata White House solo dopo essere stata ricostruita, essendo la prima dimora presidenziale andata a fuoco nell’estate del 1814 allorquando le truppe inglesi, nel corso della cosiddetta Guerra del 1812, che come si vede durò ben oltre l’anno che le diede nome, conquistarono la città di Washington.

Già vice di John Adams tra il 1797 e il 1801, il virginiano Thomas Jefferson si candidò nuovamente alla presidenza nel 1800. Contro di lui, un largo schieramento: il collega repubblicano democratico Aaron Burr, il presidente uscente John Adams, federalista, l’altro federalista Charles C. Pinckney e ancora John Jay.

All’epoca e fino all’adozione dell’emendamento costituzionale del 1804, adottato proprio a seguito di quanto occorso nelle votazioni delle quali stiamo parlando, i candidati correvano tutti per la massima carica. Il primo classificato conquistava lo scranno spettante al capo dello Stato, il secondo diventava vice presidente anche se appartenente a un diverso partito essendo quindi possibile, in caso di decesso o di dimissioni del titolare, la successione di un esponente di differente se non opposta collocazione politica.

Effettuati i conteggi dei delegati spettanti ai singoli candidati, Jefferson e Burr si trovarono primi alla pari con settantaquattro grandi elettori a testa. Secondo il disposto costituzionale allora in vigore, la scelta tra loro spettava alla Camera dei Rappresentanti. Nella circostanza, non contavano i singoli parlamentari ma il voto Stato per Stato. Trattative, condizionamenti, ricatti, manifestazioni… nulla di tutto questo servì per la bellezza di trentacinque votazioni a superare l’impasse. La questione fu risolta a favore di Jefferson — che arrivò pertanto per vero miracolo alla presidenza – a 1801 inoltrato al trentaseiesimo ballottaggio.

Determinante l’appoggio che gli portò l’ex ministro, ma ancora influentissimo leader, Alexander Hamilton, il quale di certo non lo apprezzava politicamente, ma ancor meno desiderava vedere ai vertici dello Stato Burr che avversava inoltre sul piano professionale e considerava un poco di buono. L’11 luglio del successivo 1804, i nodi tra Burr e Hamilton vennero al pettine e in un duello alla pistola il primo – vice presidente in carica, si badi bene – ferì a morte il secondo.

Abraham Lincoln. Nel saggio White House 2012 Obama again ho scritto: «Ed eccoci alle presidenziali del 1860, anno nel quale i repubblicani conquistano per la prima volta la Casa Bianca per non lasciarla (salvo la strana successione a Lincoln di Andrew Johnson — un democratico vice di un repubblicano, frutto della Guerra di Secessione in corso durante le elezioni del 1864 – e i due quadrienni non consecutivi di Grover Cleveland) addirittura fino al 1913, quando a William Taft subentra Woodrow Wilson, vittorioso alle urne nell’anno precedente.

«Divisi – i sostenitori del presidente in carica, James Buchanan, avversavano l’accreditato senatore Stephen Douglas accusato di avere posizioni addirittura filo repubblicane su molte questioni — i democratici tennero in aprile una prima convention a Charleston. Lungi dal raggiungere un accordo, le due parti si combatterono al punto che la kermesse ebbe a chiudersi con un nulla di fatto.

«Ritrovatisi i delegati a Baltimora, a giugno, i contrasti divennero insanabili e molti abbandonarono definitivamente i lavori. Nominato dai superstiti, Douglas si dovette scontrare nella successiva campagna non solo, come ovvio, col rivale repubblicano, ma anche con un altro democratico, dato che i fuorusciti si radunarono per indicare nell’allora vice presidente John Breckinridge il loro vessillifero.

Nella confusione, nacque allora anche un terzo partito, l’Unione costituzionale, che decise di mettere in corsa John Bell. «I repubblicani, per parte loro, nella convention di Chicago di metà maggio, ritenendo Douglas il probabile avversario, al terzo scrutinio optarono per Abraham Lincoln che nella campagna per il Senato del 1858 si era già contrapposto con grande efficacia, sia pur soccombendo, al rivale in pectore.

«Frammentati i voti democratici divisi tra Douglas e Breckinridge, degna di menzione anche la prestazione di Bell, Lincoln vinse in quel novembre conquistando centoottanta delegati sui trecentotre in palio. Il voto popolare lo vedeva invece soccombente, a fronte del totale dei suffragi raccolti dai rivali, per all’incirca un milione voti».

4. Theodore Roosevelt i «costretto» a White House

Reduce dalla vittoriosa – e per lui gloriosissima, tanto eroicamente si era comportato — missione bellica americana a Cuba, nel 1898 Theodore Roosevelt fu trionfalmente eletto governatore dello Stato di New York. Geniale riformatore, buon liberale e onest’uomo, il Nostro si trovò subito in difficoltà nel nuovo incarico visto che di tutt’altro avviso politico e ideologico era l’allora boss repubblicano della futura (verrà così chiamata nei successivi anni Venti/Trenta) «Grande Mela», Tom Platt, il quale non desiderava di certo che qualche «maledetto progressista» gli venisse a rovinare gli affari.

Ecco, quindi, che per allontanare Theodore dalla città e dallo Stato, i capi partito repubblicani nel successivo 1900 in qualche modo lo obbligarono ad accettare la candidatura alla vice presidenza a fianco di William McKinley, la cui rielezione novembrina era più che sicura.

Mai una carriera altrettanto promettente era finita con uguale rapidità: dalla fama nazionale al quasi oblio (il vice presidente in America, tranne casi rarissimi, era all’epoca, e in parte ancora è, figura decisamente «minore» con un peso politico vicino allo zero) in meno di due anni. Rassegnato a svolgere misere funzioni di rappresentanza, trascorsi poco più di sei mesi dall’insediamento, ecco che un Roosevelt che possiamo immaginare assai deluso, a seguito dell’assassinio di McKinley, d’improvviso, a soli quarantadue anni, è catapultato alla Casa Bianca.

N.B. Per inciso, l’uomo scopre solo a posteriori la vera portata degli accadimenti che lo riguardano, ragione per la quale, al momento dei fatti e comunque questi si appalesino, è assolutamente illogico e segno di insipienza esultare (poco male, comunque) e, soprattutto, onde evitare ogni possibile negativo e a volte non rimediabile atto, disperarsi.

Sarà un grande presidente progressista e, fra l’altro, il vero padre dell’ambientalismo. Riformatore, diede della carica una nuova e trascinante interpretazione (il miliardario e senatore Mark Hanna lo definì «Quel dannato cow boy») agendo in tutti i campi, dappoiché riteneva che fosse diritto e dovere del capo dello Stato interessarsi di ogni problema o questione.

Impegnato sul piano interno a combattere i trusts privati proteggendo gli interessi dell’uomo comune e a contrastare l’eccessiva burocrazia, in politica estera propose l’immagine di un’America forte e sicura mostrando a tutti anche un qualche grado di aggressività (la «politica del bastone», o del big stick), la qual cosa non gli impedì di ottenere il Premio Nobel per la Pace nel 1906.

4Attivo e non poco in America Latina, fece costruire il Canale di Panama. Lasciata l’incombenza a William Taft, ritenne di poter tornare in sella riproponendosi nelle elezioni del 1912. Perse con il miglior risultato mai conseguito da un candidato di un terzo partito, ma questa è un’altra storia.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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– Pier Giorgio Lucifredi, Appunti di diritto costituzionale comparato, vol. III Il sistema statunitense, Giuffrè.
– Mauro della Porta Raffo, Americana, Legatoria Carravetta.
– Mauro della Porta Raffo, White House 2012 Obama again, Legatoria Carravetta.