La presenza islamica in Italia. Fatti e problemi

Relazione

di Giovanni Cantoni

svolta nel corso dell’incontro che si è tenuto presso l’Hotel Continental di Tirrenia (PI)

venerdì 5 ottobre 2001

organizzato dal Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa

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Introduzione del sig. Stefano Carrai vice presidente della Circoscrizione 1

Prima di iniziare questo incontro col sig. Cantoni, voglio chiarire che questa Circoscrizione ha preso contatti per questa serata ben prima dei tragici fatti americani. Il fine che ciproponevamo era la conoscenza dell’islam, che ci sembrava passasse stranamente sotto silenzio, soprattutto alla luce di una sempre maggiore presenza islamica nel nostro paese. Ora, purtroppo, le cose sono cambiate e la questione afghana, semisconosciuta alla maggioranza dei nostri media, adesso riempie le loro pagine.

C’è ancora latitanza su problematiche simili in Pakistan, Siria, Sudan, Filippine, ma con la costituzione della grande alleanza contro il terrorismo i paesi suddetti cercano forse di rifarsi una verginità. Ma, nonostante questo grande interesse per l’islam, le domande rimangono sempre le stesse. Cos’è l’islam, quali sono le problematiche di una convivenza con esso in Occidente.Il sig. Cantoni ci aiuterà a rispondere a queste domande. Cantoni è nato a Piacenza, è fondatore e reggente nazionale di Alleanza Cattolica, ha promosso la casa editrice Cristianità e dirige l’omonima rivista bimestrale.

Studioso di filosofia, di teologia e di dottrina sociale della Chiesa, è autore di saggi e di varie pubblicazioni. Tra gli scopi dell’associazione che dirige vi è la diffusione della dottrina sociale della Chiesa e da alcuni anni Cantoni si è interessato di aspetti analoghi nell’islam: cioè come è organizzata la società islamica. Dato di particolare importanza in quanto la maggior parte degli immigrati extracomunitari nel nostro paese sono di religione islamica. Un’esigenza importante, quindi, la conoscenza degli usi e dei modi in cui è organizzata la società dalla quale queste persone provengono.

Giovanni Cantoni, su questi temi, non ultimo quello della libertà religiosa, ha scritto recentemente un libro — Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della «vulgata» «islamicamente corretta», Centro Studi sulla Cooperazione «A. Cammarata», San Cataldo, Caltanissetta, 2000) — che è disponibile per quanti fossero interessati e che apre ampi squarci su argomenti di cui in genere non si parla mai. Stasera si soffermerà sui riflessi nazionali della presenza islamica e sui problemi di convivenza quotidiana che coinvolgono tutti.

Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza Cattolica, direttore della rivista Cristianità.

La ringrazio per le parole che ha detto, ma vorrei fare una premessa, anche se tutto quello che vi dirò ha natura di premessa. Non risolverò nessun problema; quello che mi sforzerò di fare, che è conforme alla mia natura e alla natura dell’organizzazione che è stata evocata e con la quale mi identifico totalmente, è precisamente questo: sottoporre, o tentare di aiutare il prossimo, noi stessi anzitutto, a inquadrare in qualche modo dei problemi. Riesce sempre faticoso tentare di farsi capire e di far capire quello che si è capito.

Ma se questo mi capita sempre, oggi mi capita ancora di più.Comincerò con un pensiero con il quale mi copro, con il quale vengo a descrivervi il mio stato d’animo, un pensierino latino di un letterato, di un pensatore, di un uomo politico, di Seneca, che dice: «curae leves loquuntur, ingentes stupent», «i problemi piccoli fan chiacchierare, i problemi grandi lasciano a bocca aperta». Io dovrei stare a bocca aperta, ma, siccome voi siete qui per ascoltarmi, vedrò di dire qualche cosa; però abbiate ben chiaro che quello che mi sforzerò di dirvi è riempire questa bocca aperta, questo stupore, questa condizione di fronte a cose veramente più grandi di noi, che ci lasciano a bocca aperta.

Sono successe cose enormi. Le immagini che ho davanti agli occhi mi hanno fatto l’impressione della réclame di un film catastrofico. Non era, tragicamente, la réclame di un film, ma un fatto. Come ha detto il mio presentatore, eravamo già d’accordo molto tempo prima di questo avvenimento. Che cosa aggiungere dal punto di vista delle considerazioni che vi volevo fare?

Niente. L’unica cosa che mi sembra di rilievo è che le considerazioni che vi farò cadranno su un terreno lavorato. Non ho nessuna intenzione di mutare la struttura delle mie considerazioni, che gli organizzatori hanno voluto titolare come io ho suggerito: La presenza islamica in Italia. Fatti e problemi. Voglio inquadrare questo problema all’interno di una condizione storica, sociologica, anzitutto demografica, perché questo è di qualche rilievo. Allo scopo vi leggo un brandello di un intervento che ormai ha sedici anni: è stato fatto l’11 ottobre 1985.

Il Pontefice, Papa Giovanni Paolo II, teneva un discorso ai partecipanti al VI Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa e diceva: «La denatalità e la senescenza demografica non si possono ormai più ignorare o ritenere come una soluzione al problema della disoccupazione.

La popolazione europea, che nel 1960 costituiva il 25 % della popolazione mondiale, se dovesse continuare l’attuale tendenza demografica, scenderebbe, alla metà del prossimo secolo, al livello del 5%. Sono cifre che hanno indotto qualche responsabile europeo a parlare di un “suicidio demografico” dell’Europa. — Il termine è mutuato da un discorso di Jacques Delors, che ha usato precisamente questa espressione: «suicidio demografico» —.

«Se questa involuzione costituisce una fonte di preoccupazione, per noi lo è soprattutto perché, osservata in profondità, essa appare come il grave sintomo di una perdita di volontà di vita e di prospettive aperte sul futuro e ancor più di una profonda alienazione spirituale. Per questo non dobbiamo stancarci di dire e di ripetere all’Europa: ritrova te stessa! Ritrova la tua anima!».

Il Pontefice non fa il demografo, ma si serve d’informazioni. Quando parla di qualche cosa fa considerazioni di carattere morale e/o spirituale su fatti che gli vengono presentati. Cosa dice il Papa: se va avanti così finisce in un certo modo, che non è entusiasmante non perché il Pontefice sia cointeressato alla vendita di culle, ma perché si rende conto che esistono dati, una visione del mondo, valori che, se non hanno portatori, smettono di esistere.

È di un’ovvietà terrificante. Se tizio non continua a ripetere che crede in una determinata cosa, questa cosa è destinata a finire in biblioteca. Nelle biblioteche si possono trovare buone cose, ma possono diventare, come i musei, anche cimiteri. Io voglio prendere la lezione fattuale e per assumere questa lezione fattuale mi sono rivolto al nostro Istituto Nazionale di Statistica, l’ISTAT, per avere previsioni sul nostro futuro demografico. I dati sono stati raccolti 5 anni fa, ma sono ancora attuali.

I dati demografici sono costruiti su una categoria che non coincide con la nostra nozione corrente: è quella di generazione, che per il demografo copre un arco temporale di trent’anni. Il demografo, quindi, parla in termini di generazioni e quando parla dei prossimi trent’anni e fino a sessanta, descrive un orizzonte altamente verosimile.

Nel 1996 la popolazione italiana era grosso modo attorno — le cifre demografiche sono suscettibili di una variazione in più o in meno del 20 % si legge in una piccola nota nell’Enciclopedia Britannica — a 57 milioni. Nel 2020 è prevedibile un’ipotesi di una diminuzione di 4,5 milioni, nel 2050 — cioè nell’arco di due generazioni — l’ipotesi dice 19 milioni. Ci rendiamo conto che non è semplicemente un quadro di fruizione. Nel 2050 saremo in meno attorno al tavolo, si, ma con il mento che batte sulle ginocchia, una piramide generazionale rovesciata. Prendiamone atto.

Lo dico sempre ai miei amici uomini politici. Vi sono due tipi di uomini che s’interessano delle cose comuni: gli amministratori, che non disprezzo minimamente, che gestiscono l’esistente; e gli uomini politici, che gestiscono il prevedibile, che guardano di là dal proprio naso. Serve questa considerazione del futuro che non è semplicemente un futuro coeteris paribus: ovvero, io fra trent’anni avrò l’età che ho adesso.

Non è vero. La società è una realtà che abbisogna di essere continuamente rinnovata, tutte le mattine, tutte le sere. Se poi passiamo a considerare non tutta la popolazione, neonati compresi, ma la popolazione in età lavorativa che nel 1996 è di quasi 36 milioni, per il 2050 ci troviamo di fronte a un popolazione ridotta di 16 milioni. L’esperto ci dice che il quadro è tutt’altro che entusiasmante. Risultato: quello che noi consuetamente siamo abituati a considerare come un fenomeno altrui che ci turba, l’immigrazione, va rovesciato completamente. Noi stiamo creando un vuoto che viene riempito da questi signori che vengono nel nostro paese.

Mi piace leggervi, da un’operetta molto ben fatta di Guido Bolaffi — dirigente generale dello Stato, nel 1993 capo del Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal 1996 al 2000 capo di gabinetto del ministro per la Solidarietà Sociale —, I confini del patto. Il governo dell’immigrazione in Italia, il titolo di un capitoletto: L’economia li vuole, la società no.

Non è uno slogan, è una frase molto assennata che descrive correttamente una situazione. Arrivano persone da fuori; noi, inorgogliti per la nostra condizione di potenti o ricchi, non si sa per quanto, pensiamo: «Gli straccioni vengono a casa nostra». Attenzione, i termini del problema non sono questi: vengono a riempire vuoti demografici oggettivi. Non mi soffermerò minimamente a cercare i responsabili. Mi limiterò a notare come le cose non siano andate come ci facevano credere parlando di imminente esplosione demografica. Di fronte a questa situazione mi sono guardato attorno e ho cominciato a fare un poco di esame dei soggetti che arrivano da noi.

Vi leggo una descrizione della situazione italiana e poi vi dico la data: «Da qualche anno, gradatamente, si è verificato un afflusso inatteso di stranieri. Questa ondata… è costituita da studenti, da domestici, da mano d’opera non specializzata, da venditori ambulanti, da stagionali e cosi via». È una sequenza logica, non a ruota libera, ma la sequenza che ha visto, a metà degli anni 1960, questo cambiamento: una nazione, l’Italia, esportatrice di manodopera, diventare lentamente o meno lentamente, una nazione importatrice di manodopera.

«Vengono da altri paesi mediterranei…, dall’Africa Centrale, dall’Asia, dall’America Latina. Il loro status è incerto e marginale, talora illegale. Il loro numero è sempre in aumento… si avanza l’ipotesi, generalmente, di un minimo di 300.000 unità e di un massimo di 700.000. Una tale presenza, concentrata nelle grandi città, può solo provocare tutta una serie di problemi dolorosi, che vanno dalla miseria e dallo sfruttamento alla criminalità e al razzismo».

Questo è il testo di un documento sulla situazione italiana redatto nel 1982, vent’anni fa, dalla Commissione demografica europea del Consiglio d’Europa. Ma chi l’ha letto, oltre a quelli che l’hanno scritto? Non è il mago Othelma che mi dà dei numeri, ma personaggi autorevoli che possono aver sbagliato le decine, le centinaia, le migliaia, ma le decine di migliaia no. E qui il discorso si fa serio.

Non era necessario leggere questo testo, che ho trovato in un libro magnifico, tragicamente mai tradotto nella nostra lingua, di uno dei maggiori economisti e demografi del secolo ormai scorso, Alfred Sauvy, L’Europe submergé. Sud-Nord dans 30 ans (Dunod, Parigi 1987, p. 171). L’Europa sommersa, non nel senso del lavoro sommerso, ma nel senso dell’Europa nella quale arrivano, a sommergerla, elementi che hanno delle caratteristiche.

Vent’anni fa giravamo per le nostre città e ogni tanto incontravamo qualche signore vestito in modo esotico, ma era esotismo. Quando questa coloritura ha cominciato a diventare intensa e meno esotica, ha cominciato ad avere caratteristiche molto più marcate, molto più serie. Che cosa mi sono permesso di fare?

Sono andato in un posto molto importante in Italia, altamente significativo: Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. Su 60 mila abitanti 12 mila sono tunisini. È una bella proporzione. Sono andato a vedere dove il colore si faceva intenso, per cercare di capire. Perché si riduca la sorpresa. La sorpresa nasce quando ci si trova, una mattina, di fronte a fenomeni detti di massa.

Noi siamo uno dei paesi meno interessati al fenomeno immigratorio, siamo un paese di transito. Gli immigrati, in Italia, nel 1998: 1.250.000 terzi — e i clandestini? Di solito si calcolano intorno al 19% e questo è il moltiplicatore che usano quasi tutti. In Francia: 4 milioni, in Germania: 7 milioni, nel Regno Unito: 2 milioni.

Nel caso della Francia e del Regno Unito non è molto facile il loro calcolo per il problema delle cittadinanza e i demografi stessi hanno problemi. Quello che m’interessa in questo momento — e mi servo del Dossier Statistico della Caritas di Roma, che è il centro a cui lo stesso ISTAT fa riferimento — è sapere quanti degli immigrati presenti nel nostro paese sono musulmani. Il dato del 1998 diceva 440.000 + il 19% cui prima facevo riferimento. I dati più recenti dicono globalmente 580.000. Quindi la gran parte di questi soggetti è proveniente dal mondo musulmano.

Mi sono posto, pertanto, un problema: se prendiamo una baby sitter cerchiamo garanzie, vorremmo sapere qualche cosa di più sulla persona. E mi sono messo in quest’ottica: sapere qualche cosa di più sul conto di queste persone. Siamo in Italia, abbiamo questa flessione demografica destinata a durare, questi dati non si modificano in breve tempo. I lievi miglioramenti del trend sono tali rispetto al crollo.

Mi preme, a questo punto, ricordarvi una frase di uno scrittore svizzero che dice: «Abbiamo cercato manodopera, sono arrivati uomini». Non arrivano soggetti senza caratteristiche. Altrimenti si comprano robot, ma non risolvono tutti i problemi. Chi affiderebbe la propria mamma a un robot? Sono uomini: che caratteristiche hanno? Mi sono documentato sulla loro mentalità, il loro giro mentale.

Un autore di cui mi sono ampiamente servito, padre Maurice Borrmans, che insegna Diritto Islamico al Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, rilasciò, qualche anno fa, un’intervista in tema di matrimonio misto dando questi consigli in caso di volontà di sposare un musulmano: 1° il matrimonio è sempre a rischio; 2° andare almeno 6 mesi nel paese di origine del futuro coniuge, per farsi un’idea. Io non sono andato in Tunisia o in Algeria ma in una vicina libreria e ho acquistato libri sull’islam.

Durante il mio lavoro di ricerca sono venuto pian piano scoprendo una cosa che mi ha profondamente turbato: la descrizione di questa realtà non era affidabile. Una volta su Repubblica mi hanno fatto dire che l’islam non è affidabile: non l’ho mai detto, né pensato; ho detto, questo sì, che le descrizioni che ne vengono fatte non sono affidabili e mi sono sforzato di dimostrarlo.

Quando, invece di raccontarmi una cosa com’è, mi raccontano una cosa come pensano mi piacerebbe che fosse, la cosa non mi sta bene. Come ho fatto a scoprirlo? Dopo aver letto circa trecento testi si scopre che — in linea di massima — tanto più si scende nelle qualifiche professionali, fra gli esperti, dai più «vecchi» e dai più qualificati ai più «giovani» e ai tuttologi, tanto meno le descrizioni si dimostrano affidabili.

Immaginate che uno vi presenti un volume intitolato Introduzione al cristianesimo, di 100 pagine, di cui 20 su Vangelo, Chiesa, e così via, e 80 su san Francesco. Uno che mi raccontasse che l’80% del cristianesimo è fatto in un questo modo non me lo descriverebbe in un modo serio. Pur non avendo pregiudizi anti-francescani. Il primo elemento che mi ha colpito è stato questo.

Noi tutti siamo abituati a immaginare almeno la distinzione fra religione e politica. La Chiesa e lo Stato possono convivere, possono andare d’accordo, possono litigare, ma non sono la stessa cosa. Siccome nell’islam questo non succede, ma vi è una coincidenza che va al di là dell’accordo, allora questi autori dicono apertamente: «Siccome da noi vi è separazione, raccontiamo solo gli aspetti religiosi».

Questo non mi sta bene, non è corretto. Padre Louis Gardet, dei Piccoli Fratelli di Gesù, dice: «L’islam è dunque, e indivisibilmente religione, insieme giuridico-politico e insieme culturale»; «Dobbiamo guardarci dall’applicare con troppa facilità concetti occidentali direttamente o indirettamente venuti dal cristianesimo. In valori cristiani, noi distingueremmo la Chiesa, “Cristo continuato” che ha le parole di verità eterna, […] e la cristianità, sua figura temporale, con lo splendore dei santi, con tutte le esigenze spirituali impresse nella vita di ogni giorno, ma anche con tutto il peso delle debolezze e le incapacità umane». Anzi, ne abbiamo persino chiesto scusa di genere. Se si sono fatte stupidaggini, sconvenienze, bisogna chiedere scusa. Altri imparino.

«Questa distinzione, indispensabile se si vuol comprendere l’esigenza della fede cristiana nel mistero stesso della Chiesa, […] non ha una corrispondenza esatta nell’Islàm». L’orientalista francese conclude: «La dâr al-Islàm, la casa, il mondo dell’Islàm si presenta, non è mai esagerato ripeterlo, come un tutto politico-giuridico-religioso.

“Quanto alla famosa distinzione, rendete a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare non ha senso nell’Islàm”, diceva nel 1939 il shaykh al-Marâghî rettore dell’Università d’al-Azhar». La famosa distinzione è quella che fonda la nostra esistenza; poi a noi vengono in mente cinquant’anni di Democrazia Cristiana. Ma sono cinquant’anni di commistione, che non è mai stata strutturale. Nessuna ipotesi di coincidenza.

A proposito dell’islam la coincidenza è strutturale e questo non viene detto o viene lasciato intendere, ma, qualche volta, persone serie dichiarano che siccome non lo capiremmo, allora neanche lo dicono.

Un padre domenicano francese, vissuto tutta la vita al Cairo, dice: «L’islam è in effetti un movimento politico-religioso che vuole procurare ai suoi fedeli la felicità in questo mondo e nell’altro». Il professor Mohamed Talbi, specialista di storia musulmana medioevale e di islamologia in una università tunisina, dice: «L’islam è una “religione politica”».

Secondo dato significativo, e anch’esso divergente rispetto a quello cui siamo abituati: la posizione del non musulmano in un paese islamico. Da che cosa la ricavo. Dall’edizione del Corano, l’unica pubblicata in Italia sotto autorità, per quel che vale, islamica. Vi si legge: «Il tributo della jizya è tributo di capitolazione con il quale giudei e cristiani riconoscevano lo stato islamico.

Il pagamento della jizya conferiva loro lo status di dhimmi, “protetti” e con il quale ottenevano il diritto di vivere in pace e in sicurezza nello Stato islamico». Cittadini di due categorie. Il cittadino di categoria piena, il musulmano, e il cittadino di seconda categoria. Poi ci sono quelli senza categoria, quelli che non sono «gente del Libro». Ne sanno qualcosa gli animisti del Sudan, che, quando vengono presi, si dichiarano cristiani per non fare una pessima fine: da cristiani gli fanno pagare il tributo e li lasciano liberi.

Terzo punto. In questi giorni abbiamo sentito ripetere la parola dialogo usque ad nauseam, «dialogo islamo-cristiano». Ma manca l’interlocutore, non c’è l’interlocutore. Non c’è nessuna autorità. Vi leggo un brandello di un signore che devo immaginare che se ne intenda, nato a Tunisi da famiglia israelita di origine spagnola, vissuto a lungo in Italia dove ha insegnato in Italia, è morto nel 1931 ed è autore di un trattato di diritto musulmano che viene utilizzato nelle università del Nord Africa, David Santillana, scrive: «Tra Allah e il credente non vi sono intermediari. L’islam non ha chiese, non sacerdoti, non sacramenti.

A che i mediatori tra l’uomo e Colui che l’ha creato, che lo ha conosciuto prima che nascesse, ed “è più vicino a lui della sua vena iugulare?”. Dopo il Profeta, il quale ha trasmesso all’uomo il Verbo definitivo di Dio, Allah non può avere altri interpreti né altri ministri della sua volontà. L’uomo è solo al cospetto di Dio, in vita e in morte, può sempre dirigersi a Lui, direttamente senza introduttori e senza cerimonie, come farebbe ad un “sayyd” arabo.

Dalla nascita alla tomba l’individuo è solo sotto l’occhio di Dio, cui nulla sfugge, cui è presente ogni atto, ogni parola, ogni più intimo pensiero dell’uomo; solo risponderà delle sue azioni, e solo si presenterà al Tribunale di Dio, dinanzi al quale non varranno “intercessori né mediatori”». E conclude: «Il Protestantesimo più rigido sembra quasi una religione sacerdotale, di fronte a questo monoteismo individualista, intransigente, esclusivo di ogni intervento tra l’uomo e il suo Dio».

Quante volte sentiamo parlare, anche in questi giorni, di autorità islamica. L’unica autorità islamica è l’autorità politica, che però non ha nessuna possibilità di operare interferenze di carattere religioso. Quando, citando David Santillana, dico che è un colossale protestantesimo non sto facendo riferimento a Lutero: è un’analogia, non un’identità. Vuol dire che vi è solo la Scrittura con un’aggiunta.

Immaginate che il Protestantesimo non sia sola scriptura, ma vi siano anche i dialoghi a tavola di Lutero. Questi sono gli oltre centomila detti del Profeta raccolti verbalmente dopo la sua morte e sintetizzati. Ogni musulmano, quindi, è a sé. Quando noi dialoghiamo con un musulmano, dialoghiamo con lui, neanche con sua moglie. Non è in grado d’impegnare nessuno. Le autorità religiose cattoliche lo sono venute scoprendo: negli anni 1950, quando mons. Pignedoli andò in Libia per un incontro islamo-cristiano. A firmare il documento finale si presentò Gheddafi, in assenza di qualsiasi autorità religiosa. L’incontro si concluse senza documento finale.

I termini sono molto gravi. Ci troviamo di fronte a una condizione che dice: Chiesa e Stato coincidono, non c’è interlocutore ufficiale per il dialogo. Quando c’è lo Stato islamico, chi non è musulmano ha condizioni di protetto. Lo scritto, che vi leggo a questo proposito, porta la firma di Husayn ‘Abd al-Râziq Quwatli, morto nel 1993; ha studiato lettere al Cairo e filosofia all’Université Saint-Joseph di Beirut, città nella quale ha poi insegnato precisamente filosofia all’Université Libanaise; all’epoca era gran muftî di Beirut — carica ricoperta dal 1968 al 1991 —, cioè direttore generale della principale istituzione sunnita del luogo.

Dice: «Vi è una posizione chiara in Islam: il musulmano non può avere un atteggiamento indifferente di fronte allo Stato e, ipso facto, ammettere le mezze soluzioni a proposito di chi dirige e del potere. O chi dirige è musulmano e il potere anche, allora è soddisfatto e lo approva; oppure chi dirige non è musulmano e il potere non è islamico, allora lo rifiuta, gli si oppone e opera per sopprimerlo con la dolcezza o con la forza, apertamente o in segreto. Questo atteggiamento deriva da un principio fondamentale dell’islam.

Quindi è un fondamento ideologico dottrinale del musulmano e ogni concessione, anche parziale, significa per forza una concessione al suo islam […]. I musulmani non hanno ricevuto questa dottrina in eredità dai loro genitori per poterla trasformare ma credono che sia stata loro dettata dal Profeta […]. Senza lo Stato islamico, la dottrina del musulmano è incompleta e l’è pure la giustizia islamica: amputare la mano del ladro, lapidare l’adultera, uccidere l’assassino, versare l’elemosina, intraprendere il djihad, tutti questi doveri non possono essere compiuti completamente senza lo Stato islamico e il governo dei musulmani».

Si è appena detto che questa è la sua opinione, ma è un’opinione diffusa. Questa è l’unica cosa che si può dire. Forse non tutti la pensano così e praticano questo, ma se uno lo pratica così, nessuno gli può dire di non essere un vero musulmano.

Due, tre mesi fa il professor Khaled Fouad Allam, che insegna all’Università di Trieste e che da un po’ di tempo collabora alla Stampa di Torino contestò il carattere musulmano dei talebani. Nessuno ha titolo per dire una cosa del genere. O meglio, tutti possono dire cose del genere, ma si tratta di dichiarazioni irrilevanti.

Ultimo punto, e oggi mi è più facile parlarne rispetto a due mesi fa, anche se sostanzialmente doloroso: il problema del terrorismo. Uso sempre l’unica edizione del Corano pubblicata da musulmani in Italia (Il Corano, trad. it., a cura di Hamza Roberto Piccardo, Newton & Compton, Roma, 1999); e il Corano è intraducibile, infatti tutte le formule usate quando viene presentato in una lingua diversa dall’arabo sono del tipo: interpretazione in lingua italiana del sacro Corano.

Nella sura VIII intitolata Il Bottino, si legge: «Di fronte ad Allah non ci sono bestie peggiori di coloro che sono miscredenti e che non crederanno mai; «coloro con i quali stipulasti un patto e che continuamente lo violano e non sono timorati. «Se quindi li incontri in guerra sbaragliali facendone un esempio per quelli che li seguono, affinché riflettano. «E se veramente temi il tradimento da parte di un popolo, denunciane l’alleanza in tutta lealtà, ché veramente Allah non ama i traditori.

«E non credano di vincere i miscredenti. Non potranno ridurCi all’impotenza. «preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete raccogliere e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati».

A commento nell’edizione italiana curata dall’ UCOI, l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche, si legge: «Preparate … per terrorizzare …: il Corano teorizza chiaramente il valore della deterrenza» (p. 164, nota 28). Sono cose che si leggono con dispiacere, non con piacere. Non c’è minimamente compiacimento, c’è semplicemente una tragica constatazione. Mons. Bernardini, vescovo attuale di una città della Turchia, racconta di un buon inserviente musulmano, il quale un giorno gli rivelò che i cristiani sarebbero stati uccisi. Questo inserviente si offrì di farlo lui stesso per ridurre loro le sofferenze. Ma tutti i musulmani sono così?

Qualcuno parla di minoranze cattive all’interno di una maggioranza buona. Il partito integralista islamico ha vinto le elezioni in Algeria e soltanto perché il governo ha bluffato e l’esercito ha cominciato a sparare l’Algeria non è finita in quel modo, ma, come sapete, in guerra pendente. Lo stesso vale per il partito integralista in Turchia. Quest’anno, in luglio, la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso una sentenza in cui dice: «Se quel partito è al potere la Turchia non può far parte dell’Unione Europea» perché ci sono elementi che contrastano con la nostra prospettiva. Quelle che vi ho detto sono cose riscontrabili, non le ho inventate.

Si fa presto a dar per risolvibile questo problema; io non conosco soluzione; non la conosce una persona alla quale guardo con molta attenzione, il regnante Pontefice Giovanni Paolo II, che nel messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2001 dice: «Sul tema dell’integrazione culturale tanto dibattuto al giorno d’oggi, non è facile individuare assetti e ordinamenti che garantiscano in modo equilibrato ed equo, i diritti e i doveri tanto di chi accoglie quanto di chi viene accolto. […] In una materia così complessa, non esistono formule “magiche”; è tuttavia doveroso individuare alcuni principi etici di fondo a cui fare riferimento. Primo fra tutti, è da ricordare il principio secondo cui gli immigrati vanno sempre trattati con il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. A questo principio deve piegarsi la pur doverosa valutazione del bene comune, quando si tratta di disciplinare i flussi migratori. Si tratterà allora di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti. Quanto alle istanze culturali di cui gli immigrati sono portatori, nella misura in cui non si pongono in antitesi ai valori etici universali, insiti nella legge naturale, ed ai diritti umani fondamentali, vanno rispettate e accolte».

Lo Stato deve pensare ai problemi di convivenza. Padre Jacques Jômier — un domenicano vissuto lungamente al Cairo — parla di una tradizione «molto conosciuta nel Medioevo», ma che pare tutt’altro che sconosciuta anche attualmente in quanto pure in un’opera datata Medina 1964, tradotta in italiano nel 1990, La Via del Musulmano, si legge: «l’apostata che rinnega la sua fede e diventa israelita o cristiano o ateo o comunista marxista, di sua propria volontà e senza esservi costretto […] Per tre giorni si cerca di convincerlo a ritornare alla sua fede. Se rifiuta gli viene inflitta la pena di morte applicando la prescrizione divina. […] — che recita — Uccidete chiunque abiura la sua fede». Non sono cose del Medioevo e i termini sono molto più drammatici.

Vi leggo l’articolo 126, comma 2 del vigente Codice Penale della Repubblica del Sudan, del 1991:«Chi commette il delitto di apostasia è invitato a pentirsi in un tempo determinato dal tribunale, se persiste nell’apostasia e non si è convertito di recente all’Islam, sarà punito con la morte».

Il Codice Penale della Repubblica di Mauritania, del 1984, prevede la stessa pena, con la stessa descrizione del reato, all’articolo 306, però la estende a ogni musulmano maggiorenne che rifiuta di pregare pur riconoscendo l’obbligo della preghiera. Che cosa fare, non chiedetemelo: vi ho detto che non avrei fornito soluzioni. Come affrontare il problema? Non conosco la soluzione, ma dico soltanto che l’ultimo modo di affrontare un problema è non conoscerlo. Mi sono sforzato semplicemente di mettervi di fronte al problema. Come dicevo prima, citando Seneca «curae ingentes stupent», i grandi problemi lasciano con la bocca aperta: spero che ciascuno si assuma le sue responsabilità.

Vi ringrazio.