Il velo islamico, una violenza e simbolo di oppressione

Abstract: Il velo islamico, una violenza e simbolo di oppressione. La cronaca restituisce puntualmente dei casi che indignano l’opinione pubblica, come quanto accaduto a Pordenone una manciata di settimane fa: una bimba di appena dieci anni era stata costretta ad andare a scuola col l niquab, il velo islamico che copre l’intero voto e il corpo, lasciando scoperti soltanto gli occhi.  

Panorama 20 Marzo 2024

Generazione velata

C’è la bambina costretta ad andare a scuola con il niqab che lasciava visibili soltanto gli occhi. C’è la ragazza picchiata dai genitori perché si rifiutava di coprirsi la testa. Ci sono tragedie che ricordano come in Italia troppi musulmani rifiutino il libero arbitrio delle donne, senza rispettare usi e costumi nazionali, ma qualcuno dice «no».

di Flavia Piccinni

«Mio padre mi ha costretta a mettere il velo a undici anni. Avevo avuto il menarca il giorno prima, e lui la mattina si è presentato con un piccolo pacchetto: dentro c’era un hijab rosa. Mia madre mi ha insegnato come metterlo e da quel momento non ho più potuto tenere i capelli al vento, una delle cose che più mi piacevano».

Queste parole le dice Fatima, che adesso ha 16 anni e vive alla periferia di Pistoia con i genitori e il fratello più piccolo. Da quel giorno di primavera di cinque anni fa, non è più uscita di casa senza lo hijab. «Mi sono lamentata con mia madre, ma lei non ha potuto fare nulla: mio padre ha costretto anche lei a indossarlo. Anzi, ha fatto di peggio. L’ha obbligata a licenziarsi, perché doveva stare a casa», prosegue la ragazza.

«Per me è un incubo, ma non posso fare niente. Spero sempre che mio padre torni quello di prima. Lui non era così. Tutto è cambiato dopo un viaggio a casa, in Marocco. Dopo aver passato lì l’estate, quado siamo tornati era diventato un integralista. Da allora le nostre esistenze sono state stravolte», conclude con gli occhi umidi.

La storia di Fatima non può lasciare indifferenti, e purtroppo non è un’eccezione. Per quanto non esista una stima precisa, sono migliaia le bambine cresciute in Italia che ogni anno sono obbligate dalle famiglie a portare il velo in osservanza delle prescrizioni musulmane.

La cronaca restituisce puntualmente dei casi che indignano l’opinione pubblica, come quanto accaduto a Pordenone una manciata di settimane fa: una bimba di appena dieci anni era stata costretta ad andare a scuola col l niquab, il velo islamico che copre l’intero volto e il corpo, lasciando scoperti soltanto gli occhi. Solo grazie all’intervento della maestra la famiglia musulmana di origine africana si è ricreduta, permettendo alla piccola di scoprire almeno la porzione superiore del viso.

E’ andata diversamente a Vicenza, dove una 16enne che si rifiutava di portare il velo e partecipare alle preghiere è stat picchiata dai genitori, una coppia di senegalesi di religione musulmana, che sono stati denunciati per maltrattamenti. O, ancora, a Ostia: qui una 14enne originaria del Bangladesh ha accusato madre e fratello di averla malmenata perché non voleva nascondere il capo.

«Negare l’esistenza di un problema relativo alla condizione di molte donne mussulmane in Italia, non è un buon modo per iniziare a trovare una soluzione» esordisce l’europarlamentare della Lega Susanna Ceccardi, che da tempo si occupa di questo tema. «La questione è sotto gli occhi di tutti, come testimoniano i recenti casi di cronaca, ma anche gli omicidi delle giovani donne che volevano avere i diritti di tutte noi quali Saman Abbas, Hina Saleem, Souad Alloumi, Sanaa Dafani, Rachida Radi.

Episodi, anche se gli imam lo negano, con un minimo denominatore comune: il patriarcato islamico, una subcultura retrograda che umilia e sottomette tante nostre concittadine musulmane».

La parlamentare europea è stata di recente protagonista della cronaca per una iniziativa legata alla festa internazionale della donna. «In questa occasione» puntualizza «ho voluto rivolgere un messaggio alle donne più emarginate della nostra comunità, quelle che non parlano l’italiano, non lavorano, non hanno vita sociale, non escono di casa se non accompagnate dai loro mariti.

Così sono nati i manifesti col volto di una ragazza velata e la scritta “In Europa hai gli stessi diritti di tuo marito”, frase tradotta anche in lingua araba proprio per rendergliela comprensibile. Ne è nato un grande dibattito, e molti attacchi da parte degli imam. A dimostrazione che una vera integrazione in Italia ancora non c’è e che molte donne islamiche nel nostro Paese sono oppresse, forse ancor più che in alcuni paesi del Medio Oriente. E il velo, quando non è frutto di libera scelta, è un simbolo di questa oppressione»

Simile il punto di vista della sindaca Anna Maria Cisint, che da anni evidenziale difficoltà di integrazione nella sua Monfalcone, 30 mila abitanti in provincia di Gorizia (47 mila nel comune «allargato») e una delle percentuali più alte di musulmani del nostro Paese: «La condizione di inferiorità e di sudditanza in cui vengono tenute le donne emerge chiaramente  nella frequentazione scolastica.

Il velo e gli abiti coprenti sono sempre più un elemento di forte appartenenza ideologica radicalizzata, come denunciano le insegnanti e la garante comunale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, tanto che le ragazze della scuola secondaria, durante l’ora di educazione motoria, rifiutano di toglierli e svolgono l’attività fisica indossando vesti ingombranti del tutto inadatti e spesso con la copertura integrale del volto.

Nello stesso tempo, anche all’interno delle classi, emerge la condizione di sudditanza femminile verso i compagni maschi, che talvolta arrivano addirittura a sostituirsi nell’interazione verbale tra le alunne e gli inseganti, intervenendo e rispondendo al posto delle ragazze».

E’ una fotografia allarmante, anche per i più fervidi sostenitori della libertà di culto, che obbliga a riflettere su come la questione del velo – spesso semplificata se non strumentalizzata, e derubricata a esempio di islamofobia o razzismo – sia decisamente più complessa di quanto possa apparire a una considerazione superficiale.

Le discussioni sul tema riguardano vari aspetti della vita sociale e religiosa delle comunità musulmane, tra cui l’età in cui le ragazze iniziano ad indossare il velo: secondo alcune interpretazioni religiose, l’età minima varia in base alla maturità sessuale, generalmente intorno ai 13 anni, ma non meno di 10.

Doveroso è sottolineare che costringere bambine molto piccole a portare il velo è visto da alcuni musulmani come una forma di estremismo religioso, poiché può ostacolare il gioco e una crescita sana. ù

Ciò che è stato denunciato in Germania dall’associazione Terre des Femmes, che ha richiesto l’introduzione di un divieto per legge del velo per le bambine negli spazi pubblici e nelle istituzioni educative fino ai 18 anni, in linea con la definizione promossa dalla Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia, finalizzata a garantire un periodo di vita libero da simboli religiosi e ideologici e promuovere una formazione che favorisca un pensiero democratico e un trattamento equo.

Attualmente nel nostro Paese non esiste una legislazione specifica che vieti il velo islamico. La Costituzione garantisce infatti la libertà di religione, che include il diritto di esprimere la propria fede anche attraverso abiti religiosi, ma sono numerose le discussioni riguardanti questo simbolo religioso in contesti specifici. «la Lega» commenta sul punto Ceccardi «proporrà il divieto del velo integrale nelle scuole e nei luoghi pubblici, come già avviene in Francia e in Belgio, per il rispetto dei diritti delle donne, delle bambine e per la sicurezza pubblica. Per me è una battaglia di civiltà».

Il confronto sull’argomento è ampio. A sintetizzarlo Marta Stella, da poco in libreria con Clandestine – il romanzo delle donne (Bompiani, pp.396, euro 20): «il velo ci chiama a riflettere sul concetto di libertà partendo dalle sue stesse fondamenta. Le bambine, poi, sono la genesi per eccellenza: donne in potenza che ancora non hanno voce. Credo che solo alle donne dovrebbe spettare l’interpretazione, e quindi il significato spirituale, di un lembo di stoffa che dovrebbe interrogare anche la stessa comunità musulmana. Non possiamo dimenticare le parole della scrittrice Mahsa Mohebali, che spiega come alle donne iraniane siano negati tanti diritti che altrove vengono dati per scontati. Togliersi il velo è diventato un modo di rivendicarli, di raccoglierli tutti sotto un unico simbolo. In questo caso, proprio ciò che dovrebbe nascondere in realtà rivela l’antico ed eterno conflitto tra tradizione e libertà, tra religione e repressione, tra autodeterminazione e sottomissione. Il dibattito sul velo ci riporta al principio della storia femminile: il corpo delle donne è, ancora e sempre, il vero campo di battaglia».

Altra, fondamentale, terra di conquista è l’indipendenza economica. «Sei sempre quello che possiedi, e se non possiedi nulla, allora non sei» riflette la scrittrice Melissa Panarello, tornata in libreria con Storia dei miei soldi (Bompiani, pp.208. euro 18). «Le donne in Occidente spesso non possiedono denaro, o se lo possiedono lo mettono in mano ad altri, agli uomini, alle famiglie di origine, timorose della libertà che i soldi sono in grado di regalare. In altri casi non si possiede nemmeno il corpo. Essere separate dal proprio corpo, da ciò che il corpo può fare, dire, essere, è qualcosa di straniante e disumano. La libertà risiede nella scelta, laddove non esiste scelta c’è solo terrore».

E purtroppo stando alle testimonianze, si tratta di u terrore che le donne musulmane – bambine ma anche adolescenti – vivono quotidianamente in tutto il mondo. Per affermare loro stesse, e il loro diritto a scegliere in libertà. Anche nel nostro Paese.

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